Il principio Persona

Indice

Persona: logos e nomos

Capitolo secondo

Imparare a vivere significa imparare ad essere persona: compito fra i più difficili in assoluto per ogni uomo e in vista del quale la filosofia, pur consapevole di poter offrire un limitato aiuto, non deve abbandonare il campo troppo presto.

L'analisi ontologica del capitolo precedente, mentre costituisce un indispensabile filo conduttore del volume in vista di una ripresa del principio-persona, abbisogna di arricchimenti e sviluppi su vari piani.

Svolgeremo brevemente sei aspetti:

1) Il nesso tra sostanza e relazione;

2) Interiorità estatica, amore, comunicazione;

3) La coscienza psicologica e morale;

4) Paradossi della persona;

5) Personalismo teologico e teocentrico;

6) Il rapporto dell'umanesimo secolare con la condizione umana.

1. Sostanzialità e relazionalità

Secondo Berdjaev « L'io non esiste che nella misura in cui si trascende, perisce se resta in se stesso senza uscita ».1

La relazione è una ricchezza per l'ontologia dell'essere e la dottrina della persona che le è propria: solo nelle metafisiche dell'Uno la relazione è pensata come una privazione e un difetto.

La filosofia della sostanzialità è una filosofia dell'alterità, per nulla una filosofia dell'identità chiusa: i due aspetti della sostanzialità e della relazione non possono venire opposti, ed anzi il secondo procede dal primo nel senso che la relazione accade a partire dalla sostanzialità.

Il principio-persona cammina meglio quando tiene insieme, armonizzandole, l'idea che la persona è una realtà sostanziale aperta alla relazione; e che essa non può ridursi soltanto a relazione.

L'essere in relazione è proprio della persona ma non la costituisce come se la sua essenza fosse la relazionalità, che d'altro canto non le può essere aggiunta estrinsecamente poiché le è interna: la persona non è un individuo umano isolato cui si aggiunge la relazione.

Proprio per questo la persona è in grado di formare comunità, di edificare una communio personarum, in specie quella tra uomo e donna.

Tali assunti, in genere concessi nelle culture del personalismo, non di rado sono portati all'estremo nel pensiero contemporaneo che frequentemente attribuisce alla persona quasi solo la relazionalità.

Con queste considerazioni siamo avviati a considerare un importante problema: il rapporto fra sostanzialità e relazionalità, ossia se la persona possa ridursi ad uno dei due poli, subordinando o omettendo l'altro.

Ponendoci nello spazio concettuale dell'idea boeziana di persona, avvertiamo che il logos/razionalità ( ragione e linguaggio ) implica necessariamente la relazionalità.

La vita dello spirito è di per sé relazionale tanto dal lato della conoscenza quanto da quello dell'amore, per cui alla persona appartengono, oltre alle dimensioni della sostanzialità ( esistere in sé ) e del valore di fine ( esistere per sé ), quelle dell'esistere verso l'altro e con l'altro ( esse ad alterum, esse cum alio ).

Nel rapportarsi all'altro si manifesta l'apertura costitutiva della persona, che si autotrascende, si compie nella comunicazione, in specie in quella « io-tu ».

E nell'esistere con l'altro si mostra la reciprocità delle coscienze, l'empatia come capacità di « entrare » nell'altro, la comunità e la condivisione, dunque la struttura fondamentale della socialità.

Questa si radica in una relazione « io-noi », non solo « io-es » dove si fa esperienza degli oggetti.

Il soggetto cerca una relazione vitale con persone, perché nel rapporto col tu e col noi l'uomo diventa un io: si tratta di relazioni costitutive d'ogni socialità dove il principio-persona va inteso entro l'indefinita gamma delle comunità e società in cui il soggetto vive.2

La nostra esistenza, interpretata come relazione con l'altro in un rapporto lo-Tu-Noi-Tutti, è fondata su una relazione originaria cui si può dare il nome di « metafisica dell'amore », come hanno inteso numerose filosofie relazionali del Novecento ( Buber, Capitini, Lévinas, Marcel ).

