Teologia dei Padri

Indice

La solitudine

1. - La vita solitaria e la vita comune

La vita in comune di molti che tendono allo stesso fine, so che è molto utile.

Anzitutto perché nessuno è sufficiente a se stesso per ciò che necessita al corpo, ma abbiamo bisogno degli altri per procurarci il necessario.

Il piede ha una capacità propria, ma è privo di altre; senza l'aiuto delle altre membra, né la sua propria capacità sola gli è sempre sufficiente, né può surrogare alle altre: così nella vita solitaria: quel che abbiamo ci è inutile, e quel che ci manca non possiamo procurarcelo; e questo perché Iddio creatore ha stabilito che avessimo bisogno l'uno degli altri, come sta scritto, e fossimo così uniti a vicenda.

Oltre a ciò, l'amore di Cristo non ammette che ciascuno riguardi qualcosa come proprio: L'amore, sta scritto infatti, non ricerca il suo interesse ( 1 Cor 13,5 ).

Ma la vita solitaria ha come scopo unico la sollecitudine per le proprie necessità individuali.

Ciò si oppone chiaramente alla legge dell'amore, legge che l'Apostolo adempì non cercando il proprio tornaconto, ma quello di molti, perché raggiungessero la salvezza ( 1 Cor 10,33 ).

Nella solitudine, inoltre, non è facile per nessuno riconoscere le proprie colpe, non avendo chi lo ammonisca, chi lo corregga con soavità e clemenza; il rimprovero, infatti, spesso perfino se viene da un nemico, genera nel saggio il desiderio di correggersi e il peccato viene saggiamente curato da colui che ama sinceramente.

Chi ama, è detto infatti, ammaestra con diligenza ( Pr 13,24 ).

Ma nella solitudine è assai difficile trovare chi si comporti così, se prima non si è unito in vita comune.

Perciò avviene ciò che sta scritto: Guai a chi è solo: se cade non vi è chi lo rialzi ( Qo 4,10 ).

E le leggi vengono per lo più facilmente osservate da molti uniti insieme, non invece da uno solo: nell'effettuazione, infatti, l'una impedisce l'altra.

Per esempio visitare gli infermi impedisce di accogliere i forestieri, la beneficenza e la partecipazione all'amministrazione ( soprattutto se si tratta di servizi che occupano lungo tempo ) impediscono le opere buone; si tralascia così il comandamento grande, tanto possente a salvarci: cioè non si dà da mangiare a chi ha fame, né si veste chi è nudo.

Chi vorrebbe dunque anteporre una vita inerte e infruttuosa a una vita ricca di frutti e ossequiente al precetto del Signore?

Ora, se noi tutti, assunti nell'unica speranza della nostra vocazione, siamo un unico corpo, abbiamo per capo Cristo; e ciascuno è membro degli altri solamente se per la concordia siamo uniti a formare nello Spirito Santo la struttura di un solo corpo.

Invece, se ciascuno di noi sceglie la vita solitaria non per piacere a Dio servendo al bene comune nell'economia della salvezza, ma seguendo, nell'indipendenza assoluta, le proprie inclinazioni: come ci è possibile conservare, così divisi e disuniti, il rapporto mutuo tra le membra e l'obbedienza, la subordinazione al nostro capo, che è Cristo?

Non possiamo rallegrarci con lui glorificato né possiamo soffrire, con lui sofferente, se siamo separati nella vita e, com'è naturale, nessuno sa conoscere la situazione altrui.

Inoltre, poiché nessuno è in grado di ricevere tutti i carismi spirituali, ma l'elargizione dello Spirito è proporzionata alla fede che è in ciascuno, con la vita in comune il carisma proprio di ciascuno diventa comune a tutti i compagni.

A uno è concesso il linguaggio della sapienza, all'altro il linguaggio della scienza, a un altro la fede, a un altro la profezia, a un altro il dono di curare, eccetera ( 1 Cor 12,8-10 ): e chiunque ha ricevuto ciascuno di questi doni, lo ha ricevuto non tanto per sé, quanto per gli altri.

