Il principio Persona

Indice

La persona nella dottrina dell'essere

Capitolo primo

1. Persona e modernità antropocentrica

1) Nel XIX e XX secolo parte dell'umanesimo europeo ha percorso un cammino discendente che ha provocato una restrizione di contenuto e significato attribuiti all'esser-persona; ciò è paradossalmente accaduto nell'epoca in cui l'idea di persona ed i connessi diritti umani producevano importanti progressi civili.1

Ma sono progressi a rischio, se l'idea di persona è svuotata del suo contenuto e ricondotta ad un'espressione verbale di maniera.

Il processo è andato di pari passo con la conclusione dell'epoca della modernità filosofica, che prese le mosse dal soggetto e dall'Io trascendentale in una dichiarazione di assoluto antropocentrismo.

Questo è in maggiore o minore misura rimasto nella cultura, ma meno certo di se stesso, nel senso che da tempo assume la forma di un antropocentrismo di declino piuttosto che di quello ascendente e di gloria dei secoli XVI-XIX.

Siamo infatti dinanzi non alla sua fine, ma ad un ricentramento, ad un suo cambio profondo.

Poiché non si crede più al mito prometeico dell'uomo nuovo ed alla società completamente liberata, l'antropocentrismo si ridefinisce facendo perno sul singolo e trasformando le grandi narrazioni collettive in racconti singoli e del singolo.

Forse ciò che meglio definisce il ricentramento antropologico in atto risiede in una concezione antieroica della vita che produce un « io minimo ».

La stessa filosofia dell'esistenza ( Existenz ) tedesca del primo dopo-guerra fu anch'essa antropocentrica per definizione, poiché il termine « esistenza » non intendeva indicare nient'altro che l'essere dell'uomo, anche se poi questo era letto con categorie di declino quali l'essere-per-la-morte.

Nell'antropocentrismo non è in primo luogo rilevante il suo essere ascendente, pieno di confidenza in se stesso, o discendente e pervaso da un senso di declino e perfino di scoramento, ma il fatto di essere antropocentrismo, dove il soggetto umano si riferisce solo a se stesso, e si pensa in maniera compiutamente finitistica.

Così è pronto per cadere nelle mani dei totalitarismi.

Una delle basi del principio totalitario consiste nella riduzione idealistica dell'essere reale a concetto, processo logico di pensiero in cui le datità reali vengono annullate a vantaggio della Mente impersonale.

Era quanto intuiva lucidamente G. Orwell nel suo 1984: « Tu credi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto.

E credi che anche la natura stessa della realtà sia evidente per se stessa …

Ma io ti dico, Winston, che la realtà non è esterna.

La realtà esiste nella mente degli uomini, e in nessun altro luogo.

Non nelle menti individuali, e cioè in questa o in quella, che invece possono commettere errori, e che in ogni caso è destinata a svanire prima o poi: ma solo nella mente del Partito, che è collettiva e immortale.

Qualsiasi cosa il Partito ritiene sia vera, è vera.

È impossibile vedere la realtà se non attraverso gli occhi del Partito ».2

2) Assumendo che l'etica costituisca un rivelatore sensibile della condizione del soggetto, nella prima metà del Novecento accadde un'eterogenea simbiosi di positivismo scientistico e di esistenzialismo.

Si realizzava perciò un ambiguo incontro fra una razionalità pubblicamente attestabile e proceduralmente modulata, e il problema della scelta ultima, privata e irrazionale dei valori, secondo la previsione di Max Weber sulla sdivinizzazione e sulla gabbia d'acciaio della razionalità strumentale.

La neutralità rispetto al valore sostenuta dalla razionalità di tipo scientifico si accostava estrinsecamente all'irrazionalità e al politeismo dei valori propri della seconda linea, in una mescolanza in cui era in linea di principio impossibile trovare un esito.

In consapevole alternativa a questo quadro vennero sviluppandosi nel periodo indicato varie scuole di indirizzo personalistico, miranti alla riscoperta e alla tematizzazione filosofica della persona, che ebbero considerevole rilievo nel tessuto del pensiero mondiale.

Esse reintroducevano un motivo che era negato dalle prevalenti culture antipersonalistiche provenienti da Hegel, Nietzsche, Marx, Gentile, Lowith.

L'esser planetario dei totalitarismi veicolanti massificazione e schiacciamento della persona, contribuì per
la sua parte all'esito, creando un clima in cui la difesa della persona apparve a vasti settori urgente compito della politica e del filosofare.

Avemmo allora un personalismo italiano in genere di origine attualistica, spiritualistica o ontologica ( Carlini, Guzzo, Sciacca, Stefanini, La Pira ), uno francese di impianto comunitario ed etico, talvolta congiunto con un quadro metafisico tomistico ( Maritain, Mounier, Nédoncelle, Lacroix, Bastide ), uno tedesco di impronta fenomenologica ( Landsberg, Scheler, E. Stein, in certo modo Guardini e Buber ), uno russo caratterizzato dalla mescolanza sinergica di letteratura, filosofia e teologia, che è propria di quella cultura ( N. Berdjaev, L. Sestov, S. Frank, N. e V. Losskij, P. Florenskij, S. Bulgakov ).

Ne andrebbe dimenticato il pensiero neoebraico ( Rosenzweig, Buber, Lévinas ) che, pur non autodefindosi personalistico, raccoglie e svolge temi affini.3

In tempi più recenti la permanenza del personalismo è attestata dai lavori di K. Wojtyla ( Persona e atto ), J. Seifert ( Essere e persona ), P. Ricoeur ( Se stesso come un altro ), C. Taylor ( Radici dell'io ), I. Mancini ( Tornino i volti ), L. Pareyson ( Esistenza e persona ).

Notevoli spunti personalistici si trovano nelle posizioni comunicative, narrative, etiche e linguistiche diffuse negli ultimi decenni nel pensare filosofico mondiale.

Alla metà del '900 la situazione del personalismo pareva solidamente attestata.

Eppure la triade di « personalismo, esistenzialismo, marxismo », ritenuta da E. Mounier e da J. Lacroix la caratteristica durevole di un'epoca, ha in realtà avuto vita alquanto breve.

Con gli anni '50 e '60 i tre fratelli nemici si sono trovati sottoposti all'attacco strutturalista vibrato contro la categoria generale d'umanesimo.

Mentre l'esistenzialismo e il marxismo hanno per diverse strade sostanzialmente concluso il loro cammino, nella realtà della persona si incontra un nucleo perenne dell'essere e un elemento inaggirabile.

La persona è infatti primitiva; non si deduce da nulla e non si può ridurre a cosa, a oggetto.

« L'io - scrive Berdjaev - prima di tutto è esistente, appartiene al dominio dell'esistenza …

L'io prima di ogni oggettivazione è, in virtù della sua natura esistenziale, libertà …

È per natura iniziale e primitivo.

Ciò che è primo non è, come pensano molti filosofi, la coscienza; è l'io immerso nell'esistenza ».4

Che poi questa scuola si denomini « personalismo » o in altro modo, è un'altra e meno rilevante questione.

« Meurt le personnalisme, revient la personne » ha scritto un quarto di secolo fa P. Ricoeur,5 a indicare appunto l'inessenzialità del termine personalismo e l'essenzialità di quello di persona.

Intendiamo bene la sua diagnosi.

A rigore la persona non può « ritornare », perché non e mai « andata via ».

È invece cambiato il modo di guardare ad essa, sono mutate le dottrine sulla persona.

Il personalismo non è più soltanto una filosofia militante come fu nella prima della metà del XX secolo, ma una scuola filosofica necessaria in ogni contesto storico e culturale.

Intanto nello sfondo sta il permanente problema dell'umanesimo, quale categoria essenziale della storia dello spirito.

« Ritorna la persona » può anche voler dire: ritorna la questione dell'umanesimo, con cui occorre nuovamente fare i conti, e con essa la domanda di Kant, la quarta: che cosa è l'uomo?

3) Le aporie provenienti dall'accostamento fra positivismo scientistico e esistenzialismo irrazionale e decisionistico non sono oggi meno preoccupanti di un tempo, e anzi più serie per il crescente potere di disposizione sull'uomo che proviene dalla scienza.

Inoltre si è aggiunto l'attacco antipersonalistico condotto dal postmodernismo.

Esso spesso si ammanta sotto le vesti di una filosofia del Neutro, dove il soggetto o quel che ne rimane viene risolto nell'eterno circolo della Natura o Physis: pensiamo a autori come Nietzsche e Lowith.6

Si consideri anche l'atteggiamento empiristico così ampiamente diffuso, che sulla scorta di Hume nega significato al termine di dignità umana e cerca di sostituirlo con un anonimo riferimento al concetto di vita.

Qui l'antipersonalismo è massimo e l'idea di persona non può tornare.

In tale congiuntura spirituale dove si sommano crisi del pensare filosofico e minacce alla persona umana, occorre riaccostare la realtà della persona.

È quanto faremo in questo « discorso breve », il cui registro essenziale o cantus fìrmus è ontologico e speculativo.

La nozione ( e la realtà ) della persona non è principalmente morale, ma ontologica.

Il valore che attribuiamo alle persone dipende fondamentalmente dal loro status ontologico, da cui procede la loro dignità.

E a questo livello che occorre nuovamente vincere la battaglia del concetto.

Le epoche postmetafisiche o antimetafisiche incontrano serie difficoltà a comprendere che cosa sia la persona, poiché la sua verità non è separabile dalla verità dell'essere.

Nel momento in cui il pensiero cerca un adeguato ingresso al mistero ontologico che è la persona umana, esso avverte che una definizione dell'uomo in base al suo essere nel Mondo o al rapporto col Mondo o al con-essere ( vita nella comunità ) non ne raggiunge ancora il nucleo più originario.

Il rapporto della persona con l'Essere e con la Verità è più radicale e universale del suo rapporto con il Mondo: con la sua interiorità essa sporge oltre la storia e il cosmo.

Là dove l'uomo è fondamentalmente compreso a partire solo dall'essere nel Mondo, è immanente il rischio di una filosofia del Neutro.

Secondo E. Lévinas un disguido del genere potrebbe valere per il pensiero heideggeriano: « In Heidegger il mondo è molto importante. Nel Feldweg c'è un albero: non s'incontrano uomini ».7

Nello speculativo è in certo modo presente il teologico.

Con tale aggettivo intendiamo con Pareyson che « il rispetto della persona è un'esigenza così tipicamente cristiana, che si può dire non solo che soltanto una filosofia cristiana può giustificarlo e fondarlo teoreticamente, ma anche che una filosofia la quale ne dia una giustificazione teoreticamente fondata è perciò stesso cristiana ».8

Dalla teologia cristiana la filosofia riceve la notizia, senza compagna nella storia dell'umanità, che lo spirito umano ha come supremo polo di orientamento un atto interiore, ossia l'azione coronatrice del moto volitivo e intellettivo dell'uomo, col quale la persona umana si unisce all'Assoluto in un itinerarium mentis in Deum: ab exteriorihus ad intima; ex intimis ad Deum.

Nell'atteggiamento io-tu e nel momento ek-statico si innesta come possibilità l'incontro con qualcuno che emette un appello, e dunque la dimensione della sequela.

Non si potrebbe comprendere la filosofia platonica se non come sempre risorgente riflessione sull'incontro con Socrate, ne quella cristiana se non come stupore contemplativo dinanzi al mistero del Verbo incarnato.

2. Personalismo ontologico: il concetto di persona

1) Quando la filosofia esce dal pensiero astratto e si volge all'essere reale, comprende di essere sfidata da un difficile compito: è sempre arduo avere a che fare con l'esistenza.

Aprendo gli occhi dinanzi alla realtà l'uomo ne incontra molte forme.

Presto si accorge che la più alta ed enigmatica è l'esistenza della persona, dove la riflessione incontra un nucleo in certo modo inesauribile, un centro sempre nuovo di vita, libertà, azione.

La multiforme ricchezza della persona rende possibile al pensiero molteplici accessi verso il suo nucleo costitutivo da dove promana la sua azione e a cui essa ritorna.