Questa compresenza di tutti a tutti diventa la regola radicale di ogni autentica politica, che è la costruzione della convivenza fra tutti e della giusta relazione con l'altro.

Se il nostro essere è essere-con-l'altro, allora la violenza con cui colpiamo l'altro colpisce il senso stesso del nostro essere, e perciò va ripudiata.

Dal nesso originario lo-Tu-Noi-Tutti, che possiamo riassumere in quello Uno-Tutti, si differenzia radicalmente il nesso Uno-Tutto proprio delle filosofie totalizzanti: in questo gli uomini valgono come presenze empiriche simili agli oggetti, ed il loro senso non risiederebbe in loro bensì nella totalità in cui sono inseriti e come dissolti.

Ridurre la persona solo a relazione comporta che essa valga solo come parte di un Tutto, che diventerebbe fondante nei suoi riguardi: il concetto di parte è però in contrasto con quello di persona.3

La sostanzialità non è priorità dell'io, né la relazionalità priorità del tu, ma in entrambe si esprime l'idea che l'io e il tu siano radicati nell'essere e degni di rispetto.

Se nell'uomo si mette in luce solo il momento dell'individualità materiale, egli può essere inteso come uno tra i molti, individuato dalla porzione di materia che fa sua.

Inteso invece come persona, l'uomo non è parte o frammento, ma totalità, e come tale è un che di singolare e irripetibile: singolarità, totalità e interiorità vanno insieme.

Non un numero nella folla, non un'efflorescenza del genere, ma singolo come totalità indipendente, la persona è capace di autotrascendenza e di dono.

Essa può darsi, e a chi se non a un « tu » con cui entrare in dialogo?

Donandosi essa trascende le proprie ristrettezze empiriche, e può costituire nell'amore un « tu » come il suo proprio tutto.

Dopo aver riconosciuto la portata e il valore della relazione, due domande ci interpellano ancora.

1 ) Come può accadere il moto di uscita e di « esodo » dal proprio io?

È la persona pura positività, di modo che nella relazione con l'altro entrerebbe in gioco solo questo elemento?

Soltanto un eccesso di ottimismo potrebbe farlo credere, dal momento che la persona è insieme insufficienza e positività, e l'apertura si fonda su entrambi gli aspetti.

Vi è un'apertura all'altro in ragione dell'indigenza e una in ragione della pienezza: dal lato dell'indigenza la persona ha bisogno dell'altro, mentre come pienezza vuole comunicarsi all'altro.

Sarebbe una tentazione angelista puntare soltanto sulla comunicazione, dimenticando l'immenso carico del bisogno che preme le persone e che intride tanta parte della vita sociale.

2) Nel rapporto tra soggetti accade il fenomeno del riconoscimento, elemento centrale della relazione: sarebbe questo a fare la persona?

Ciascuno di noi è diventato persona perché qualche altro l'ha riconosciuto e l'ha chiamato a far parte dell'umanità?

L'esser-persona non dipende dal fatto che qualcuno mi riconosca tale, ma da un carattere più sorgivo ed essenziale, legato alla sostanzialità del mio atto di esistere.

La relazione reciproca basata sul riconoscimento non precede « l'essere persona come sua condizione, ma risponde a un'esigenza che proviene da qualcuno.

Essa presuppone inoltre che noi attribuiamo a questa esigenza, sulla base di certe caratteristiche di specie, il fatto che per il riconoscimento delle persone non è importante la presenza concreta di queste caratteristiche, ma soltanto l'appartenenza a una specie i cui esemplari ne dispongono »4

Concludiamo. Se non sussistono motivi per negare o diminuire il rilievo della relazionalità, cui l'approccio sostanzialistico fornisce il miglior supporto, non è possibile la sostituzione della sostanza con la relazione nella determinazione del concetto di persona umana, il che equivarrebbe ad introdurne una nuova definizione: la persona è una relazione individuale di natura razionale ( persona est rationalis naturae individua relatici ).