Perciò necessariamente nella vita comune la forza e l'efficacia dello Spirito Santo concessa a uno passa insieme a tutti gli altri.

Chi dunque vive da solo, può avere forse un carisma, ma seppellendolo in se stesso lo rende inutile e inattivo: e quanto ciò sia pericoloso, lo sapete bene voi che avete letto i Vangeli.

Invece, nella convivenza con molti, ciascuno gode del suo dono particolare e lo moltiplica comunicandolo agli altri, e inoltre ricava dai doni degli altri tanto frutto come dal suo.

Basilio il Grande, Regole lunghe, 7

2. - Ferma perseveranza nella solitudine

Quando ti si presentano questi pensieri cattivi: Che utilità c'è a vivere in questo posto?

Che guadagno ti arreca tenerti lontano dall'umana società? … quando dunque la tentazione vuole infrangere la tua resistenza, contrapponile, con santi ragionamenti, la tua pratica esperienza, e dille: « Tu mi dici che le cose del mondo sono buone; ma io mi sono allontanato dal mondo perché mi ritengo indegno dei suoi beni.

I beni mondani sono mescolati ai mali, e anzi i mali prevalgono, e di molto …

É questa la causa per cui mi sono ritirato su un monte, come un passero: sono infatti un passero liberato dal laccio dei cacciatori.

E vivo nel deserto, o pensiero cattivo, in cui visse il Signore.

Qui c'è la quercia di Mamre; qui c'è la scala del cielo e le schiere angeliche che Giacobbe vide; questo è il deserto in cui il popolo purificato ricevette la legge e, entrato poi nella terra promessa, vide Dio.

Questo è il monte Carmelo su cui Elia visse e piacque a Dio.

Questo è il campo in cui si ritirò Esdra e per incarico di Dio esaminò tutti i libri da lui ispirati.

Questo è il deserto in cui san Giovanni, nutrendosi di locuste, annunciò la penitenza agli uomini.

Questo è il monte degli ulivi, in cui Cristo ascese per pregare e ci insegnò a pregare.

Qui è Cristo, amico della solitudine; dice infatti: Dove due o tre sono uniti nel mio nome, ivi sono io, in mezzo a loro ( Mt 18,20 ).

Qui è la via stretta e angusta che conduce alla vita ( Mt 7,14 ).

Qui sono i maestri e i profeti, che vagarono nei deserti, tra i monti le grotte e le cavità del suolo ( Eb 11,38 ).

Qui ci sono gli apostoli e gli evangelisti, qui i monaci conducono la loro vita, lontano dalle città.

Tutto ciò ho scelto liberamente per ottenere ciò che è stato promesso ai martiri di Cristo e a tutti gli altri santi, per poter affermare, senza mentire: Per le parole delle tue labbra io mi sono mantenuto sulle vie dure ( Sal 17,4 ).

Basilio il Grande, Le Lettere, 42,4-5 ( al discepolo Chilone )

3. - Su ogni luogo della terra il cielo è spalancato

Non è un titolo di onore il fatto di essere stati a Gerusalemme; lo è se a Gerusalemme si è vissuti bene.

É a quella città che bisogna aspirare, certo! Proprio a quella!

Ma non in quanto città che ha ammazzato i profeti e versato il sangue di Cristo, bensì in quanto è allietata da un fiume straripante, e, posta sul monte, non può stare nascosta; oltre al fatto poi, che l'Apostolo la chiama madre dei santi ed è lieto di avervi cittadinanza con i giusti.

Ti ho accennato queste cose, senza tuttavia voler accusare me stesso di incostanza, senza voler condannare quello che faccio.

Non vorrei aver l'aria d'aver lasciato inutilmente - seguendo l'esempio di Abramo - la famiglia e la patria.

Ma non ho neppure il coraggio di racchiudere l'onnipotenza di Dio in confini troppo stretti e di coartare su un piccolo punto della terra colui che il cielo stesso non contiene.