In certo modo bisogna trasferire nella persona il centro della filosofia, perché là si trova il centro della vita e della libertà ( il senso di questo assunto, che è lungi dal ridurre la filosofia ad antropologia, diverrà via via chiaro ); perché là sta una cifra essenziale dell'essere.

Pensare l'essere e pensare la persona si collocano sullo stesso asse per un duplice fondamentalemotivo: il livello più alto dell'esistenza è l'esistenza in forma personale, nel senso che la persona costituisce l'essere più perfettamente essente; la persona esiste e non può che esistere se non nella forma della conoscenza, comprensione e apertura all'essere.

Con tali assunti non intendiamo sostenere che la metafisica della persona costituisca un terzo paradigma ontologico accanto a quello dell'Uno e a quello dell'Essere, poiché la persona è nell'essere e ne costituisce la più alta concretizzazione, e il principio-persona non fa che portare a compimento il paradigma della metafisica dell'essere.

Sostenendo che occorre trasferire nella persona il centro della filosofia, ci siamo espressi a favore di quanto si potrebbe chiamare una concezione personalistica del filosofare, a patto però di intendersi.

L'espressione può venire compresa in due maniere.

Può significare ( ed è, crediamo, l'accezione corretta ) che, costituendo l'esistenza personale la più alta forma dell'essere, nell'ontologia della persona la filosofia raggiunge un vertice.

Si tratta, se ci si passa l'espressione, di personalizzare l'ontologia.

Possiamo conoscere più profondamente l'essere se lo studiarne attraverso la persona, considerandola un luogo privilegiato d'accesso alla realtà.

Ma può anche significare che la filosofia assume come suo oggetto originario e unico solola persona stessa, quasi essa fosse un'entità separata dalla vita cosmica; qui per concezione personalistica della filosofia si intenderebbe una sua riconduzione ad antropologia, che rappresenta una forma di riduzionismo cui la filosofia è soggetta nella postmodernità.

2) Nell'accostarsi alla persona molte domande si affollano.

Che cosa definisce la persona? Il suo corpo?

L'unità dell'io autocosciente che rimane se stesso entro il molteplice fluire delle sensazioni?

La memoria che, raccogliendo nei suoi padiglioni i momenti successivi dell'esistenza vissuta, evita lo sparpagliamento e la frammentazione di sé nel tempo?

Sono gli atti di volontà, conoscenza e amore che fluiscono dall'io?

È la capacità di porsi in relazione con l'alterità?

La persona è tutte queste cose insieme, che trovano un nucleo ultimo di appoggio nel suo atto d'essere, unico e unitario.

Per inoltrarci nel cammino occorre raggiungere una definizione reale della persona, che si differenzi tanto da una definizione soltanto funzionale raggiunta attraverso il riferimento ad alcune proprietà dell'esser persona, quanto da un approccio nominale.

Intendiamo per definizione nominale quella che ha un'apparenza di verità, ma che non coglie la natura specifica dell'oggetto definito: ad es. dire dell'uomo che è un "animale sociale", perché questa qualificazione non è soltanto sua ( un altro esempio è definire il cane come un mammifero a quattro zampe, determinazione che si applica a molte specie di mammiferi ).

Con la ricerca di una definizione reale ci si volge alla natura della cosa stessa, non ad una semplice stipulazione contrattuale del comportamento legittimo.

L'approccio è perciò di tipo fondamentalmente cognitivo, senza intenti giustificazionistici o apologetici.

Nella tradizione filosofica sono state avanzate determinazioni del concetto di persona tra loro affini, e che per la loro coerenza razionale si pongono come imprescindibili termini di confronto: le citeremo in italiano, ricordando anche l'espressione latina originaria.

La più nota ed antica è la determinazione boeziana, secondo cui persona è una sostanza individuale di natura razionale ( rationalis naturae individua substantia ): il richiamo alla sostanza mette in luce il carattere di soggetto esistente ( sostrato ), e non solo di semplice attività, della persona.

Vicine alla boeziana si collocano le definizioni di Riccardo di San Vittore per il quale la persona è un'esistenza individuale di natura razionale ( rationalis naturae individua existentia ), e dell'Aquinate che la determina come un individuo che sussiste in una natura razionale ( individuum subsistens in rationali natura ), in cui si riflette la tensione fra riferimento universale alla specie ( rationalis natura ) e carattere individuale ( individua substantia ): noi tutti apparteniamo all'umanità, ma ciascuno a suo modo.9

Secondo Tommaso l'esistenza personale è la più perfetta tra tutte: « La persona significa quanto di più perfetto vi è nella natura, ossia qualcuno che sussiste in una natura razionale » ( « Persona significai id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura » ),10 poiché in nessun altro individuo si può rinvenire una gamma altrettanto ricca di perfezioni ontologiche e operative, e una più profonda unità, scaturente dalla forma sostanziale.

Alcune avvertenze sono necessario per cogliere tutta la « dirompente » portata del discorso introdotto e non equivocare in merito.

In effetti il principio-persona riceve in questo spazio di esistenza e di concettualizzazione lo slancio che ne assicura la carica di futuro.

2.1) La nozione di persona fa ricorso a concetti ( sostanza, natura, individuo, razionalità ) di piena pertinenza della filosofia, ciascuno dei quali fu ampiamente elaborato dal pensiero greco, senza che questo pervenisse a formulare l'idea di persona.

La scoperta dell'universo della persona è guadagno postgreco, ed esso stabilisce una rivoluzione filosofica iniziata nei primi secoli della nostra era, che è ben lungi dall'aver esaurito le sue virtualità.11

Oggi e ancora domani dovremo fare i conti con essa.

2.2) In tutte le determinazioni citate compare la fondamentale nozione di individuo, la quale non significa che l'individuo sia indivisibile, ma che è indiviso ossia dotato di unità.

L'individualità non implica l'indivisibilità come se l'individuo fosse un a-tomon, ma implica l'esistere come un tutt'uno in sé indiviso, e diviso dagli altri ( indivisum in se et divisum a quolibet alio ).

2.3) Altrettanto centrale è la nozione di sostanza prima.

Nelle Categorìe Aristotele la definisce come « ciò che non è in un soggetto ne è predicato di un soggetto ».12

L'esistere in sé è dunque il carattere della sostanza, che gode di un modo di esistenza che basta a se stessa e che è indipendente da altri soggetti: ciò che esiste in sé e non in altro, e che esercita in proprio l'atto d'esistere, si dice che sussiste ( subsistit in quantum non est in alio sed per se existit ).

Il carattere del sussistere rappresenta la proprietà più radicale dell'esistere sostanziale.13

Preferendo il participio subsistens al nominativo astratto substantìa della definizione boeziana, Tommaso stabilisce il costitutivo formale della persona come un esistente in sé ( o un sussistente ) e come un esistente per sé.

Col primo termine si allude al fatto che la persona costituisce una realtà sostanziale, che non esiste in altro o come modo di altro; col secondo che non è in vista d'altro, ma esiste in vista di se stessa ( propter se, non propter aliquid ).

Si pone come fine, non come mezzo.

Questo carattere essenziale dell'essere persona, ossia il suo valore di fine, sarà ripreso da Kant nella ben nota, seconda formula dell'imperativo categorico.

Ma Kant lascerà cadere il carattere ontologicamente antecedente e fondante della sostanzialità o dell'in sé, incamminando la dottrina della persona verso periodiche crisi.

La persona sussiste in sé in quanto esercita il proprio atto d'essere, l'atto primo e radicale della sostanza individuale: poiché in esso si radicano e da esso prendono vita tutti gli altri atti ( secondi ) della persona, costituisce la fondamentale dinamizzazione dell'esistenza.

2.4) La concezione della persona quale emerge dalle determinazioni citate, è dunque legata a quella della sostanza, verso cui da secoli una parte del pensiero filosofico nutre un profondo sospetto, desideran-do sostituirla con quella di funzione ( Hume, Kant, Kelsen, Cassirer, ecc. ): su questo aspetto del tutto fondamentale ci soffermeremo ampiamente in questo capitolo e nel cap. IV.

Qui basterà anticipare che la modalità più frequente con cui si cerca di dissolvere il concetto di sostanza riducendolo a quello di funzione, consiste nell'immergere ogni asserzione in una prospettiva evoluzionistica: le questioni di essenza e di origine sono negate e riportate entro un onnicomprensivo evoluzionismo.

In tal modo tanto l'accertamento ontologico quanto la valutazione morale non sono compiuti richiamandosi a forme ed essenze, ma analizzando processi: le leggi della vita, della persona, dell'etica sono in processo esse stesse.

Ciò segna la vittoria non della teoria scientifica dell'evoluzione che ovviamente mantiene un suo ambito di validità, ma di un'ingenua metafisica evoluzionistica secondo cui tutto è in divenire e niente è stabile e fermo.

Un assunto in sé contraddittorio.

Tanto più importante dunque è mettere in rilievo che nella persona umana il carattere della « razionalità » è immanente in maniera necessaria alla natura umana, nel senso che là dove vi è appartenenza alla specie umana vi è natura umana col suo carattere specifico della « razionalità » o del logos.

Ciò significa che là dove è natura umana individuata sono parimenti presenti, per quanto possano risultare inapparenti, l'intellettualità e una persona umana singola e determinata.

2.5) Le espressioni « soggetto individuale », « sostanza individuale » e « supposito » ( suppositum ), che possiamo assumere come equivalenti, possono riferirsi tanto a « qualcuno » come a « qualcosa ».

Ora la persona, che è qualcuno, aggiunge un elemento essenziale a questi termini; è un soggetto ben diverso da tutti quelli che ci appaiono nel mondo visibile, in quanto è dotato di logos, ossia di ragione e di linguaggio.

L'accertamento della sua natura non può venire semplicemente ricondotto agli enti del mondo che, pur viventi, possono avere voce ma non pensiero né linguaggio.

2.6) Le definizioni di Boezio e dei suoi successori includono il livello corporeo-biologico-genetico, poiché l'individuo umano è anche corporeo.

Di conseguenza ci si può attendere che non venga messo da parte tale livello, diversamente dall'approccio idealistico che considera solo l'autocoscienza, la razionalità e il giudizio morale come elementi costitutivi della persona, e che pertanto introduce una sovradeterminazione della sua idea a svantaggio dell'elemento della corporeità, ritenuta quasi un'aggiunta inessenziale.

Ora la persona umana quale unità di corpo e spirito non può essere privata né della componente biologica né di quella dell'anima.

Appare un equivoco spiritualistico quello di trascurare l'elemento biologico come accidentale e ininfluente, come è un equivoco biologistico ridurre l'uomo alla sua valenza biologica.

Mentre nelle teorie a base empiristica e pluralistica, quale quella di Derek Parfit ( cfr. Ragioni e persone ), la persona sarebbe un insieme di io successivi e di stati successivi privi di un sostrato comune, ciò non accade nell'approccio secondo sostanza.

In esso risulta inoltre salvaguardata l'eccedenza della persona rispetto ai propri atti e fondata la differenza tra l'esser persona e la personalità, se con questo ultimo termine intendiamo la progressiva acquisizione su piano operativo ( atto secondo ) di qualità che appartengono alla persona in quanto fluiscono dalla sua essenza, ma che non necessariamente accompagnano fin dall'inizio l'esistenza della persona.

Non c'è perciò contraddizione nel sostenere che un individuo può essere ad un tempo persona in atto e personalità in potenza.

Mentre il divenir persona come possesso del proprio statuto ontologico radicale non è un processo, ma un evento o atto istantaneo, per cui si è stabiliti nell'esser persona una volta per tutte -, la personalità è qualcosa che si acquista processualmente, attraverso l'effettuazione di atti personali ( secondi ).14

3) La persona come totalità e interiorità.

La riflessione sinteticamente svolta sulle nozioni che strutturano la realtà della persona, è ad un tempo preziosa ed insufficiente a trasmettere tutta la densità che le è propria.