In tal modo la persona sarebbe una « relazione sostanziale », non una « sostanza relazionale », assunto cui seguirebbe che con la soppressione della relazione verrebbe meno la totalità della persona.

Consideriamo alcuni eventi: la morte, gravi malattie psichiche come l'autismo, l'aborto e la fecondità.

A) Per coloro per i quali la relazionalità rappresenta la totalità della persona, la morte è l'ingresso nel nulla della relazione, annientamento del rapporto sociale e della persona in quanto costituita da tale rapporto: la morte dunque come l'atto « antipolitico » per eccellenza.

L'io che è andato incontro alla morte è scomparso, si dice abitualmente.

Scomparso significa che è uscito dall'orizzonte dell'apparire, dalla temporalità e spazialità in cui noi siamo tuttora inseriti e che consente il mutuo rapportarsi.

Scomparso significa dunque che non è più possibile alcuna relazione con lui nel modo consueto.

L'io è stato sottratto alla nostra esperienza, alle dimensioni che la rendono possibile, e non è più da noi esperibile come un ente nel mondo.

Tuttavia il senso comune esita ad affermare che la soppressione della relazione esperita da noi con la morte dell'altro sia identicamente il suo annientamento.

Ciò sarebbe vero se appunto la persona fosse ricondotta e risolta nella relazionalità: allora scomparendo la possibilità stessa della relazione, la persona non sarebbe più.

Al massimo se ne conserverebbe il ricordo in una sorta di umbratile vita nella memoria degli altri.

Diversamente si intende il problema quando la persona viene collegata alla sostanzialità, la quale può continuare - pur uscita dalla relazione spazio-temporale - la sua esistenza secondo nuove modalità.

Naturalmente è qui evocato il problema della mortalità o dell'immortalità dell'io personale.

Là dove la persona è ricondotta alla sola relazione, l'esito è la totale mortalità dell'io empirico ( eterno sarebbe eventualmente l'Io trascendentale ), a meno che l'affermazione dell'immortalità sia affidata solo alla fede, magari in una sorta di rischioso credo quia absurdum.

Là dove invece la personalità è vista risiedere nella sostanzialità razionale, vi possono essere indizi e argomenti a favore di una sopravvivenza dell'io dopo la morte.

B) Nell'autismo accade una perdita di contatto con la realtà e la costruzione di una vita interna e subiettiva che viene anteposta a quella reale.

L'io è rinchiuso in se stesso, non ha comunicazione con l'altro, forse neppure affettiva.

Il soggetto autistico è come noi, fatto come noi, ma non comunica, vive in un mondo suo proprio.

Ben difficilmente possiamo però sostenere che egli, pur mancando in forma grave della relazionalità, non sia persona.

In effetti, riconoscendoli i diritti umani fondamentali, riconosciamo anche che essi non sono legati alla capacità di relazione dell'io, e che rimangono validi anche quando il soggetto fosse privo della possibilità di rapportarsi e perfino di adempiere i suoi doveri verso la società, di partecipare all'obbligazione reciproca fra i cittadini che si vincolano attraverso la società politica e le sue istituzioni.

Parlando più in generale della follia, Mario Tobino ritiene « di avere scoperto che, oltre all'intelletto, c'è nell'uomo l'anima e che nessuna malattia, neanche la più terribile, può arrivare a incenerire l'anima …

La follia è un mistero.

E una lebbra che attacca il corpo ma risparmia l'anima.

Non c'è idiota, non c'è schizofrenico in cui il male uccida del tutto i sentimenti.

A sprazzi, a barlumi, magari dopo anni e anni di silenzio e di vaneggiamenti, i matti rivelano all'improvviso la luce che hanno dentro, cercano di comunicare con gli altri, di mettersi in armonia con il creato, di farci capire che anch'essi sono figli di Qualcuno ».5

È quindi possibilissimo che il soggetto autistico abbia un intenso rapporto con se stesso, di cui nulla conosciamo, perché non ce lo comunica e più radicalmente perché un tale rapporto è ultimamente oscuro per ciascuno di noi.