I credenti vengono apprezzati personalmente, non in base al diverso posto in cui risiedono, ma in base al merito della loro fede.

I veri adoratori, non adorano il Padre né a Gerusalemme né sul monte Garizim, perché Dio è spirito, ed è necessario che i suoi adoratori lo adorino in spirito e verità. Ora, lo Spirito soffia dove vuole.

É del Signore la terra e tutto ciò che contiene.

Tutto il mondo, dopo che il vello giudaico si fu asciugato, venne cosparso di rugiada celeste; molti che venivano dall'oriente e dall'occidente si riposarono sul seno di Abramo; finì il tempo in cui Dio era conosciuto soltanto in Giudea e il suo nome glorificato solo in Israele.

Da allora la voce degli apostoli arrivò a tutta la terra, le loro parole giunsero ai confini del mondo.

Il Salvatore, parlando con i suoi discepoli un giorno che si trovava nel tempio, ebbe a dire: Andiamocene via di qui ( Gv 14,31 ), e rivolto ai giudei: La vostra casa vi sarà lasciata in completo abbandono ( Mt 23,38 ).

É certo che se cielo e terra passeranno, finiranno pure tutte le cose della terra.

Di conseguenza, anche dai luoghi della croce e della risurrezione ne traggono vantaggio solo coloro che portano la croce ogni giorno e che ogni giorno risorgono con Cristo; coloro, insomma, che si mostrano meritevoli di abitare in una località così gloriosa.

Del resto, quelli che vanno ripetendo: Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore ( Ger 7,4 ), stiano a sentire l'Apostolo: Siete voi il tempio di Dio, e lo Spirito Santo abita in voi ( 1 Cor 3,16; 2 Cor 6,16 ).

Stai a Gerusalemme? Stai nella Britannia?

Non c'è differenza: la dimora celeste ti sta dinanzi, aperta, perché il regno di Dio è dentro di noi.

Né Antonio né alcun altro gruppo di monaci dell'Egitto e della Mesopotamia, del Ponto, della Cappadocia e dell'Armenia hanno visto Gerusalemme; eppure la porta del paradiso è loro spalancata, anche se non hanno avuto niente a che fare con questa città.

Sant'Ilarione era palestinese, in Palestina ci viveva; eppure Gerusalemme la vide per una giornata soltanto.

Non voleva dare l'impressione, dato che vi si trovava vicino, di disprezzare questi santi luoghi, ma ha voluto pure far capire che non si deve limitare Dio in un punto determinato.

Dal tempo di Adriano fino all'impero di Costantino, per ben centottanta anni circa, nel luogo della risurrezione e sulla roccia della crocifissione sono state venerate rispettivamente un'effigie di Giove e una statua marmorea di Venere postevi dai pagani; gli autori delle persecuzioni pensavano di riuscire a strapparci la fede nella risurrezione e nella croce solo col fatto di profanare con i loro idoli questi luoghi sacri.

Betlemme, ora nostra, e che è la cittadina più augusta del mondo ( di lei il salmista cantava: La verità è fiorita dalla terra: Sal 85,12 ) era stata messa in ombra da un boschetto sacro a Thamuz, cioè ad Adone, e nella grotta dove aveva dato i suoi vagiti Cristo appena nato, si piangeva sull'amante di Venere.

« Ma dove vuoi arrivare » mi dirai « con questo discorso che prende le mosse da un prologo chilometrico? ».

A questo: non fissarti sul pensiero che la tua fede sia incompleta per non aver visto Gerusalemme e non pensare neppure che noi siamo migliori di te, solo per il fatto che abbiamo la fortuna di abitare qui.

La verità è che sia qui, sia altrove, la tua ricompensa da parte del nostro Dio sarà identica, a parità di opere.

Effettivamente ( per confessarti con tutta semplicità quanto mi macina dentro ), se mi fermo a pensare all'ideale che tu insegui e all'ardore col quale hai dato l'addio al mondo, mi pare che riguardo a un cambiamento di residenza si debba tenere questa linea: lasciare la città e tutto il caos cittadino, andare ad abitare in qualche angolo di campagna, cercare Cristo nella solitudine, pregare sulla montagna in un a tu per tu con Gesù, e accontentarti anche solo della vicinanza dei luoghi santi.