Vi è bisogno di compiere altri passi e di elaborare ulteriormente, senza pensare di poter esaurire l'ambito della vita personale il cui nucleo centrale è parzialmente ineffabile.

Anche se questo è vero e so di non poter esprimere l'inesprimibile, intuisco che l'inesprimibile è contenuto e in vario modo trasmesso in quanto è espresso.

Quale soggetto sostanziale di natura spirituale, dotato d'intelligenza, libertà, autocoscienza ed interiorità, la persona vive nell'apertura alla totalità dell'essere, secondo una proprietà radicale che è la capacità dell'anima ( mente e volontà ) di porsi in rapporto intenzionale con tutte le cose.15

Ogni persona vive in un modo originale la sua relazione con l'universo, il suo essere copula mundi e li esprime con caratteri liberi e creativi, proiettando linguaggi sempre nuovi.

Essa si presenta soprattutto come un centro di unificazione dinamica che procede dall'interno, un'unità che dura nel tempo al di sotto di tutti i cambiamenti e al di là dei flussi psicologici, della molteplicità delle sensazioni, dello sparpagliamento temporale e spaziale dell'io.

Vale perciò come una totalità: la persona non è mai mera parte.

Essa è capace di tenersi in mano, di ritornare su se stessa attraverso una autoriflessione compiuta e di scendere in se stessa possedendosi attraverso un'azione immanente.

Ciò costituisce l'interiorità, concetto che non andrebbe inteso in senso primariamente spiritualistico ma ontologico.

In virtù di tale privilegio l'io non è principalmente determinato dall'esterno ma si determina a partire da se stesso, rispondendo attivamente agli stimoli esterni e operando scelte.

L'interiorità non possiede una portata soltanto psicologica avente a che fare con la coscienza e la memoria; costituisce una modalità d'essere e una « rivelazione » del fatto che, non essendo tutto in superficie secondo estensione e durata, esiste la dimensione del profondo e dell'intimo.

Con la persona viene a manifestazione una profondità di ciò che è individuale ben maggiore di quella riscontrabile negli individui esclusivamente materiali: questi non possiedono alcuna interiorità, la persona sì, e ciò rivela un nuovo volto dell'essere.

Interiorità significa altresì, stando in se stessi, esistere dinanzi all'altro e attivare la perfetta esteriorità della relazione con lui.

Senza forzature si può sostenere che la relazione interpersonale è incontro nell'esteriorità di due interiorità.

Proprio a tale livello inizia un cammina mai finito verso l'unità delle manifestazioni della persona ( esperienza che la sapienza indiana chiama col termine « advaita » ): raggiungere nei registri psicologico, affettivo, dell'agire e del pensare quell'unità che l'uomo possiede in radice, che gli è già data e che consiste nell'unità ontologica del suo atto d'essere.

L'uomo deve diventare ( psicologicamente, moralmente ) quello che è già ontologicamente.16

Raggiungere l'interiorità è per ogni uomo tornare verso il centro di se stessi, operando un controesodo o un « controesilio ».

Ogni persona è in esilio da se stessa.

È un Ulisse che cerca costantemente il sentiero verso il proprio paese natale, che è in cammino verso Itaca, il proprio luogo interiore.

Quando il viaggio ha successo, l'io riposa nel proprio centro, di cui durante il tempo anteriore conosce qualcosa nei simboli, nei segni, negli eventi del proprio esistere.

Itaca come manifestazione del centro è il luogo dove l'io può incontrare la Realtà Ultima.

Entro il quadro dell'interiorità si colloca il tema del cuore, di cui leggiamo nella Bibbia: « La radice del pensiero è il cuore » ( Sir 37,17 ), ed anche: « Custodisci il tuo cuore con ogni cura, poiché da esso sgorga la vita » ( Pr 4,23 ).

Il cuore dunque come centro della persona, come luogo intimo di ciò che è più umano e personale, per cui un uomo « senza cuore » non è in primo luogo un malvagio ma un uomo poco uomo, un uomo riuscito a metà.

Una filosofia che conosce il valore del cuore difficilmente si ingannerà sulla persona perché, rifuggendo dal razionalismo che vede nell'uomo solo l'attività razionale della mente, non lascerà da parte l'amore, gli affetti, i sentimenti, il patire.

E sarà in grado di porsi come philosophia cordis, secondo cui la sopportazione del dolore rivela in profondità l'universo della persona.

Una filosofia della persona come interiorità oggettiva è in grado di fondare l'intuizione di Kierkegaard, secondo cui il singolo è irriducibile al genere o alla totalità delle cose esistenti.

Per la persona vale la legge che il singolo sta più in alto del genere: è un qualcuno, non un qualcosa, e come tale esiste in modo assoluto di fronte all'Assoluto.

Essendo la sola creatura nell'universo voluta in vista di se stessa e non di altro ( solo la persona è propter se quaesita in universo dal creatore, osserva Tommaso ), essa è un microcosmo, un'immagine finita e incompiuta dell'infinito e perciò infinitamente moltiplicabile senza rischio di duplicazioni e ripetizioni.

3. Coprimento o controapocalisse della persona. Excursus sul suo concetto nella modernità

Dopo la straordinaria esplorazione compiuta dai medievali sulla persona, la sua questione ha avuto innumerevoli riprese nella filosofia moderna, spesso all'insegna di periodiche crisi.

Non vogliamo tracciarne qui la vicenda da Boezio ad oggi, ma il suo dipanarsi dall'Umanesimo in avanti.

Il filo conduttore che intendiamo verificare in questo excursus o sintetico raccourci consiste nell'idea che nella modernità filosofica sia accaduto un velamento della persona, che sarei tentato di chiamare una « controapocalisse », per quanto concerne non la sua dignità, numerose volte affermata, ma le sue radici ontologiche sostanziali.

La crisi della sostanza in molte scuole della modernità impedisce la formazione di un adeguato personalismo a base ontologica.

L'interrogativo che si ripropone è se l'esser persona si riconduca semplicemente all'esercizio di certe attività, o primariamente al possesso di una determinata natura/essenza, da cui scaturiscano operazioni specifiche proprie.

Per anticipare quanto ci pare emerga dall'esame degli autori analizzati, la direzione prevalente nella filosofia moderna, salvo limitate ma autorevoli eccezioni ( Rosmini, Maritain, ecc. ), è stata di togliere alla persona la sostanzialità e di mantenerle, seppure non sempre, il valore di fine, quando non sia accaduto di negarli entrambi, pervenendo alla risoluzione-dissoluzione antiumanistica dell'uomo.

Per fissare i termini, talvolta denominerò la sostanzialità come « inseità » ( dal latino in se, carattere proprio della sostanza ), e il valore di fine come « perseità » ( da per se ).

Quando ha accolto quest'ultimo aspetto, la filosofia moderna ha operato come un'etica che si esprime con concetti di azione quali libertà, coscienza, autocoscienza, razionalità, memoria, non in termini di essere e di sostanza.

Il primo è un registro attualistico ( ossia relativo all'azione e alle operazioni dell'io ), l'altro ontologico; e se è possibile comprendere in questo anche l'altro, appare assai arduo includere nello schema attualistìco quello ontologico.

Forse il miglior esempio di ciò è l'idealismo, che nega al soggetto la sostanzialità e ne mette in luce quasi esclusivamente l'attività.

Ma senza sostanzialità non vi è in senso proprio la radice e l'individualità della persona.

Ci si trovava perciò dinanzi a una curiosa situazione, ossia che le filosofie della modernità formulate in prima persona ( io penso, io parlo, io agisco, ecc. ) potevano di primo acchito sembrare aperte al registro della sostanza e dell'essere, mentre di fatto si mostrarono in genere lontane e ostili a esso.

1) L'epoca dell'Umanesimo.

Il pensiero dell'Umanesimo si nutriva di una filosofia religiosa della persona e così in parte quella del Rinascimento: la parola stessa di Rinascimento, con l'allusione esplicita al tema biblico ( soprattutto giovanneo e paolino ) della rinascita spirituale o nuova nascita ( renascentia ), rivelava l'origine religiosa del concetto.

Se si volesse preparare una galleria di filosofi dell'Umanesimo, ne scaturirebbe il seguente elenco: Ambrogio Traversari ( 1386-1439 ), Giannozzo Manetti ( 1396-1459 ), Marsilio Ficino ( 1433-1499 ), Nicolo Cusano ( 1460-1464 ), Vittorino da Feltre ( 1378-1446 ), Giovanni Fico della Mirandola ( 1463-1494 ), Erasmo da Rotterdam ( 1466-1536 ), Tommaso Moro ( 1477-1535 ).

L'opera in certo modo riassuntiva dello spirito dell'Umanesimo religioso può essere indicata nella pichiana Oratio de hominis dignitate: l'uomo è immagine di Dio ( imago Dei ) ed ha la capacità di progettare se stesso nella libertà.

Qualcosa di molto simile espone Giannozzo Manetti nel suo scritto De dignitate et excellentia hominis: « Dopo che Dio ebbe creato gli uomini, li benedisse e li fece padroni di tutte le cose create, e sovrani e signori assoluti di tutta la terra ».

In questo l'Umanesimo si poneva come un grandioso commento ad alcuni versetti del Salmo 8: « Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché tè ne ricordi, il figlio dell'uomo perché tè ne curi?

Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi ».

Pico e Manetti sposano la posizione cristiana che, non separando Dio e uomo ma assumendone l'endiadi come inscindibile pur nella invalicabile differenza, si esprime per un umanesimo teocentrico, che dopo tre secoli avrebbe dovuto far fronte all'attacco dell'umanesimo ateo, segnato dalla cifra dell'uomo senza Dio o dell'uomo contro Dio.

Ma già pochi decenni più tardi la posizione umanistica avrebbe subito il rifiuto luterano.

Per la non più cattolica posizione del De servo arbitrio « il libero arbitrio è un dono divino e non può che convenire alla maestà divina …

Attribuirlo agli uomini, sarebbe attribuirgli la divinità, cioè proferire la più grande bestemmia che si possa concepire ».17

Lutero apre qui un sentiero rischioso poiché, lasciando intravedere una concorrenza tra Dio e l'uomo, tutto ciò che si attribuisce all'uomo è considerato come tolto a Dio.

Posizione che avrebbe compiuto un lungo cammino nell'Europa rinascimentale e poi moderna, e che sostanzialmente si ritrova nell'ateismo di Feuerbach e di Marx ( tante più cose l'uomo proietta in Dio, tanto meno ne conserva per sé ), nonostante l'opposto indice assiologico.

Il pensiero dell'Umanesimo invece s'incardinava in larga misura intorno alla corrispondenza, considerata necessaria, tra teologia e antropologia.

Essa sfociava in una concezione umanistico-cristiana della presenza di Dio nell'uomo, di modo che la concezione della persona umana era tenuta entro giusti confini da un'adeguata concezione di Dio.

A partire dal Rinascimento è cominciata nella storia culturale dell'Europa, dapprima impercettibilmente e poi con crescente velocità, un processo di deterioramento dell'idea di Dio, di quella dell'uomo e del loro rapporto, che attraverso le fasi della separazione cartesiana tra filosofia e teologia, del dualismo antropologico tra res extensa e res cogitans, del razionalismo metafìsico e dell'illuminismo, ha condotto a crisi l'idea di Dio e quella dell'uomo, e dischiuso la strada all'affermazione atea.

Nel secolare processo del pensiero europeo si verificarono qualificati punti di resistenza, ma una sua direzione importante procedeva verso una progressiva degradazione dell'idea di Dio e della sua presenza nella storia, con la connessa critica di ogni rivelazione e l'enfasi sulla religione naturale, sino al Dio architetto e orologiaio dell'universo del deismo.18

L'Umanesimo con lo slancio e la giovanile confidenza in se stesso che lo denotava, inclinava a concepire speranze eccessive.

Di ciò rende testimonianza un'idea soverchiamente risplendente di filosofia, intesa platonicamente come avvio alla religione: « quod si natura rudimentum est gratiae, utique et philosophia inchoatio est religionis, neque est philosophia quae a religione hominem semovet » ( Pico, Heptaplus, Exp. 7, Proem. ).