L'uomo può certo conoscersi attraverso i suoi atti; può vivere « interiormente i suoi atti come azione di cui egli - come persona - è l'agente ».6

L'autoconoscenza e autocoscienza così raggiunte incontrano un limite nel fatto che il fondo del proprio io sostanziale, dell'io nel suo atto primo di esistenza che vive della vita dell'anima, non può essere raggiunto e ci rimane ultimamente sconosciuto.

Si incontra qui un punto di arresto non aggirabile: la sostanzialità dell'io personale motiva l'inconoscibilità ultima e l'inattingimento del nostro fondo più profondo, onde l'io è mistero a se stesso.

C) Nelle posizioni del femminismo radicale si richiede che il rapporto della donna col suo corpo fecondo sia affidato esclusivamente alla donna stessa, che così intende difendersi da ogni intervento di un « potere » esterno che pretenda di introdurre regolamentazioni di qualsiasi tipo in materia di fecondità femminile.

Perciò qualsiasi legge dello stato in tale materia non sarebbe compatibile con la libertà femminile: il corpo della donna è considerato una « zona franca », esterna alla dimensione sociale cui sovrintendono leggi e norme.

Ciò significa che l'altro, in questo caso l'embrione prima e poi il feto, non è di per sé un qualcuno da rispettare e proteggere, ma è o sarà un qualcuno solo se costituito tale nella relazione che lo lega al corpo materno, e non invece come sostanzialità individuale dotata di inderogabili diritti.

È tale relazione e solo essa che costituisce un grumo di cellule più o meno rilevante come embrione/feto: il « qualcuno » nasce solo nella relazione col corpo materno.

In genere in maniera inespli cita, troviamo qui uno dei maggiori esempi della riduzione della persona a relazione, cui consegue l'assunto - oppressivo e crudele - che il nuovo essere umano sia persona solo in quanto è voluto, appellato ed accolto in una relazione; nella misura dunque in cui gli si da un nome.

Un equivoco che in certo modo ricorda, ma nel mutamento dal maschile al femminile, l'antico e barbarico diritto romano delle origini, quando il pater familias aveva unojus vitae ac necis sul nuovo nato ( ma ben più che dìjus deve qui parlarsi di nudo e bruto potere: il potere più terribile che esista, quello sull'altro, il potere del pollice verso nei confronti dell'altro ).

Una volta che l'embrione, il feto e forse perfino il neonato non sono soggetti-sostanze, ma un qualcosa che passa alla condizione di « qualcuno » solo perché qualcun altro l'ha voluto e l'ha chiamato a entrare nel mondo dandogli un nome, allora è incombente il rischio che l'uomo sia prodotto quasi come un momento del ciclo capitalistico di produzione.

La posizione femminista radicale è speculare ad un motivo centrale della tragedia greca, e le due posizioni tendono ad annullarsi reciprocamente.

Nelle Eumenidi di Eschilo, la terza tragedia del ciclo di Oreste, Apollo difende il matricida Oreste con queste parole: Non è la madre che genera chi è chiamato suo figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei.

Genera l'uomo che la feconda: ella, come ospite a ospite, conserva il germoglio, se un dio non lo soffoca prima.

Ti offro la prova di questo argomento: padre senza madre è possibile.

Una testimonianza è qui vicina, presente: Atena, la figlia di Zeus, che non crebbe nel cavo ombroso di un seno ( vv. 658-666 ).

D) La relazione originaria nel mondo è la relazione padre/madre col figlio con la novità di ciascuna nascita, il miracolo della fecondità e della vita che si perpetua, che sottrae il mondo all'entropia e al naturale declino verso il tramonto: « il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane dalla sua normale, 'naturale' rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire ».7

L'uomo, la sua comparsa costituisce un nuovo inizio ( initium ) non un principio, secondo la distinzione di Agostino tra principium come inizio del mondo e initium come inizio dell'uomo: initium ut esset homo creatus est.