In altre parole; anche se devi fare a meno di questa città, non devi perdere assolutamente il tuo ideale di vita monastica.

Questa linea che propongo non riguarda né i vescovi né i sacerdoti né i chierici: a loro incombe un altro ministero.

Riguarda proprio il monaco, e un monaco che magari tempo addietro aveva una posizione illustre nel mondo, uno che ha deposto ai piedi degli apostoli il ricavato dei suoi possedimenti, proprio per far capire che il denaro è roba da buttarsi sotto i piedi.

Così, conducendo una vita umile e nascosta, può continuare a non far conto alcuno di quelle cose che già una volta ha disprezzato.

Se i luoghi della crocifissione e della risurrezione non si trovassero in una città importantissima come questa, dove esiste un pretorio, una caserma, donne di malaffare, mimi, parassiti, tutte quelle cose, cioè, che si è soliti trovare nelle altre città; oppure, se essa fosse frequentata unicamente da folle di monaci, veramente un soggiorno del genere dovrebbero desiderarlo tutti quanti i monaci.

Ma le cose, ora, stanno proprio all'opposto, ed è una pazzia autentica pensare di ritirarsi dal mondo, lasciare la patria, abbandonare la città, far professione di vita monastica, per trovarsi poi a vivere all'estero in mezzo a un brulicame di persone, maggiore di quello in cui avresti vissuto in patria.

Qui vengono da ogni parte del mondo, la città rigurgita d'ogni sorta di uomini; e c'è un tal pigia pigia di persone d'ambo i sessi che mentre altrove - almeno in parte - potevi evitarlo, qui sei costretto a digerirtelo in pieno.

Ma tu, come un fratello, mi hai fatto una domanda: « Qual è la mia via? ».

E io ti rispondo senza reticenze.

Se vuoi darti al ministero sacerdotale, se per caso ti attira o il lavoro o l'onore dell'episcopato, stattene in città o nei villaggi, e salva le anime degli altri per farne profittare la tua.

Se invece desideri vivere proprio da monaco, in forza del nome che porti ( vale a dire: solo ), che stai a fare nelle città, che non sono certo il rifugio di soli, ma di folle?

Girolamo, Le Lettere, II, 58,2-5 ( al sacerdote Paolino )

4. - Anche nelle città è possibile vivere virtuosamente

Dove sono quelli che dicono che non è possibile conservare la virtù vivendo in città, ma è necessario appartarsi e dimorare sui monti, perché chi governa la propria casa, chi ha moglie, chi deve curarsi dei figli e dei domestici, non può essere virtuoso?

Contemplino costoro un uomo giusto ( Lot ) che ha moglie e figli e servi, e che vive in una città ( Sodoma ), tra gente tanto empia e perversa, eppure riluce come una scintilla in mezzo al mare e non solo non si spegne, ma ogni giorno aumenta in splendore.

E dico ciò, non per proibire la fuga dalla città, né per proibire la vita solitaria sui monti e negli eremi, ma per mostrare che a chi vuol vivere nel digiuno e nella veglia tutto questo non gli è di impedimento.

Come dunque a chi è leggero e inclinato alla terra neppure la vita eremitica può essere di vantaggio, perché non è il luogo che ci rende virtuosi, ma la volontà e il comportamento, così a chi è sobrio e vigilante neppure vivere in mezzo alla città può essere di danno.

Perciò vorrei che, come quel santo uomo, tutti i virtuosi vivessero in città, affinché fossero come lievito in mezzo agli altri e ne attirassero molti a imitare la loro virtù.

Tuttavia, poiché ciò sembra troppo scabroso, avvenga almeno che ci si allontani da questo mondo.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 43

5. - Desiderio di solitudine

Chi mi darà le ali come colomba? e volerò e mi riposerò ( Sal 55,7 ).