Massima è in proposito la distanza dalla Riforma che con Lutero sarebbe andata all'estremo opposto, sostenendo l'inconciliabilità fra ragione e rivelazione e considerando la prima semplicemente come prostituta di Satana.

Di fatto la filosofia ancora cristiana dell'Umanesimo non resistette a lungo, fu una promessa breve o, per usare la vivida espressione di H. de Lubac a proposito di Pico della Mirandola e della sua precoce morte, fu l'alba incompiuta del Rinascimento.

« Il suo [ di Pico ] genio precoce dominava e oltrepassava il suo ambiente.

Quali che dovevano essere le circostanze, grandissime speranze potevano esser fondate su di lui per imprimere un nuovo slancio al pensiero cristiano.

Ora ecco che egli muore a trentun anni …

Quale sarebbe stata la sua azione sui contemporanei, sulla teologia, sulla vita della chiesa? …

L'Europa cristiana poteva attendere molto da lui ».19

Nelle pagine finali della sua ricerca de Lubac, deponendo per un momento gli strumenti dell'indagine storica, si sofferma a congetturare quale avrebbe potuto essere il destino dell'Europa se Pico avesse incontrato Erasmo ( entrambi condussero una battaglia analoga ), il Gaetano e Lutero.

La prospettiva umanistica individuava l'humanitas dell'homo humanus nel contemplare e nell'agire rettamente ( theorein e recte agere ), ed era perciò attenta a non ridurre l'uomo all'insieme dei rapporti sociali, alla ragione calcolante, al linguaggio, allo strato organico-vitale.

Ponendosi alla scuola della metafisica della partecipazione e della teologia cristiana, l'umanesimo comprendeva la paradossale compresenza nell'uomo di finito e infinito, e vedeva nel rapporto tra Dio e il mondo l'esempio di una trascendenza immanente del primo nel secondo.

Successivamente la filosofia della persona ha dovuto attraversare il deserto del razionalismo, i cui ultimi ingombranti spezzoni vivono ancora tra noi.

Ha il razionalismo mai saputo che cosa sia la persona ( e che cosa l'amore )?

O piuttosto l'ha accantonata e, scambiando la parte per il tutto, l'ha sostituita con il cogito, la mente, il pensiero, la dialettica, le forme a priori?

In Agostino il filosofo vuol sapere solo dell'anima e di Dio; e l'anima è un padiglione dalle molte dimore, un'interiorità oggettiva ma non pienamente autotrasparen te, su cui il pensiero si appoggia per trovare il trascendente e le orme immanenti di una struttura trinitaria dell'essere personale.

Col razionalismo cartesiano l'anima diviene res cogitans che si sforza di formare idee chiare e distinte.

La riduzione dell'anima a cogito, ossia ad una soltanto delle sue operazioni, media il passaggio dall'interiorità agostiniana a quella cartesiana e del razionalismo, dove l'anima è intesa soprattutto come mente e attività pensante.

2) Da Cartesio a Locke e Hume.

La filosofia della persona è stata posta in crisi da Cartesio col netto dualismo antropologico introdotto, con l'idea della autotrasparenza dell'io a se stesso, con l'assunto che il concetto di io pensante fosse perfettamente chiaro e distinto, e specialmente col modo equivoco con cui è definita la sostanza: « Per substantiam nihil aliud intelligere possumus quam rem quae ita existit ut nulla alia rè indigeat ad existendum » ( Principia philosophiae. I, 51 ).

Spezzando l'unità dell'uomo in due sostanze indipendenti ( pensante ed estesa ), Cartesio dovette confrontarsi col problema di « localizzare » la persona, e lo risolse individuando nel pensiero autocosciente il carattere principale dell'esser-persona.

Ego cogito significa che il pensare è un'attività per la quale un soggetto-per-sona deve essere posto come causa.

È attraverso l'atto del pensare che io sono certo di me stesso, del mio esistere.

Successivamente Kant con la critica al paralogismo della psicologia razionale ritenne impossibile mostrare la sostanzialità dell'anima.

Col fatto che le categorie dell'azione passano davanti a quelle dell'essere, l'analisi filosofica lascia da parte l'atto d'essere ( actus essendi ) in cui risiede la continuità profonda della persona e della sostanza.

In ciò deve ravvisarsi una tappa del moderno oblio dell'essere, la cui implicazione immediata è l'oblio o il fraintendimento della sostanza, dal momento che questa è la prima realizzazione o concrezione dell'essere.

Nel postcartesianismo, ossia in Locke, Hume e Kant, diventa più difficile mantenere il significato originario di sostanza, già avviato su dubbie strade da Cartesio e Spinoza.

Ciò è del resto ben presente in Locke che osserva: « Se qualcuno vorrà esaminare la propria nozione di pura sostanza in generale, troverà che non ne ha nessun'altra idea se non la supposizione di non si sa quale sostegno di quelle qualità che sono capaci di produrre idee semplici in noi; qualità che comunemente si chiamano accidenti …

L'idea quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza, non è altro che il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare sussistano sine rè substante, senza qualcosa per sostenerle; e chiamiamo perciò quel sostegno substantia ».20

La sostanza diventa qualcosa di misterioso, una sorta di gruccia invisibile che dobbiamo presupporre per potervi innestare le qualità visibili.

Il problema di Locke è forse più quello dell'identità personale e dei modi di accertarla piuttosto che quello della natura della persona.

Domandando per che cosa stia il termine « persona », risponde: « Per un essere pensante, intelligente, dotato di ragione e di riflessione, che può considerare se stessa come se stessa, cioè la stessa cosa pensante, in diversi tempi e luoghi, il che accade solamente mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensare ».

Pertanto l'io non è determinato dall'identità della sostanza, ma solo dall'identità della coscienza: « Questo ci può mostrare in che consista l'identità personale: non nell'identità della sostanza ma, come ho detto, nell'identità della coscienza, per cui se Socrate e l'attuale sindaco di Queinsborough si trovano d'accordo, sono la stessa persona …

Null'altro che la coscienza può unire esistenze remote nella stessa persona … senza coscienza non vi è persona ».21

« E fin dove questa coscienza può esser estesa indietro ad una qualsiasi azione o pensiero del passato, fin lì giunge l'identità di quella persona; si tratta dello stesso io ora e allora ed è dallo stesso io - lo stesso di quello attuale che ora riflette su di esso - che quell'azione venne compiuta » ( p. 395 ).

Secondo il filosofo inglese lo stesso io può continuare nella stessa sostanza o in sostanze diverse.

L'essere persona è dunque collegato ( qui Locke rimane pienamente cartesiano ) al pensare e alla coscienza, e l'identità personale è posta nella coscienza.

« Poiché è la stessa coscienza che fa sì che un uomo sia se stesso per se stesso, l'identità personale dipende proprio e solamente da questa, sia essa connessa ad una sostanza individuale sia che possa continuarsi in una successione di varie sostanze » ( p. 396 ).

Locke sostiene l'idea curiosa che il cambiamento di sostanza di una persona nel mantenimento della coscienza non darebbe luogo a diverse persone: in altre parole, se effettuiamo un completo trapianto di corpo e il mantenimento della coscienza, non vi sarà alcun mutamento di persona.

Ciò sembra dipendere, oltre che dal suo rimanere fedele al dualismo cartesiano, dalla dissoluzione della dottrina della sostanza nel suo pensiero.

Nell'empirismo di Hume, per il quale è dubbio che si possa parlare di unità e identità dell'io, la persona come concetto sostanziale scompare senza residui.

L'io è un flusso ininterrotto e torrenziale di percezioni e fenomeni, la cui unica unificazione è la memoria: « quando rifletto su me stesso, non percepisco mai questo io senza una o più percezioni, ne percepisco mai altro fuori di queste percezioni.

E l'insieme di queste, dunque, che forma l'io …

Il pensiero, solo, trova l'identità personale, quando, riflettendo sulla serie delle percezioni passate che compongono la mente, le idee di esse sono sentite come connesse insieme, e l'una tira con sé l'altra ».

Questo è quanto Hume afferma nell'Appendice al Treatìse.

Nel libro I ( Sull'intelletto ), nel paragrafo sull'identità personale aveva sostenuto: « Noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento …

La mente è una specie di teatro dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un'infinita varietà di atteggiamenti e situazioni …

Poiché la memoria, sola, ci fa conoscere la continuità e l'estensione di questa successione di percezioni, essa deve essere considerata, per tal ragione principalmente, l'origine dell'identità personale.

Se non avessimo la memoria, non si potrebbe avere nessuna nozione della causalità, né, per conseguenza, di quel concatenamento di cause ed effetti che costituisce il nostro io, o la nostra persona ».22

La natura dell'io/persona risulta ormai pienamente psicologizzata, fenomenizzata, de-ontologizzata.

Il soggetto è soltanto l'attaccapanni della memoria, un punto di accumulo di un processo, e la memoria un collante che cerca di tenere insieme alla bell'e meglio il flusso molteplice delle percezioni: se la memoria si indebolisce, altrettanto accade dell'unità e identità dell'io, fragile isola pronta ad essere dissella nella molteplicità pura.

Oltreché la sostanzialità della persona dilegua in Hume il concetto di interiorità, poiché non c'è interiorità dove sussiste solo una memoria psicologica spazializzata, temporale e senza la dimensione della profondità.

« Per parte mia, quanto più profondamente mi addentro in ciò che chiamo me stesso, sempre mi imbatto in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, d'amore o di odio, di dolore o di piacere, o d'altro.

Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che l'atto del percepire ».

La critica lockeana alla sostanza e il resoconto humeano della mente e della conoscenza, non esenti da superficialità e assenza di domande ulteriori, inducono a pensare che l'empirismo sia una filosofia di bocca buona, ossia che si accontenta facilmente, e che tale esito si colleghi all'oblio dell'essere in cui giace.

3) Kant.

In Kant l'idea di sostanza entra in crisi perché noumenica.

Rimane la substantia phaenomenon che però si riduce a rapporti, « ed essa stessa non è altro che un complesso di semplici relazioni.

Noi conosciamo la sostanza nello spazio soltanto mediante forze che operano in esso, sia attirandone altre ( attrazione ), sia impedendo alle altre d'entrare ( repulsione e impenetrabilità ), non conosciamo altre proprietà che costituiscano il concetto della sostanza, che è fenomenicamente nello spazio e che chiamiamo materia ».

In base alla semplice autocoscienza scaturente dalla proposizione « io esisto pensando », che secondo Kant è soltanto empirica, « non è assolutamente possibile determinare il modo in cui io esisto, se come sostanza o come accidente … e la conclusione è che in qualunque modo noi non possiamo conoscere nulla della natura della nostra anima, che riguarda la possibilità della sua esistenza separata in generale ».

In quanto la proposizione « Io penso » o « Io esisto pensando » è ritenuta empirica, non si può per Kant inferirne alcuna sostanzialità.

La discussione kantiana della psicologia razionale, condotta al di fuori d'ogni considerazione d'essere, non può che condurre all'assunto che « l'Io non è se non la coscienza del mio pensiero »,23 dove la sostanzialità della persona è risolta in una coscienza come autocoscienza, intesa come consapevolezza dello stare pensando.24

Con Kant viene a maturazione il personalismo assiologico, nel senso che l'essere persona diventa una qualità morale elevata, denotata dalla coscienza morale dell'io, dall'autonomia autolegislatrice della ragion pura pratica, dal rapporto con la legge morale: « Il secondo [ spettacolo, quello offerto dalla legge morale in me ] eleva infinitamente il mio valore, come valore di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile ».

La seconda formulazione dell'imperativo categorico domanda di trattare la persona sempre anche come fine e mai solo come mezzo.

Servendosi delle nozioni di dignità e di prezzo e ponendole in opposizione, Kant distingue la persona come fine in sé e dotata di dignità dalle cose che hanno solo prezzo e non dignità.25

Tuttavia l'interiorità assiologica legata alla presenza della legge morale non è ancora un'interiorità ontologica connessa al l'autopossesso in-statico del proprio atto d'essere.