Col principio inizia qualcosa, coll'inizio comincia qualcuno, il quale e agente e vale dunque come iniziato-iniziatore di una vicenda inedita e libera, come libera fu la sua creazione.

L'uomo infatti non inizia per necessità ma per creazione.

Al « vivere per la morte » la Arendt sostituisce la centralità della nascita, alla separazione l'agire in comune.

Sin dall'inizio la prospettiva è relazionale.

Nell'evento del figlio incontriamo una sostanzialità che si trasforma e che in certo modo conserva la propria sostanza trans-sustanziandosi: si trans-sustanzia nell'altro, nel figlio appunto, tramite l'incontro del maschile e del femminile.

La fecondità è questa relazione col figlio che dischiude l'avvenire, e che ricarica la vita e la libertà.

Attraverso la fecondità, scrive Lévinas, la noia della ripetizione si interrompe, « l'io è altro e giovane …

La fecondità continua la storia senza produrre vecchiaia: il tempo infinito non dà una vita eterna ad un soggetto che invecchia.

È migliore attraverso la discontinuità delle generazioni, ed è scandito dalle inesauribili giovinezze del figlio ».8

Dal mistero della fecondità sorge il futuro che si distacca da me, ma che è pure parte di me stesso e dell'altro da cui il figlio è pure sorto.

Egli è mio, malgrado la discontinuità; e non-mio, malgrado la provenienza.

Il suo avvenire non mi appartiene: l'intima essenza della fecondità è che sorga ed esista una possibilità non mia, che proviene dalla mia sostanza ma che si distende in un tempo in-finito, là dove l'essere comincia sempre di nuovo.

La fecondità e il figlio mostrano l'assoluta vanità dell'essere parmenideo, sempre uguale a se stesso, rinchiuso nella medesimezza con se stesso: vuota e sterile identità senza crescita.

L'infinitezza orizzontale e temporale dell'essere e la sostanzialità degli enti si producono tramite la fecondità, che propaga la specie e che assegna all'io un incremento nell'altro.

Per ogni uomo, credente o meno, vale il lieto annuncio del Vangelo: « un bambino è nato tra noi ».

Nascendo tra noi, il bambino entra in una famiglia: in quanto essere relazionale l'uomo è un essere familiare.

Il principio-persona non può che svolgersi secondo una filosofia della vita e specificamente come una filosofia della natalità: non soltanto come j meditatio mortis, ma soprattutto come meditatio vitae.

La filosofia che riconosce il suo bel paradigma nel pensiero di Platone e nella « meditazione della morte » del filosofo ( cfr. il Simposio ) non può andar da sola, se non viene affiancata e aperta dalla filosofia della natalità, dalla « meditazione della vita » altrettanto necessaria dell'altra di cui è non poco intessuta la tradizione del filosofare.

Perché « vivere per la morte » (Heidegger) e non per la vita?

Vi sarebbe un'affinità sostanziale tra filosofia e morte, e non invece e ancor più tra filosofia e vita?

E se in Platone la filosofia come meditazione sulla morte è riscattata dal suo essere un'apertura al Bene e al Bello in sé, il nichilistico essere per la morte, per una morte non illuminata da alcuna immortalità, è un cedimento cui ci si sottomette tristemente.

Esiste una solidarietà tra politica, vita e natalità, almeno nel senso che la continuità esistenziale di un popolo è assicurata dalla nascita e non dal volgere lo sguardo verso la mortalità.

Il guardare verso la nascita apre a nuove aspettative.

L'essere non è soltanto il Neutro, ma l'essere vivente e l'essere natale, la meraviglia della fecondità.

Politica e filosofia non sono opposte come se la prima si fondasse sulla natalità e la seconda sul rivolgersi verso la morte, poiché entrambe, politica e filosofia, sono denotate dal rapporto con entrambi i fenomeni: nascita e morte.

La nascita, iniziando, fonda l'unicità d'ogni uomo e introduce all'agire politico, mentre la morte, sottraendo il soggetto alla vita con gli altri, impedisce o sottrae la politica.

La permanenza della politica è legata alla vita ed alla nascita, che le conferiscono quella speranza senza di cui non si può vivere.