Il salmista bramava la morte, oppure desiderava la solitudine.

Dice in sostanza: Mi si propone, anzi mi si ordina, di amare i nemici; e intanto le offese di costoro, sempre più frequenti e già in grado di avvolgermi come in un'ombra, sconvolgono il mio sguardo, turbano la mia vista, feriscono il mio cuore, uccidono l'anima mia.

Vorrei andarmene, per non restare qui e non aggiungere peccati a peccati, ma sono debole.

Rimarrei volentieri alquanto segregato dal genere umano, in modo che la mia ferita non riceva colpi su colpi e, una volta guarito, possa riprendere la battaglia.

Sono cose che accadono, fratelli; e spesso sorge nell'animo del servo di Dio il desiderio della solitudine, proprio a causa delle infinite tribolazioni e degli scandali.

Dice: « Chi mi darà le ali? ».

Si accorge di essere senza ali, o piuttosto vede che le sue ali sono legate?

Se non le ha, gli siano date! Se sono legate, vengano sciolte!

Perché chi apre le ali all'uccello è come se gliele desse o restituisse.

L'uccello le aveva, ma erano come non sue, finché con esse non poteva volare.

Anzi, le ali legate costituiscono un fardello …

Non di rado si fanno tentativi per correggere certi uomini fuorviati, disonesti, che pure sono affidati alle nostre cure.

Nonostante tutto, riesce vano, nei loro riguardi, ogni sforzo, ogni vigilanza umana.

Non si riesce a correggerli; non resta che sopportarli.

Eppure, colui che non riesci a correggere è uno dei tuoi: tuo perché, come te, fa parte del genere umano, oppure perché molte volte è della tua stessa comunità ecclesiale.

É uno che sta dentro le porte: e tu che farai? Dove andrai?

Dove ti vorrai appartare per non dover più soffrire certe cose?

Stagli, invece, più vicino che puoi! Parla, esorta, attira, minaccia, rimprovera!

« Ma ho fatto tutto ciò » dici, « ho usato e impegnato ogni mia forza.

Nonostante tutto, però, mi accorgo di non essere riuscito a nulla.

Ci ho messo tutta la cura. Non mi è rimasto che il dolore …

Non posso giovare loro.

Oh, voglia il cielo che io mi possa riposare in qualche luogo ( separato da loro con il corpo, non con l'amore ), in modo che in me tale amore non sia turbato!

Non posso giovare loro con le mie parole, con i miei ragionamenti; forse potrò essere loro utile con la mia preghiera … ».

Un tale desiderio dev'essere necessariamente nel cuore; ma in grado di possederlo sarà solo colui che avrà cominciato a camminare per la via stretta.

Saprà certamente, un uomo di questa tempra, che non mancano alla Chiesa le persecuzioni, neanche in questo tempo in cui essa sembra essere al sicuro da quelle persecuzioni che subirono i nostri martiri.

Non mancano, nemmeno oggi, le persecuzioni, perché sono vere le parole: Tutti coloro che vogliono piamente vivere in Cristo subiranno persecuzione ( 2 Tm 3,12 ).

Se non subisci persecuzione, è segno che non hai deciso di vivere piamente in Cristo.

Vuoi provare la verità di queste parole? Comincia a vivere piamente in Cristo.

Che cosa significa vivere piamente in Cristo? Significa: fatti entrare in cuore ciò che dice l'Apostolo: Chi si ammala e io non mi ammalo?

Chi si scandalizza e io non brucio? ( 2 Cor 11,29 ).

Le infermità degli altri, gli scandali degli altri, per lui erano altrettante persecuzioni.

Forse che esse mancano nel nostro tempo?

Agostino, Esposizioni sui Salmi, 55,8

6. - Rimpianto del chiostro

Un giorno, oppresso per il tumulto esagerato di alcuni uomini mondani, ai quali spesso siamo costretti a dare, per le loro faccende, ciò che certamente non dobbiamo loro, mi recai in un luogo segreto, amico del mio pianto, per vedere chiaramente tutto ciò che nei miei doveri mi dispiace e per raccogliermi davanti agli occhi tutto ciò che suole affliggermi.