Al di là del registro morale, non pare esservi in Kant l'idea di persona come specifico modo d'essere di una sostanza spirituale, ma l'unità dell'io-coscienza e l'unità sintetica originaria dell'appercezione, espressa nell' « Io penso ».

Difficilmente può venire attribuita interiorità a tale io, che viceversa potrebbe assomigliare a una macchina logica.

Approccio trascendentale kantiano e interiorità non vanno d'accordo, se nell'interiorità si trovano l'amore e il desiderio, sconosciuti all'io trascendentale come unità sintetica originaria dell'appercezione.

Ossia il soggetto logico costante del pensare ( Io penso ) non può essere spacciato per il soggetto reale cui inerisce il pensiero.

In Kant emerge come centrale l'elemento della dignità della persona, certo un grande e duraturo guadagno.

Rimane invece indeterminato un aspetto essenziale, la risposta alla domanda su chi sia persona, a chi spetti l'esser-persona, un'attribuzione legata a filo doppio ad un'ontologia metafisica della sostanza.

Ciò ultimamente significa che il criterio kantiano non è in grado di operare una determinazione discriminante tra l'essere o non-essere persona, e questo emerge specialmente negli stati di confine quali l'inizio o la fine della vita, ossia proprio là dove il discernere risulta più necessario.

Con la filosofia critica di Kant rimane alla persona il carattere della « perseità », cioè di valere per sé, come fine e non in vista d'altro, mentre scompare quello della « inseità » cioè della sostanzialità, in linea con la generale crisi della metafisica della sostanza, che si accentua in maniera dirompente nei neokantiani quali Kelsen e Cassirer ( di cui cfr. Substanzbegriff una Funktionsbegriff, Darmstat 1980, 1° ed. Berlin 1910 ).

Su ciò Kelsen ha detto l'essenziale, mettendo così in luce l'esecuzione dell'idea di persona che l'empirismo e il funzionalismo provocano attraverso il rifiuto del concetto di sostanza: « La dottrina pura del diritto ha riconosciuto il concetto di persona come un concetto di sostanza, come la ipostatizzazione di postulati etico-politici ( per es. libertà, proprietà ), e lo ha perciò dissello.

Come nello spirito della filosofia kantiana, tutta la sostanza viene ridotta a funzione ».26

La dissoluzione neokantiana e successivamente neoidealistica della sostanza costituisce un passo notevole verso la crisi dell'idea di persona e del conseguente personalismo, poiché rimane solo la strada di un personalismo assiologico, importante certo ma insufficiente per dirimere o comunque affrontare delicati problemi quali quelli posti dalle biotecnologie.

Il punto di arrivo della dialettica discendente che parte dalla negazione di ogni sostanzialità dell'io personale, non può esser altro che la completa fenomenicità della persona.

Trattando del significato gnoseologico ultimo della posizione oggettivistica che si corona nel primato del diritto internazionale sull'ordinamento giuridico statuale, Kelsen osserva: « Una concezione oggettivistica del mondo, viceversa, parte dal mondo per arrivare all'io.

Essa presuppone una oggettiva ragione universale, uno spirito del mondo di cui le soggettivizzazioni o concretizzazioni, gli individui che conoscono e vogliono, sono solo forme fenomeniche assai effimere e temporanee, i cui spiriti sono coordinati e affini, solo in quanto parti integranti dello spirito universale del mondo, la cui ragione conoscente è solo emanazione della suprema ragione universale, il cui io non è che il feudo dell'io universale unico sovrano … ».27

Espressioni particolarmente rivelatrici nella loro asprezza antipersonalistica, in cui la « persona » è solo un feudo di un ipotetico io trascendentale, e che limitano di molto la portata della pur nobile idea della civitas maxima, spesso avanzata dall'autore.

Ma anche espressioni che conseguono coerentemente all'abbandono della sostanzialità.

Esse, veicolando la fatale idea che la persona è mera parte, equivalgono ad una piena negazione dell'idea di persona.

Non resta qui che anticipare una grande frase dell'Aquinate: la nozione di parte è contraria a quella di persona ( ratio partis contrariatur rationi personae ), su cui torneremo.

In genere neppure nell'idealismo, pur così propenso a parlare di soggettività e di spirito, si può rintracciare una vera e propria dottrina sulla persona.

Secondo Berdjaev « l'idealismo filosofico quale appare nella filosofìa tedesca all'inizio del XIX secolo, conduce all'impersonalismo, non contiene alcuna dottrina della persona.

Ciò appare in special modo nella dottrina di Fichte sull'Io, che non ha nulla della persona umana ».28

Analogamente il tema dell'antipersonalismo e del tentativo di dissolvere il principio-persona si pone in Hegel, in Marx, nel positivismo e neopositivismo e nell'empirismo radicale che vi si connette, in Weber e in maniera sottotraccia in C. Schmitt.

Per quanto concerne il marxismo non è qui il caso di ricordare la sesta tesi di Marx su Feuerbach, che riduce l'uomo all'insieme dei rapporti sociali.

A questo punto dell'esplorazione emerge che la sostanzialità del soggetto personale è negata tanto nel monismo razionalistico uscito da Spinoza e rinnovato nell'idealismo, quanto nel fenomenismo empiristico, sia pure in base ad opposte considerazioni.

Il monismo nega la sostanzialità dell'io poiché rifiuta l'idea che esso esista come realmente distinto da tutto ciò che lo circonda, e il fenomenismo obietta all'idea che l'io sia un'unità indivisa, pensandolo invece come un flusso caotico di sensazioni senza unità e perfino come una federazione di anime.

Ossia le due prospettive rifiutano l'una o l'altra parte della determinazione di individuo come indivisum in se et divisum a quolibet alio.

4) Nietzsche.

È con Nietzsche che si raggiunge il vertice della dissoluzione dell'idea di persona cui si sottrae la forma unitaria dell'anima e della razionalità, risolta in un caotico fascio di pulsioni e sensazioni.

Per Nietzsche tanto il pensare quanto l'autore del pensare ( il soggetto ) sono fittizi, poiché non esistono né l'atto del pensare né il substrato soggettivo in cui avrebbe origine il pensare, e il mondo interiore ha carattere fenomenico.29

Conseguentemente non si da soggetto, e men che meno persona.

Sono gli errori della lingua, ove si sono pietrificati quelli della ragione, a farci pensare all'io con l'impiego appunto dei termini « soggetto » e « io ».

In realtà esiste solo l'agire senza alcun agente: « la seduzione della lingua … intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un « soggetto ».

Non esiste alcun sostrato, nessun essere al di sotto del fare: « colui che fa' non è che fittiziamente aggiunto al fare - il fare è tutto ».30

Se il fare è tutto, è perché l'essere e la sostanza sono niente.

I soggetti sono solo illusioni grammaticali, l'interiorità un nome menzognero con cui si copre un immenso vuoto.

La stoffa profonda della realtà è solo volontà di potenza, che si ramifica nella psiche; a sua volta la psicologia è solo morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza.

Domandiamo però: senza soggetto, dove abita l'Ubermensch?

In Nietzsche l'uomo è ponte e trapasso verso l'oltreuomo capace di recuperare in pienezza il senso della terra, dopo aver per un certo tempo creduto ed abitato un « mondo dietro il mondo ».31

Il superamento dell'uomo stanco, proiettato verso il mondo dietro il mondo, e il superamento del cristianesimo compongono in lui un cammino unico che mette in causa il dogma d'istologico: il senso salvifico di Dio che si fa uomo si annulla nel momento stesso in cui non vi è più uomo ma oltreuomo.

In certo modo l'annientamento dell'idea di umanità è funzionale all'annientamento della religione del farsi uomo di Dio.

Qui Nietzsche è profeta di un'umanità e di una oltreumanità senza prossimo.

Rientra nell'intenzionalità decostruente del nicciano « filosofare col martello » l'attacco alla « superstizione popolare di età immemorabile », la superstizione dell'anima e dell'io.

Occorre sferrare un colpo decisivo a quel bisogno metafisico che si esprime nella funesta dottrina cristiana dell' « atomismo delle anime », ossia « quella credenza che considera l'anima come qualcosa di indistruttibile, di eterno, d'indivisibile, come una monade, come un atomon; questa credenza deve essere estirpata dalla scienza! ».32

Bisogna invece pensare l'anima come un condensato, un punto d'aggregazione della struttura sociale degli istinti e delle passioni.

Non dunque « io penso », ma « esso pensa »; non è il soggetto « io » la condizione del predicato « penso ».

Su una lunghezza d'onda analoga si collocano lo strutturalismo e le filosofie che riducono l'uomo a semplice particella del Tutto, a fenomeno di una natura ingenerata ed eterna, nella quale è destinato a dissolversi completamente: qui il tema dell'identità diacronica o transtemporale della persona non si pone, perché manca il soggetto/suppositum.

Profonda è in tali casi l'ostilità all'interiorità.

Basterà qui ricordare l'assunto di Foucault secondo cui l'uomo è tramontato, sostituito da una struttura impersonale, ad es. la lingua che parla in noi, e l'antiumanesimo, espresso lapidariamente da C. Lévi-Strauss: « il n'y a de sens que par l'homme, lequel n'a pas de sens ».

Non bisogna essere troppo inclini a sottovalutare l'influsso antiumanistico di queste posizioni moderne e tardo moderne sulla vita sociale e politica.

L'antipersonalismo si è fatto carne e mondo, è entrato nella storia degli uomini, è stato una componente essenziale del terribile fenomeno dei totalitarismi, che assumono sin dal primo passo la priorità del sociale, del collettivo, del gruppo sul singolo: la riconduzione del singolo al genere, nel quale soltanto egli può avere realtà e senso, è l'anima del totalitarismo.

5) Il XX secolo

5.1) Heidegger. Polemizzando con Sartre, Heidegger scriveva che noi siamo su un piano in cui c'è soprattutto l'essere, ed il Dasein appartiene al modo d'essere nel mondo, segnato dalla temporalità e dalla finitezza.

Le determinazioni heideggeriane secondo cui « l'essenza dell'esserci consiste nella sua esistenza » ( Sein una Zeit, p. 42 ), o anche « l'uomo dispiega la sua essenza ( west ) in modo da essere il 'ci' ( Da ), cioè la radura dell'essere » non paiono definizioni personalistiche.33

La celebre Lettera sull'umanismo non è né vuole essere una « lettera sul personalismo »: essa tace completamente sulla persona, procedendo a separare umanesimo e persona.

Mentre Heidegger sottopone a critica l'idea di uomo come animal rationale, non introduce il concetto di persona.

Criticare l'umanesimo greco ed europeo a partire dalla sola determinazione di uomo come animale razionale rappresenta una di quelle inaccettabili semplificazioni in cui la pagina heideggeriana incorre non di rado, e che nel caso in esame si concreta nell'assunto secondo cui cristianesimo, esistenzialismo e marxismo sono varietà di umanismo che si differenziano solo superficialmente.

Data più o meno dagli anni della Lettera sull'umanismo l'apertura di una notevole falla nel progetto umanistico, con l'avvento del pensiero postumanistico e antiumanistico, di cui si sono fatte portatrici le ali radicali delle scienze umane.

Se non si incontra in Heidegger l'idea che il livello più alto dell'essere sia l'esistenza personale, il Dasein difficilmente può valere come efficace surrogato della persona, la cui categoria capitale non consiste dell'essere-nel-mondo, ma nell'interiorità ontologica di un atto primo d'esistenza di carattere sostanziale e spirituale.

Per raddrizzare la sua formulazione, si dovrebbe dire: noi siamo in un piano in cui c'è soprattutto l'essere, e la sua più alta modalità è l'esistenza in forma personale.

La declinazione quasi fenomenologica degli atti secondi del Dasein, quali la cura, la chiacchiera, ecc. ( vedi Essere e tempo ) potrebbe risultare preparatoria ad un transito verso la persona, che non sembra accadere in Heidegger.