Personalismo comunitario e individualismo.

Nella concezione della persona sinora sostenuta i concetti di « persona umana » e di « individuo umano » sono identici ed hanno la stessa estensione e comprensione: un individuo umano è perciò stesso persona umana.

Diverso è il discorso sulle nozioni di personalismo e di individualismo.

L'errore opposto alla riduzione della persona a relazione senza sostanzialità è l'errore dell'individualismo, che vede l'individuo come conchiuso in se stesso al punto che la relazione è per lui accidentale, estrinseca e pattizia, e la cui divisa suona all'incirca: « io non devo nulla a nessuno », sino al punto che l'altro è considerato propriamente nessuno.

L'io fa centro in se stesso come una monade senza finestre, che forse può entrare in rapporto con l'altro tramite contratto.

Nella sua forma radicale l'individualismo rappresenta un principio rischioso per la vita sociale poiché, ruotando attorno alla propensione autocentrata dell'io, considera come irrilevanti le formazioni sociali intermedie che costituiscono il tessuto vitale della società civile, aprendo così la strada alla sua estenuazione.

Nello schema di patto sociale del Leviatano entrano i singoli, non le famiglie e i gruppi.

Inoltre il paradigma del dono non è colto nella sua rilevanza per la società civile e l'integrazione sociale.

Antropologi come Marcel Mauss, Claude Lévi-Strauss e Marshall Sahlins ci ricordano che le società arcaiche erano organizzate intorno ai principi del dare, del prendere e del restituire.

La maggior parte dei teorici contemporanei ritiene che nella modernità si sia operata una separazione fra la sfera privata del dono personale e quella pubblica e impersonale dei beni economici soggetti allo scambio nel mercato.

Tuttavia autori come Marcel Mauss e Alain Caillé e il movimento antimilitaristico nelle scienze sociali ( MAUSS ) sottolineano la forza del dono in specie nelle relazioni sociali che non fanno affidamento sul commercio e mercato, né sulle relazioni statali gerarchiche e normative.

Così il principio del donare e della reciprocità rappresenta un elemento importante nel tessuto di una decente società civile.9

2. Interiorità estatica, amore, comunicazione

1) Nella triade « persona, essere, amore » si incontra un circolo in cui ogni termine rinvia agli altri, nel senso che occorre pensare l'essere della persona entro e a partire dalla verità dell'essere e dalla dialettica dell'amore; che la realizzazione più alta dell'essere è l'essere personale; che l'amore compiuto muove dalla persona e va verso le persone.

Poiché la persona è capace di amore, e l'amore ne è la manifestazione più immediata, universale e transculurale, il sostare presso le forme dell'amore può rivelare la vita propria della persona, forse più di altre sue manifestazioni quali il linguaggio, l'azione sociale, l'arte, la fabbrilità e la tecnica.

In quanto la persona sussiste in una natura intellettuale, essa ha nello spirito la sua propria radice.

Vivendo della vita dell'anima, la persona si espande in azioni e manifestazioni: quali sono quelle che più radicalmente la denotano, che costituiscono con maggior diritto i segni della persona ( signu personae )?

Tra gli atti della persona i più gelosamente propri sono il conoscere e l'amare: con il primo il soggetto personale può portare in se stesso, nel fuoco dell'identità intenzionale tra conoscente e conosciuto, la totalità dell'essere ossia l'Intero; col secondo egli esce ekstaticamente verso l'oggetto amato per riposarvi.

Atti originari che rivelano la persona, il conoscere e l'amare lo sono anche dal punto di vista della edificazione della persona, nel senso che ogni uomo deve divenire tramite essi la persona che già è ontologicamente; deve conquistare nel registro dell'agire quell'esser-persona che è già per diritto di natura.

La più alta forma di realizzazione della persona si istituisce nell'amore, perché esso va non solo o principalmente a idee o oggetti universali ma a persone singole: non si può amare eni masse, né essere persona en masse.