Ivi rimasi a lungo, seduto in silenzio, afflitto dal dolore; poi mi si presentò il figlio mio dilettissimo, il diacono Pietro, stretto a me da intima amicizia fin dal primo fiore di giovinezza e mio compagno nello studio della parola sacra.

Egli, vedendomi riarso dal languore del cuore, mi chiese: « Ti è successo qualcosa di nuovo, che sei più afflitto del solito? ».

A cui risposi: « Il dolore per cui ogni giorno piango, o Pietro, mi è sempre vecchio per la consuetudine, e sempre nuovo per il continuo aumento.

Il mio animo infelice, afflitto dalla ferita della mia attività, si ricorda come viveva una volta in monastero: come teneva sotto i piedi tutte le cose caduche, quanto era elevato al di sopra di tutto ciò che passa, come gli era abituale intrattenersi con pensieri celesti, come, pur trattenuto nel corpo, superava per la contemplazione il carcere della carne, e come amava persino la morte, che per tutti è una pena, quale ingresso alla vita e premio delle proprie fatiche.

Ma ora, per la cura pastorale, è oppresso dagli affari degli uomini mondani e la sua bellezza, acquisita nel silenzio, viene infangata dalla polvere delle attività terrene.

E se per accondiscendere a molti, si diffonde nelle realtà esteriori, quando poi desidera ritornare a quelle interiori lo fa di certo con minor vigore.

« Sto rivangando ciò che soffro, sto riflettendo a ciò che ho perso.

E mentre osservo ciò che ho perso, mi si fa più grave ciò che sopporto.

Ecco: sono squassato da flutti immensi e la navicella della mia mente è travolta da una burrasca furiosa.

Ripensando alla mia vita antecedente, quasi volgo indietro gli occhi, vedo la riva e sospiro.

Ma ciò che è più grave ancora, trascinato dai grossi marosi non riesco quasi più a vedere il porto che ho lasciato.

Infatti, questo si verifica nell'anima: prima essa perde il bene che ha, ma si ricorda di averlo perduto; essendosi poi maggiormente allontanata, si dimentica anche del bene che ha perso, e avviene infine che non vede più neppure nella memoria ciò che prima le era presente nelle azioni.

Avviene dunque proprio questo: se ci inoltriamo navigando, non vediamo più neppure il porto di pace che abbiamo lasciato.

E talvolta poi si aggiunge, ad aumentare i miei dolori, che mi torna alla mente la vita di alcuni fortunati, che hanno abbandonato con tutto l'animo il secolo presente.

Mentre guardo la vetta su cui essi stanno, comprendo in quale valle profonda io giaccio … essi piacciono assai al loro Creatore nella loro vita segreta, e la giovinezza del loro animo rinnovato non invecchia nelle azioni umane, perché Dio onnipotente non ha voluto che si occupino delle faccende di questo mondo ».

Gregorio Magno, Dialoghi, 1,1

7. - Lamento per la perdita della solitudine

Mi meraviglio che abbiate prodigato in me i vostri favori con questa mia recente elevazione all'ufficio pastorale, perché, col pretesto dell'episcopato, mi sento ritornato nel mondo; sono soggetto a tante cure terrene, quante non ricordo di averne mai avute nella vita laica.

Ho perso il gaudio profondo della mia solitudine e, mentre interiormente precipito, sembra esteriormente che mi elevi.

Piango me stesso, allontanato dalla faccia del mio Creatore.

Ogni giorno mi sforzavo di farmi estraneo al mondo, estraneo alla carne, di allontanare dagli occhi della mente ogni fantasma corporeo e vedere mentalmente i gaudi superni.

Non solo con la mia voce, ma dall'intimo del cuore anelavo al volto di Dio e dicevo: A te ha detto il mio cuore: Ho ricercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, sempre ricercherò ( Sal 27,8 ).