Tuttavia in lui ( cfr. « La questione della tecnica » ) vi è la consapevolezza che il soggetto moderno il quale con la tecnica fa ruotare intorno a sé ogni altro ente, può alla fine indirizzare tale potenza verso se stesso e diventare lui stesso quel « fondo » ( Bestand ) da sfruttare così come si sfrutta un serbatoio di energia.

L'imposizione tecnica mette in pericolo l'uomo nel suo rapporto con se stesso e con le cose, poiché rimanda al disvelamento nella forma dell'impiegare: quest'ultimo scaccia ogni altra possibilità del disvelare.

Quando tutto ciò che è si presenta all'uomo soltanto come « fondo », proprio allora l'uomo corre il massimo pericolo, in quanto egli stesso può essere considerato solo come « fondo ».

Un varco rimane aperto per una più compiuta elaborazione sul soggetto-persona.

5.2) Gentile.

Più precaria è la situazione della persona nel neoidealismo, in specie nell'attualismo gentiliano dove accade, come già in Hegel, l'immolazione dialettica della persona, di cui è segno la completa funzionalità dell'io empirico allo Stato e, da un altro punto di vista, la sua inespiabile mortalità.

Anche per Gentile vale la grande regola in cui Engeis ravvisava il cuore della dialettica: « tutto ciò che esiste, merita di morire » ( su questi aspetti vedi infra al cap. IV ).

Nel capitolo « Individuo » del volume Genesi e struttura della società ( a cura di G. Brianese, Gallone Editore, Milano 1997 ) Gentile coglie che per Aristotele l'individuo è sostanza, è cioè un essere determinato, unità di materia e forma, ma rifiuta quasi sprezzantemente questa posizione considerata espressione di un realismo ingenuo, che non comprende che l'individuo non è un essere naturale.

La sua unità non sta nella natura ma nello spirito, « nell'Io che la sua unità conferisce a tutte le cose a lui opposte, che egli stringe in un nesso indivisibile, che è il sistema della coscienza e del pensiero …

L'unità dell'Io è infinita, universale, intrascendibile, assoluta » ( p. 14 e s. ).

Che cosa ne è della concretezza dell'individuo?

Essa « non è quella dell'esistenza sensibile nello spazio e nel tempo, nella natu ra: ma quella invece dell'essere che esiste nello spirito, come autocoscienza ».

Bisogna guardarsi, aggiunge Gentile, dal rappresentare l'individuo tra gli individui nella loro corpulenza tra gli oggetti dell'esperienza, poiché « l'individuo così rappresentato è sempre l'individuo realistico e aristotelico dal cui fantasma il pensiero deve liberarsi » ( p. 23; ma non è l'unico individuo che veramente conosciamo e che ci deve stare a cuore? ).

Comunque la grande parola è stata detta e ridetta: autocoscienza, che appunto è atto secondo e funzione.

E chi non la possiede ancora come gli infanti?

Per Gentile non sono individui, però noi facciamo loro credito ritenendo che dimostreranno la capacità di diventare quegli individui che alla nascita ancora non sono; una previsione, aggiunge, che interamente non si avvera mai.

Avvolgendosi in formule oscure e retoriche, dove dovunque risuona « spirito, spirito; Io, Io », Gentile ha assestato un colpo notevole alla dottrina della persona.

l suo nucleo ontologico-sostanzialistico è risolto in funzione, e la funzione è processo dove non permane alcun valore assoluto, compreso quello della dignità della persona.

5.3) L'orientamento empiristico.

I pensatori di orientamento empiristico tendono a cancellare l'idea di dignità della natura umana e della persona e a sostituirle quella di dignità ( o viltà ) della vita.

Ossia cancellano un concetto ontologico collocando al suo posto un concetto morale, coerentemente col deciso rifiuto empiristico di ogni conoscenza diversa da quella empirica e scientifica, e con l'incapacità, in cui l'empirismo versa, di intendere la realtà sotto il concetto di essere e di sostanza, e parimenti sotto quelli di natura ed essenza.

Il loro problema è considerato irresolubile.

Ciò implica che in base alle posizioni dell'empirismo vada abbandonata la pretesa di attribuire alla natura umana uno statuto di superiorità ontologica nei confronti degli altri esseri animali, di considerare dotato di senso il concetto di dignità dell'uomo, e di connettere questa dignità ad un valore intrinseco o a una realtà sostanziale.

Si ritiene dunque che la domanda sull'eventuale dignità della vita umana possa venire posta solo dopo aver definitivamente accantonato la vecchia questione sulla dignità della natura umana e lo schema concettuale-reale che intendeva offrire una fondazione ontologica a tale valore.

Il passaggio dalla dignità della natura umana alla dignità della vita umana apporta una conferma ulteriore allo slittamento intervenuto dalle categorie dell'essere a quelle dell'agire.

Tuttavia anche il concetto di vita umana ( e sua dignità ), in quanto denotante un'essenza, dovrebbe risultare completamente fittizio per un empirismo coerente con se stesso.34

Nell'empirismo viene capovolta la posizione del senso comune, secondo cui negli enti vi sono valori che vanno riconosciuti, poiché per l'empirismo i valori morali sono invece sentimenti proiettati dal soggetto nell'oggetto.

In altri termini l'empirismo tende a ribaltare il rapporto fra ontologia e assiologia: l'ontologia, se è possibile parlarne ancora, è radicata nell'assiologia, e quest'ultima gradua il rispetto morale che dobbiamo agli enti viventi ultimamente in base ad una procedura consensuale.

5.4) Differenti da questi indirizzi sono le filosofie che recuperano l'idea di persona attraverso il suo agire morale, la coscienza, la prassi di libertà, il riconoscimento dei suoi diritti politici e giuridici, pur non arrivando a collocarsi dal lato del personalismo ontologico.

Rientrano in questo schema attualmente molto praticato numerose filosofie pubbliche di ispirazione liberale.

In esse circola un « io kantiano », la cui unità e struttura ontologica non sono esplorate, ma stabilite solo sul piano etico e procedurale e sul concetto di autonomia.

Viene affermata una forma ridotta di unità del soggetto consistente nella sua capacità di scegliere e di darsi regole pubbliche contrattualmente convenute.

La stessa coscienza morale è interpretata in senso restrittivo attraverso le sole regole del Giusto, non del Bene.

Dalla priorità, affermata da Rawls, del Giusto sul Bene - il che va in senso contrario alla sequenza genetica dei concetti morali, per cui il Bene viene prima del Giusto e stabilisce il primo concetto fondamentale sistematico della scienza morale - consegue una teoria ristretta e procedurale dell'io.

Trascurato è il tema della costruzione dell'io attraverso il moto verso i fini, poiché il rapporto con questi ultimi è reso in linea di principio indecidibile razionalmente, ossia intrinsecamente pluralistico per l'asserita incapacità di porre in scala fini e beni, e di individuare dialetticamente - cioè, per stare ad un esempio celebre, secondo il procedimento largamente adottato da Aristotele nell'Erica Nicomachea - il fine e il bene più alto.

5.5) Varietà del personalismo.

Diversamente si situa l'originale concezione antropologica di Felice Balbo, giocata lungo un cammino metafisico, dove forse non è tematizzata l'idea di sostanza ma è svolta un'antropologia dinamica intesa come crescente livello di partecipazione all'essere e alla vita, ed in cui le categorie della possibilità e virtualità giocano un ruolo notevolissimo.

In lui l'antropologia si radica nella dottrina dell'essere e in specie nella metafisica della partecipazione, che con le sue categorie include tanto l'uomo fisico quanto quello sociale cui secondo Balbo si riferiscono angustamente molte concezioni.

Ogni persona è invece inclinata ad un più essere, e l'uomo è da lui definito come « il poter essere sussistente » che costantemente cerca nuove possibilità di svolgimento secondo la legge del progresso che è sviluppo e compimento di quanto è incompiuto, e che dunque mira al massimo bene umano.35

L'originalità della sua strada risiede nella coniugazione tra essere e bene nel cuore stesso dell'antropologia, senza scegliere un cammino a spese dell'altro.

Nell'ambito dei personalismi che privilegiano la relazionalità, la dialogicità, la libertà, insieme ai personalismi di Buber, Lévinas, Berdjaev, si situa quello di Mounier, che così determina la persona: « La persona è un'attività vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione »,36 in una definizione connotata dal far centro sull'azione.

Su sponde affini quanto al chiaro privilegiamento dell'etica si colloca il pensiero di Ricoeur, che si serve del concetto di identità narrativa risultante dall'unità effettiva di un'intera vita.

La prospettiva ricoeuriana è delineata nei tre livelli che sostanziano l'approccio filosofico-ermeneutico al sé: tendere alla vita buona, con e per l'altro, all'interno di istituzioni giuste.

La maestria delle analisi svolte in Sé come un altro conferma l'attenzione alle categorie dell'agire.

Illustrando l'ermeneutica del sé, che costituisce l'asse di quest'opera fondamentale, l'autore ne individua le domande principali in: Chi parla? Chi agisce? Chi si racconta? Chi è il soggetto morale di imputazione? ( cfr. p. 92 ).

Introducendo l'identità come idem ( ossia la medesimezza per cui uno è semplicemente « lo stesso » ) e l'identità come ipse ( in base a cui invece qualcuno è « se stesso » ), Ricoeur ritiene che la prima supponga l'esistenza di una sostanza ma che non sia importante, mentre la seconda lo è perché rinvia all'esistenza autentica del Dasein.

Tuttavia l'identità secondo « ipseità » è soltanto un'identità narrativa che risulta e rinvia all'unità reale di una biografia.

Facendo perno su tale identità, Ricoeur da via libera alla relazionalità: « L'ipseità del se stesso implica l'alterità a un grado così intimo che l'una non si lascia pensare senza l'altra ».37

Che bisogna uscire dal circolo della sola identità-medesimezza per raggiungere l'alterità è un compito necessario, ma niente lascia supporre che la metafisica della sostanza non sia idonea per ciò.

Osserva E. Berti: « L'insufficienza della posizione di Ricoeur consiste, a mio avviso, nel fornire una fondazione puramente etica dell'identità personale, simile a quella teorizzata già da Kant ed applicabile soltanto a coloro che sono responsabili delle proprie azioni, cioè che possiedono un « carattere » morale, una capacità di restare fedeli a se stessi, un'affidabilità dal punto di vista degli altri ».

Berti aggiunge che anche nel caso di Ricoeur « non si riesce a fornire un criterio di identificazione applicabile a tutti gli individui di specie umana, proprio a causa dell'abbandono della concezione classica, cioè aristotelico-boeziana-tomistica ».38

Come detto, tale abbandono in Ricoeur proviene da un retaggio kantiano.

Nel dialogo con J. R Changeux, raccolto in J. R Changeux, R Ricoeur, La natura e la regola ( Cortina, Milano 1999 ), scrive: « All'epoca dei 'cartesiani' - Malebranche, Spinoza e Lebniz - si credeva di poter ancora concepire la realtà ultima in termini di sostanza, cioè di qualcosa che esiste in sé e per sé …

Non è sul piano di quest'ontologia, le cui basi sono state scosse da Kant nella « Dialettica trascendentale » della prima Critica, che mi situerò » ( p. 13es. ).

In una linea analoga si situa la nozione di persona di C. Taylor, anch'egli centrato sul registro dell'agire: « Una persona è un agente che ha un senso di sé, della propria vita, che può valutarla e compiere delle scelte su di essa.

E su questo che si basa il rispetto che dobbiamo alle persone ».39

6) Il criterio antisostanzialistico coerentemente seguito, porta con sé - per la già segnalata omogeneità fra sostanza e natura/essenza - il postulato antiessenzialistico secondo cui non vi è alcuna essenza umana, oppure essa è preceduta dall'esistenza.

Che l'esistenza preceda l'essenza fu forse il leitmotiv dell'esistenzialismo sartriano, a significare che l'uomo non possiede un'essenza umana determinata, ma che ogni soggetto edifica la propria essenza agendo.

L'uomo si progetta volta per volta nell'azione ed inventa parimenti il bene e il male.