L'essere persona in quanto determinazione del singolo può costituire nell'amore l'altro come il proprio tutto e donarsi a lui.

Si può donare ciò che non si possiede?

L'esistere della persona nel modo del dono esige prioritariamente l'autounificazione dell'interno, l'autopossesso e l'apertura all'altro.

Sono qui in gioco qualificazioni più alte del solo richiamo alla prassi trasformatrice degli oggetti mondani, cui una corrente notevole del pensiero moderno ha voluto ricondurre l'esistenza personale, lasciando nell'ombra i suoi atti più radicali.

Definita dall'amore, l'interiorità personale è « ekstatica ».

Mediante le forme dell'amore la persona esce da se stessa verso l'alterità, perché l'amore decentra, delocalizza.

Questo accade in prima battuta tanto nel bell'amore come nell'amore egoista.

Nell'estasi di amore il soggetto « esce » verso la cosa amata, per amarla di un amore di dilezione e rimanere presso di lei nel primo caso, d'un amore rapace e finalizzato solo a se stesso che esce sì da sé per andare verso l'altro, ma con lo scopo di ritornare a se stessi, nel secondo caso.

Che l'amore produca l'estasi ( ekstasis, da existemi ) significa che fa uscire la persona da se stessa per cercare la similitudine e l'unione con l'amato.

Si dà dunque un'essenza ekstatica della persona in cui questa, a partire dalla sua esistenza quale atto d'essere radicale dell'anima, esce da se stessa per vivere e dimorare con e nell'amato.

È la dialettica d'amore ( eros e/o agape ), sia esso attratto verso il Bene e il Bello forse impersonali come nel Simposio platonico, al vertice della scala ascendente cui Socrate è incamminato da Diotima, oppure dal volto dell'Altro come nella filosofia di Lévinas.

Quale dei due movimenti è più originario: l'ascesa verso la suprema contemplazione dell'oggetto immenso ( il Bene e il Bello ), o l'appello che scaturisce dal volto dell'Altro e che accende il desiderio dell'Altro?

« Prima dell'Eros c'è stato il Volto; e l'Eros stesso è possibile solo tra volti », scrive Lévinas,10 con un asserto in cui il platonismo è ad un tempo ridimensionato e oltrepassato verso l'ultima vetta dell'esperienza d'amore, in cui eros è infine trasceso in agape.

Nella meditazione sulla persona non può mancare il riferimento essenziale al volto, a quello dell'altro: esistere è esistere dinanzi a qualcuno; esistere in maniera personale è esistere dinanzi al volto dell'altro.

Di questa esistenza massimamente personale la Bibbia ci offre esempi in abbondanza, in specie nella forma dell'esistere dinanzi a Dio nella chiamata.

Mosè è chiamato e sta dinanzi a Dio; pure Samuele è chiamato; Elia nell'Horeb vede Dio.

Diciamo che l'uomo vive in una relazione io-tu, non solo io-es, per cui la vita reale è incontro, relazione fra uomo e uomo prima che col mondo.

Il nesso io-es designa l'ambito dell'esperienza degli oggetti che restano estrinseci all'uomo.

Questi vuole una relazione vitale con persone.

Soltanto nel rapporto col tu l'uomo diventa un io, e nel tu è compreso quello assoluto: « Le linee delle relazioni, prolungate, si intersecano nell'eterno Tu, che per la propria natura non può diventare Es ».11

Completando forse Lévinas, occorre aggiungere: l'eros è universalmente possibile tra i volti se si presuppone agape.

Pur non escludendo eros, la relazione personale umana riuscita ha bisogno di agape.

Nella sempre nuova meraviglia della maternità agape presiede al rapporto tra la Madre e il Figlio.

L'elemento originario è che eros e agape non si rapportano in ugual maniera all'altro e al suo volto.

Nell'uscita ekstatica dell'interiorità verso l'esteriorità sotto la spinta di eros, la persona muove verso ciò che ha già valore, bene e bellezza e che perciò attrae: è il risplendere di un volto carico di fascino e di un oggetto desiderato che da l'avvio alla dialettica di eros e al movimento del desiderio.