Nulla più desideravo in questo mondo, nulla più temevo, mi sembrava di essere sulla vetta della realtà, tanto che credevo quasi adempiuta la promessa del Signore, da me appresa dal profeta: Ti solleverò sulle altezze della terra ( Is 58,14 ).

Ed è sollevato sulle altezze della terra colui che pesta, col disprezzo del suo animo, ciò che a questo mondo sembra alto e glorioso.

Ma all'improvviso, strappato dalla vetta delle cose e gettato nel turbine delle tentazioni, sono precipitato nel timore e nell'apprensione; perché se non ho paura di me, ne ho, e molta, di coloro che sono stati a me affidati.

Da ogni parte vengo assalito dai flutti degli affari, vengo sommerso dalle tempeste, tanto che è vero ciò che ripeto: Mi sono trovato nel profondo del mare, la tempesta mi ha sommerso ( Sal 69,3 ).

Dopo le occupazioni, desidero rientrare nel mio cuore, ma ne vengo escluso dai tumulti dei pensieri vani, e non posso ritornavi.

Perciò dunque è lontano da me ciò che è dentro di me, e non posso obbedire alla voce del profeta che dice: Ritornate, o prevaricatori, al cuore! ( Is 46,8 ).

Ma, oppresso dai pensieri stolti, posso solo gridare: Il mio cuore mi ha abbandonato ( Sal 39,13 ).

Ho amato la bellezza della vita contemplativa, come se fosse Rachele sterile, ma bella e di buona vista; che, se nella sua solitudine genera di meno, scorge meglio tuttavia la luce.

Ma non so per quale nascosto giudizio, nella notte si è unita a me Lia, cioè la vita attiva: è feconda, ma ammalata d'occhi: vede di meno, anche se partorisce di più.

Mi sono affrettato di sedere ai piedi del Signore insieme con Maria, per ascoltare le parole della sua bocca; ed ecco che, insieme con Marta, vengo costretto ai servizi esterni, a molte preoccupazioni.

Dopo che è stata cacciata da me una legione di demoni, come ritengo, ho desiderato di dimenticare ciò che sapevo e di riposarmi ai piedi del Salvatore; ma, allontanato contro mia voglia, mi si dice: Ritorna a casa tua e annuncia quanto ha operato per te il Signore ( Mc 5,19 ).

Ma chi potrebbe, fra tante cure terrene, annunciare i miracoli di Dio, che mi è già difficile solamente ricordare?

Oppresso, in questa mia dignità, dal tumulto delle faccende mondane, mi sembra di essere uno di coloro di cui sta scritto: Li hai abbattuti mentre venivano innalzati ( Sal 73,18 ).

E non dice: Li hai abbattuti dopo che furono innalzati, ma: mentre venivano innalzati, perché gli uomini cattivi, mentre sospinti dall'onore temporale sembrano esteriormente innalzarsi, interiormente cadono.

L'elevazione è la loro rovina e, mentre si appoggiano sulla gloria falsa, perdono la gloria vera.

Gregorio Magno, Lettera a Teoctista sorella dell'imperatore

8. - Libertà dal mondo nella solitudine

Assomiglio a quelli che, per la poca abitudine a navigare, sul mare si sentono male e sono presi dalla nausea: non sopportando la grandezza della nave col suo forte rollio, trasbordano su un canotto o una scialuppa, ma anche ivi soffrono il mal di mare, perché la nausea e la bile viaggia con loro.

Tale è dunque la nostra situazione.

Portiamo con noi i nostri mali interni e ovunque siamo tribolati allo stesso modo; perciò questa solitudine non ci è di molto guadagno.

Ecco dunque ciò che si deve fare e come ci è possibile seguire le orme di colui che ci è guida alla salvezza: Se qualcuno vuol venire dietro a me, dice, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua ( Mt 16,24 ).

Dobbiamo sforzarci di mantenere l'animo nella pace.