Preso alla lettera ( cosa che forse neppure Sartre con felice incoerenza fa ) questo linguaggio significa che l' « essenza » umana si può cambiare, come forse oggi sognano di fare la genetica e l'eugenetica, ed anche che non si da alcuna natura umana intangibile e nessuna teleologia inscritta in essa.

Semmai occorrerebbe chiedersi se il « funzionalismo » ( chiamo funzionalismo ogni posizione che ritiene di poter ricondurre l'essenza umana ad una o più operazioni: la coscienza, l'autocoscienza, la libertà, il senso morale, ecc. ) non rischi di pensare anch'esso che non esista un'essenza umana, ma solo un insieme di sue operazioni.40

Diverse da tali posizioni sono quelle del « nuovo naturalismo » che riduce la persona senza residui ad elemento compiuto della natura/physis, come pare siano i casi di D. Dennett e di J. P. Changeux.

Qui non solo è congedato il concetto di sostanza, ma anche è emarginato il principio-persona che in vario modo può rimanere nella posizione funzionalistica e « morale ».

Nell'ambito di un approccio evoluzionistico a sfondo materialistico diventa arduo se non impossibile fissare una differenza fra uomo e animale.

Scrive in proposito Lue Ferry: « Si tratta di trovare una distinzione che opponga il regno umano all'intero regno animale. Si può, certamente, rifiutare questa domanda - cosa che fanno tutti i materialisti che non vogliono una differenza di natura o di essenza tra l'uomo e l'animale, ma tutt'al più ( e ancora ) di grado ».41

Nel naturalismo una filosofia dell'interiorità ontologica è difficilmente pensabile, e con essa una filosofia della soggettività per la relazione strettissima fra soggettività e interiorità.

Dove non si può parlare di persona, il Mondo è solo una scena esteriore, un grande palcoscenico fenomenico dove ogni ente si risolve nell'apparire.

Lungo tale cammino il naturalismo contemporaneo a base biologica era stato in certo modo preceduto dal marxismo e dal neopositivismo, che hanno affermato il carattere esteriore e eterodeterminato del soggetto umano.

Dove non vi è interiorità e autodeterminazione dall'interno, è l'essere sociale che determina la coscienza, secondo la sesta tesi di Marx su Feuerbach: « L'essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all'individuo singolo.

Nella sua realtà è l'insieme dei rapporti sociali », posizione che significa che non è la coscienza a determinare la vita quanto la vita la coscienza.

« Tutte le cose sono in superficie e sono perfettamente accessibili », si legge nel manifesto del Wiener Kreis, asserto di una filosofia dell'esteriorità senza interiorità, sostanzialmente indifferente al personalismo.

L'analisi si è indirizzata ad autori del pensiero occidentale, non all'integralità della filosofia europea dove un livello paragonabile d'attenzione andrebbe dedicato al pensiero greco-slavo e russo.

Soccorre qui l'idea che il pensiero dell'oriente europeo è stato segnato in maniera profonda dall'ambito teologico, e ciò, se da un lato non ha forse favorito il pieno sviluppo di un'ontologia personalistica, lo ha preservato da forme di inaridimento e banalizzazione che hanno afflitto e affliggono la filosofia europeo-occidentale della persona.42

4. Conclusioni

a) L'excursus sembra attestare il depauperamento dell'idea di persona e del suo originario radicamento ontologico, in larga misura dovuto al prevalere dell'oblio dell'essere nel Moderno e al dualismo tra piano gnoseologico e piano metafisico, inaugurato da Cartesio e portato all'acme da Kant e dai suoi successori.

La nostra elaborazione ha volutamente omesso di esplorare autori moderni quali Rosmini, Maritain, E. Stein, per i quali il valore della persona e il correlato principio-persona si fonda su un chiaro personalismo ontologico che accoglie la sostanzialità dell'essere umano e le categorie dell'in sé e del per sé.

Il silenzio in proposito non faccia ritenere che quanto non è stato trattato sia secondario, che anzi la sua presenza compone una sinossi molto più integra della dottrina della persona, senza di cui l'insieme risulterebbe seriamente sbilanciato.

Ma, come detto, il nostro compito non era di dipingere un quadro compiuto coi suoi volumi e colori, bensì di approfondire la crisi antisostanzialistica.

Oltre queste scuole abbiamo incontrato la linea in vario modo « etica » e funzionalistica che possiede molteplici versioni e diramazioni ( neokantismo, fenomenologia, un certo esistenzialismo ).

Essa cerca di salvaguardare il valore di fine dell'uomo, ponendosi in genere come assiologia senza ontologia o con un'ontologia debole.

Al di là di questa posizione si apre un ulteriore spazio molto variegato che tende a negare all'uomo anche la dignità di fine, adottando un aperto antiumanesimo.

L'excursus analitico autorizza l'asserto secondo cui nel pensiero moderno la linea antipersonalistica è stata importante, seppure fortunatamente non totalitaria.

Il disguido di parte della filosofia moderna sul concetto centrale di sostanza non sembra un masso erratico capitato per caso nel corpo del pensiero moderno, ma un evento concettuale di fondamentale rilievo in cui si esprime un portato di quell'oblio dell'essere che ha afflitto il moderno filosofico.

Poiché la sostanza è la prima concrezione dell'essere, l'oblio del primo comporta necessariamente l'oblio o la confusione sulla seconda ( per un'approfondita analisi di questo tema e del nichilismo teoretico immanente al moderno filosofico in non pochi suoi aspetti rinvio al mio Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, Armando, Roma 2004).

b) Una cosa resta da dire, cui annettiamo rilievo.

La valutazione della dottrina della persona sin qui svolta con un chiaro carattere « analitico », non è certamente inutile quasi che valesse per il filosofo il detto superbo « de minimis non curat praetor », poiché la persona non è un minimo.

Ad essa può positivamente accompagnarsi una valutazione « dialettica », nel senso che le scuole filosofiche della modernità non hanno soltanto provocato una desostanzializzazione della persona, ma anche incrementi notevoli nell'ordine morale, politico, giuridico, economico, medico, dove appunto il principio-persona ha operato efficacemente, si è rinnovato e ha prodotto avanzamenti.

Valutazione dialettica significa che, nonostante i disguidi ontologici messi in luce sopra, è possibile considerare per alcuni aspetti il pensiero moderno come un'introduzione o re-introduzione - talvolta in via diretta, talaltra in negativo - dell'ontologia tradizionale.

In altri termini i notevoli guadagni personalistici accaduti e quelli che potranno venire, per poter tenere e durare postulano una ripresa dell'ontologia della sostanzialità in rapporto ai nuovi problemi e domande.

Non si tratta semplicemente di restaurare, ma di rifondare, approfondire, di trovare inedite sintesi in relazione ai nuovi problemi: serve un'intelligenza più intima del l'esser-persona.

Un mero rinnovamento discorsivo non può convenire adeguatamente l'idea di persona nella moderna solidarietà democratica e nel quadro dei diritti umani.

c) Due grandiosi tentativi di colonizzazione della persona sono stati compiuti nel moderno o sono attualmente in corso:

a) Il dispotismo sanguinario esercitato dalle ideologie totalitarie nel XX secolo;

b) la tentata conquista dell'io da parte di versioni radicali delle biotecnologie ( neuroscienze, ingegneria genetica, eugenetica, clonazione ).

Il secondo è in cammino e perciò aperto, non ancora fissato nei suoi esiti, sebbene attualmente sia operante l'intento di dissolvere la persona riportandola a momento transeunte dell'evoluzione cosmica.

Come i totalitarismi hanno messo in atto un vero odio per la persona, parimenti seppure in maniera più obliqua può operare il progetto di ridurre l'uomo a physis.

Se esso procederà, una grande demoralizzazione umanistica sarà l'esito del tentativo di integrale naturalizzazione dell'uomo, e si affermerà il « dispotismo dell'organico ».

Esiste infatti una contraddizione fra il tentativo delle scienze di entrare nella sfera intenzionale, morale, cognitiva, deliberativa dell'uomo e la possibilità di un miglior governo di se stessi in vista dell'autodeterminazione.

La soggezione dell'autodeterminazione all'organico compromette quest'ultima, mettendo in luce l'antinomia fra impulso alla libertà e risoluzione organico-naturalistica dell'uomo.