L'occhio che si muove continuamente, che ora si volge di fianco, che ora si dirige in alto o in basso, non può distinguere chiaramente un oggetto, ma bisogna che fissi lo sguardo in ciò che vede, perché la visione sia chiara: così la mente umana, distratta dalle mille preoccupazioni del mondo, è incapace di fissare con chiarezza la verità.

Ora, chi è ancora libero dal vincolo matrimoniale, viene sconvolto da passioni violente, da impeti difficili da superare, da amori ardenti; chi invece è già legato in matrimonio, ha accettato un mucchio di preoccupazioni: il desiderio di prole, se non ne ha; la preoccupazione di allevare i figli, se ne ha; e poi custodire la moglie, governare la casa, comandare ai servi; e poi gli affari andati a male, e le cause in tribunale, e il rischio nel commercio, e la fatica nell'agricoltura.

Ogni giorno viene portando le sue tenebre all'anima, e le notti, accogliendo le preoccupazioni del giorno, ingannano l'anima con identici sogni.

Vi è una sola possibilità di fuga da tutto ciò: ritirarsi completamente dal mondo.

Ma la fuga dal mondo non consiste solo nello starsene lontano col corpo; è liberare l'anima dalle sue inclinazioni corporee e rinunciare alla città, alla casa, alle cose proprie, agli amici, al possesso, al sostentamento, agli affari, alle relazioni, alla sapienza umana; ed essere pronti ad accettare nel cuore gli ammaestramenti della divina dottrina.

Questa prontezza di cuore consiste nel dimenticare le idee che prima, frutto della cattiva abitudine, lo hanno aggravato.

Difatti, non si può scrivere sulla cera se non si cancellano le lettere prima impressevi; così non si possono imprimere nell'anima gli insegnamenti divini senza toglierne prima le opinioni impressevi dalla consuetudine.

E proprio a questo è di grande utilità la solitudine, che assopisce le nostre passioni e dà alla mente la possibilità di escluderle addirittura dall'anima.

Come è facile domare le belve se prima si ammansiscono, così le voglie perverse e l'ira, i sentimenti di paura e insofferenza, che sono un veleno per l'anima, se sono assopiti dalla tranquillità e non eccitati da continue provocazioni, vengono facilmente superati dalla forza della ragione.

Ogni eremo dunque sia come è il nostro: libero da ogni contatto con gli uomini, in modo che gli esercizi ascetici non vengano interrotti da nessuna preoccupazione estranea e l'esercizio della pietà nutra l'anima di pensieri divini.

E cosa mai è più beato che imitare sulla terra gli inni angelici?

Subito, all'inizio del giorno, sorgere per pregare, per glorificare con inni e canti il Creatore; poi, quando il sole è già splendente, recarsi al lavoro, accompagnandolo sempre con la preghiera, e condire le azioni con i sacri inni, come con sale.

La consolazione che i cantici sacri arrecano rendono l'anima ilare e gioconda.

La tranquillità è pertanto il fondamento per la purificazione dell'anima: la lingua non parla di cose umane, gli occhi non contemplano i colori splendidi e le forme dei corpi; le orecchie non sfibrano il vigore dell'anima ascoltando canzoni composte per eccitare il piacere, e i discorsi e le facezie degli uomini superficiali: cosa questa che particolarmente fiacca il vigore dell'anima.

E la mente che non si dissipa nelle cose esteriori né si disperde, attraverso i sensi, nel mondo, rientra in se stessa e da se stessa si eleva al pensiero di Dio; e, illuminata dalla sua bellezza, giunge a dimenticare la propria stessa natura; non è più distratta dalle preoccupazioni del cibo o dal pensiero del vestito, ma, libera da ogni cura terrena, trasferisce tutto il suo impegno nell'ottenere i beni eterni.

Ella cerca i mezzi e le vie per acquisire la temperanza e la fortezza, la giustizia, la prudenza e le altre virtù, le quali, ciascuna nel suo genere, indicano all'uomo di buona volontà come comportarsi convenientemente nella vita.

Basilio il Grande, Le Lettere, 2,1-2 ( a Gregorio di Nazianzo )

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