Indice

1 Per distinguere l'umanesimo come concezione positiva dell'uomo dall'Umanesimo come momento della cultura europea, scriveremo il primo con la minuscola e il secondo con la maiuscola.
2 1984, Mondadori, Milano 1973, p. 277.
3 Esistono molteplici accezioni del termine personalismo, introdotto nel lessico filosofico da Charles Renouvier nel 1903, a seconda di come si interpreti la persona, il suo fine, la sua costituzione, il rapporto con sé, l'altro, il mondo. Prima della nascita ufficiale dei personalismi, che può situarsi intomo al 1930, non erano mancati spunti di pensiero personalista nella filosofia precedente come nei casi di Hamelin, di Blondel e di Bergson, oltre che del già citato Renouvier. Il termine 'personalismo' aveva però nel linguaggio corrente un significato completamente diverso dall'accezione filosofica, se nel 1923 il Larousse definiva il personalismo come "il comportamento vizioso di chi riferisce tutto soltanto a se stesso". Uno dei massimi esponenti del personalismo, J. Maritain, osserva: "Nulla sarebbe più falso che parlare del 'personalismo' come di una scuola o di una dottrina. E un fenomeno di reazione contro due opposti errori, ed è un fenomeno inevitabilmente molto misto. Non c'è una dottrina personalistica, ma ci sono aspirazioni personalistiche e una buona dozzina di dottrine personalistiche, che non hanno talvolta in comune se non la parola persona, e delle quali alcune tendono più o meno verso l'uno degli errori contrari tra i quali sono situate", J. Maritain, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1998". Il testo originale è del 1946.
4 N. Berdjaev, Cinq méditations sur l'existence, Aubier, Paris 1936, p. 93 e s.
5 P. Ricoeur, Meurt le personnalisme, revient la personne, «Esprit», n. 1, 1983,pp. 113-119. Ricoeur osserva che - dopo l'idea di un regno a tré: personalismo-esistenzia lismo-niarxismo, illusione durata per breve tempo -, la sostituzione dell'idea di sistema a quella di storia con lo strutturalismo e la ripresa di un intento antiumanistico con Nietzschc, il personalismo si è trovato sradicato dal suo terreno espressamente cristiano. Nell'introduzione del 1985 a Esistenza e persona (Il Melangolo, Genova) Pareyson impiega senza remore sin dalla prima pagina il termine personalismo, ritenendo anzi che l'ora presente (1985) possa garantire al tema del personalismo un ambiente più propizio di quello (1950) in cui uscì la prima edizione del volume.
6 Scrive K. Lowith: "Come predicato del cosmo intero e perciò compiuto, il divino non è un Dio personale al di sopra e al di fuori del cosmo stesso, e l'uomo non è un'immagine di Dio unica nel suo genere perché anch'essa metacosmica, bensì, come qualsiasi altro essere vivente, è un essere del mondo mediante il quale il mondo perviene al linguaggio". La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano 1988, p. 204.
7 Filosofia, giustizia, amore, «Aut-Aut», nn. 209-210, settembre-dicembre 1985, P. 15.
8 L. Pareyson, Esistenza e persona, p. 174.
9 Boezio, De duabus naturis et una persona Christi (Contro Eutichen et Nestorium), III, 1-3; Riccardo di San Vittore, De Trinitate, 1. IV; Tommaso d'Aquino, S. Th., I, q. 29, a. 3. Cfr. anche Contro Gentes, 1. IV, e. 35, e De Potentia, q. 9, a. 4. Su queste definizioni si veda lo studio di V. Melchiorre Pour une herméneutique de la personne, «Notes et documcnts», n. 14, avril-juin 1986, pp. 84-98. I critici di Boezio sostengono che Riccardo di san Vittore e l'Aquinate abbiano nettamente riformulato l'idea boeziana di persona. In prima battuta non paiono riscontrabili fondamentali differenze tra i tre approcci, poiché tanto l'esistenza di un individuo personale quanto la sua sussistenza sono altri modi di dire quello che è contenuto radicalmente od originariamente nell'idea di sostanza spirituale, cioè la capacità di un individuo singolo di esistere in sé e per sé, pur nella illimitata apertura intenzionale all'altro e al tutto. Seguendo la critica avanzata da Riccardo di San Vittore alla nozione boeziana di persona nel De Trinitate, ci accorgiamo che l'intera ricerca si svolge in un quadro teologico particolarmente delicato quale quello riguardante il dogma trinitario, oggetto di tutto il trattato di Riccardo. Posizione centrale riccardiana è che nell'unità della sostanza (divina) si possono dare esistenze plurime (cfr. 1. IV, cap. XX, 944B), e che una persona divina non è nient'altro che un'esistenza incomunicabile (cap. XVIII, 941D). Su questa base teologica la critica a Boezio si sviluppa come segue: perché sia valida in maniera universale la sua definizione di persona come sostanza individuale di natura razionale, occorre non solo che ogni sostanza individuale di natura razionale sia persona, ma inversamente che ogni persona sia una sostanza individuale di natura razionale, il che per Riccardo non è vero, poiché l'unica sostanza divina non include una sola persona ma tré (cfr. cap. XXI, 945A). Conseguentemente per Riccardo possiamo affermare senza inconvenienti della persona divina che essa sia un'esistenza incomunicabile di natura divina ("inconvenienter dicere possumus de divina persona, quod sit naturae divinae incommunicabilis existentia", 945D). La determinazione, elaborata per la persona divina, viene estesa ad ogni persona, che è "rationalis naturae individua existentia" (946A) o anche "non quaelibet existentia, sed sola individua vel incommunicabilis" (946C). Confesso di non sentirmi a mio agio con questo argomentare, non foss'altro perché ogni esistenza, anche la più umile, è incomunicabile, non solo quella personale. Ho impiegato il De Trinitate nella versione francese con testo latino a fronte, acura di Gaston Salet, Ed. du cerf, Paris 1959. Non è possibile identificare il concetto di persona e quelli di uomo o di individuo umano o di soggetto. Il primo è analogo, mentre quello di uomo univoco: nella sua latitudine analogica il primo si applica a Dio ove si realizza perfettamente, alle persone create puramente spirituali (angeli), all'uomo, il quale occupa il gradino più modesto nella scala dell'essere persona. Solo a questo terzo livello vale l'equivalenza fra i termini di persona e di uomo/individuo umano.
10 S. Th., I, q. 29, a. 3.
11 "La storia del concetto di persona è la storia di un lungo cammino che, se richiamato alla mente, ci porta per un momento nel cuore della teologia cristiana. Senza la teologia cristiana, ciò che noi oggi chiamiamo 'persona' sarebbe rimasto qualcosa di non definibile e il fatto che le persone non sono avvenimenti semplicemente naturali non sarebbe stato riconosciuto", R. Spaemann, Persone, Sulla differenza tra 'qualcosa'e 'qualcuno', Laterza, Roma-Rari 2005, p. 20. Spaemann da giustamente voce ad un elemento fondamentale e in genere non controverso.
12 Categorie, 3a 8s. Fra gli altri luoghi dove viene svolta la dottrina della sostanza cfr. Mei. 1017 b 10-25. Per l'Aquinate "Substantiae nomen significai essentiam cui competil per se esse", S. Th., I, q. 3, a. 5. In genere sono i seguaci dell'empirismo a rifiutare l'idea di sostanza. Spesso non si incontra in loro una critica motivata ma la dichiarazione che il concetto di sostanza sarebbe superato, non più discusso, di modo che non varrebbe più la pena di occuparsene. Prendendo le distanze da questa posizione, E. Berti (cfr. "Sostanza e individuazione", in AA.VV, Seconda navigazione. Annuario di filosofìa 1998, Mondadori, Milano 1998, pp. 143-160) richiama la messe di studi attuali che, in specie in ambiente anglosassone e analitico, rivalutano la sostanza. Il suo rifiuto ha alle spalle quello dell'approccio ontologico, posto come una premessa ovvia cui si dovrebbe per forza consentire: ma ciò rende impossibile il dialogo, come osserva G. Cottier (cfr. "Morale e diritto in bioetica: il paradigma dei diritti umani, in AA.VV., Quando morire?, a cura di C. Viafora, Gregoriana, Padova 1996).
13 "Substantia vero quae est subjectum… non indiget extrinseco fundamento in quo sustenetur, sed sustentatur in se ipso; et ideo dicitur subsistere, quasi per se et non in alio cxistens… Sic ergo substantia quae est subjectum, in quantum subsistit dicitur ousiosis vel subsistenlia; in quantum vero substat [accidentibus] dicitur hypostasis secundum graecos, vel substantia prima secundum latinos" (De potentia, q. 9, a. 1). Considerando la determinazione boeziana di persona si riconosce la necessità di una sua purificazione semantica per l'uso teologico, poiché il termine substantia fa riferimento al soggetto di inesione degli accidenti che non possono darsi in Dio. Nella frase appena citata Tommaso opportunamente introduce la differenza tra il subsistere da un lato e il substare dall'altro, ricorrendo al primo verbo e al sostantivo sussistenza nella definizione di persona.
14 Con la differenza tra evento e processo, per cui il primo è un accadimento puntuale e istantaneo, mentre il secondo si distende nel tempo e nello spazio, si possono attribuire i vari aspetti della vita della persona all'uno o all'altro versante. Il concepimento, il divenir persona, la mone sono eventi di per sé puntuali e istantanei nonostante le difficoltà in cui si può incorrere nel loro accertamento empirico, mentre la crescita, lo sviluppo, il declino, l'acquisizione o la perdita di questa o quella qualità sono processi (tuttavia possono esserci perdite istantanee di qualità come la vista, se la cecità colpisce all'improvviso). Adottando un linguaggio cui ricorreremo in specie nel cap. IV, diremo che nel caso dell'evento si determinano trasformazioni sostanziali, nell'altro accidentali.
15 Per Aristotele l'anima è in certo modo tutte le cose (Cfr. De anima, 1. IlI); analogamente l'Aquinate osserva: "Anima est quodammodo omnia: per sensum est omnia sensibilia, et per intellectum omnia intelligibilia", S. Th., I, q. 16, a. 3.
16 Per M. F. Sciacca l'interiorità implica trascendenza. "L'interiorità o la spiritualità che noi qui stiamo illustrando si esprime in questa forma: l'interiorità come presenza della verità alla mente; quella immanentista in quest'altra: l'interiorità (o il pensiero) è essa stessa la verità". L'interiorità aggettiva, Marzorati, Milano 1967, p. 62 e s.
17 De servo arbitrio, W., 18, 636.
18 Su questa dialettica cfr. il mio Cattolicesimo e modernità, Ares, Milano 1996, p. 97 e s.
19 H. de Lubac, L'alba incompiuta del Rinascimento. Pico della Mirandola, Jaca Book, Milano 1977, p. 432 e s. e p. 456.
20 Saggio sull'intelletto umano, trad. di Abbagnano, Utet, Torino 1971, 1. II, e. XXIlI,n.2,p.351,
21 Ivi, p. 402 e p. 404. La citazione precedente è a p. 396.
22 Opere filosofiche, voi. 1, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 662 e s. e p. 273. La citazione successiva è a p. 264.
23 Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1983, p. 264; p. 332; cfr. pp. 324 e 337; p. 327.
24 "Il fatto che l'uomo possa rappresentarsi il proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli altri viventi sulla terra. Per questo egli è una persona e, in forza dell'unità di coscienza persistente attraverso tutte le alterazioni che possono toccarlo, egli è una sola e medesima persona, cioè un essere del tutto diverso, in grado e dignità dalle cose, quali sono gli animali irragionevoli, dei quali si può disporre ad arbitrio, e tale è anche quando egli ancora non può dire io, perché lo ha nel pensiero". Antropologia pragmatica, trad. di G. Vidari - A. Guerra, Laterza, Roma - Bari 1994, p. 9.
25 La citazione è in Critica della ragion pratica, Laterza 1979, p. 197 e s. Per la seconda forma dell'imperativo cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 61. Sulla differenza fra dignità e prezzo citiamo la frase kantiana: "Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcos'altro a titolo equivalente: al contrario ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità", dunque ciò che ha una dignità e non un prezzo è un fine in sé (p. 68).
26 H. Kelsen, in H. Kelsen, R. Treves, Formalismo giuridico e realtà sociale, a
cura di Stanley L. Paulson, ESI, Napoli 1992, p. 216.
27 H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, a cura di A. Carrino, Giuffrè, Milano 1989, p. 463.
28 N. Berdjaev, Cinq méditations, cit., p. 174.
29 "Lo 'spirito', qualcosa che pensa: possibilmente addirittura lo 'spirito assoluto, schietto, puro' - questa concezione è una seconda conseguenza, derivata, della falsa osservazione di sé, che crede al 'pensare'; qui viene immaginato in primo luogo un atto che non esiste, il 'pensare', e in secondo luogo un substrato soggettivo in cui ha origine ogni atto di questo pensiero e nient'altro: cioè tanto il fare quanto l'autore sono fittizzi", Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, Adelphi, Milano 1971, vol. VIII, t. II, p. 262 e s.
30 Frammenti postumi, in Opere, vol. VIII, t. II, p. 296.
31 Cfr. Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1987, p. 30 e s.
32 Al di là del bene e del male, n. 12.
33 Lettera sull'umanismo, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 278.
34 Cfr. E. Lecaldano, "La nozione di dignità della vita umana", in AA.VV, Bioetiche in dialogo, a cura di P. Cattorini, E. D'Orazio, V. Pocar, Ed. Zadig, Milano 1999, PP. 27-44. Secondo l'autore occorre prendere atto del contesto completamente nuovo che renderebbe non più proponibile la riflessione sulla dignità della natura umana, concetto ritenuto al massimo dotato di un valore emotivo e retorico, e non avente alcun fondamento empirico (ma quest'ultimo assunto è profondamente ambiguo, perché la base della dignità umana sta in un valore d'essere che può venire percepito a partire dall'osservazione e riflessione su di essa, purché non si escludano a priori modi di conoscenza diversi dalla mera constatazione empirica). La riflessione sulla dignità della vita umana esige che "si abbandoni la pretesa di poter agganciare il particolare valore o dignità attribuiti alla vita degli esseri umani a un valore intrinseco che sarebbe loro per natura qualunque sia la vita essi si trovassero a dover condurre" (p. 28), espressione che riconferma che ogni aspetto dell"in sé' (tanto ontologico ossia la sostanzialità, quanto morale ossia ciò che vale in sé) è congedato dall'empirismo radicale, proprio a partire dall'abbandono dell'ontologia e piena risoluzione della filosofia in etica.
35 Cfr. Idee per una filosofia dello sviluppo umano, in Opere, Boringhieri, Torino
1966, p.450 e s.
36 Il personalismo, AVE, Roma 1978, p. 13.
37 Sé come un altro, a cura di D. lannotta, Jaca Book, Milano 1993, p. 78.
38 E. Berti, "Il concetto di persona nella storia del pensiero filosofico", in AA.VV., Persona e personalismo. Gregoriana, Padova 1992, p. 70 e s. Forse un rilievo analogo vale per la determinazione della persona nel pensiero di Pareyson, ricondotta alla relazionalità: "L'uomo è un rapporto: non che sia in rapporto, non che abbia un rapporto, ma è un rapporto, un rapporto con l'essere (ontologico), un rapporto con l'altro" (Ontologia della libertà, Einaudi 1995, p. 10).
39 Etica e umanità, a cura di P. Costa, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 135.
40 Su questi aspetti cfr. anche L. Ferry in L. Ferry, J.D. Vincent, Che cos'è l'uomo? Garzanti, Milano 2002, pp. 103-109.
41 Ivi, p. 266.
42 Per un primo ingresso vedi L'idea di persona nel pensiero orientale, a cura di G. Grandi, Rubbettino, Soveria 2003.