Ma quando il volto dell'altro è povero, debole, addirittura sfigurato e senza nulla di desiderabile?

Qui eros è impotente e tace; si ritrae e distoglie lo sguardo, lasciando il campo ad agape.

Il movimento supremo di agape, di quella divina e di quella partecipata dell'uomo nella charitas, non è polarizzato dal risplendere di valore o bellezza già esistenti, ma li crea e li diffonde negli esseri e nelle cose.

Con perfetta misura Tommaso d'Aquino e Lutero hanno espresso la legge dell'amore agapico.

« Amor Dei est infundens et creans bonitatem in rebus »; a queste parole dell'Aquinate fa eco Lutero: « Amor Dei non invenit sed creat suum diligibile, amor hominis fit a suo diligibi li.

Et iste est amor crucis ex cruce natus, qui illuc sese transfert, non ubi invenit bonum quo fruatur, sed ubi bonum conferai malo et egeno ».12

2) Digressione su eros è agape.

L'italiano, che pur si pone come una delle lingue più ricche che esistano, a proposito del termine « amore » manifesta una povertà lessicale notevole.

Disponiamo quasi solo di questo termine per significare una grande latitudine di significati a scapito della pregnanza e precisione ( esiste anche il termine « dilezione », ma è di uso sempre più rarefatto ).

Ricorriamo ad « amore » tanto per designare l'amore di Dio quanto per dire « facciamo l'amore' nel senso più banale e corrente del termine.

Dunque è necessario procedere fin dall'inizio a una purificazione linguistica e concettuale: in questo ci vengono in aiuto i termini latini e greci, che manifestano una maggiore ricchezza.

I greci disponevano di eros e agape, i latini di charitas o dilectio e amor.

Tuttavia la cultura ellenistica impiegava assai poco agape, per cui furono gli autori del Nuovo Testamento a dover « reinventare » un termine imprimendogli un nuovo significato per dire l'assoluta novità dell'amore divino che si effonde sugli uomini, un amore che non è eros.

Il Dio dei filosofi greci è amato e desiderato da tutte le cose, ma se ne sta in sé e non ama altri che se stesso perché per il Greco amare significa desiderare, aver bisogno, dipendere, ed è perciò l'atto proprio del non-perfetto, di colui che manca di qualcosa.

La reinvenzione del termine « agape » da nessuna parte appare con tanta chiarezza come nella Prima lettera di Giovanni dove ad indicare l'amore di dilezione o agapico manifestato da Dio per l'uomo si legge secondo la traduzione della Vulgata: « Ipse prior dilexit nos » ( 1 Gv 4,10 ), non « Ipse prior amavif nos ».

Dobbiamo perciò distinguere - pena l'incomprensione del problema - tra amore nel senso immediato del termine come amore di desiderio, e amore di carità o di dilezione.

Eros, in un senso; agape, nell'altro.

Per intenderci e procedere a fissare i concetti, occorre chiarire la differenza che intercorre tra eros e agape, tra amore di desiderio e amore di carità.

Le loro dinamiche sono diverse ed entrambe legittime: non si tratta di squalificare una delle due forme di amore.

Quando noi amiamo qualcuno o qualcosa di un amore di desiderio/eros?, partiamo dall'esperienza di una privazione che è in noi: manchiamo di qualcosa ( persona e/o oggetto ) e questa carenza mette in moto la dialettica del desiderio che muove verso il possesso e la fruizione della cosa desiderata e amata, la quale prima del possesso dimora nella distanza e nella disequazione rispetto al soggetto desiderante.

Il moto di eros parte dal soggetto che esperimenta una carenza, va verso la cosa desiderata e amata per farla propria, e torna al soggetto desiderante: è un moto circolare in cui la cosa desiderata viene riportata a noi stessi.

Inoltre noi amiamo « eroticamente » qualcosa non solo nella misura in cui ne manchiamo, ma nella misura in cui questa cosa è preziosa attraente, ha valore per noi; non possiamo desiderare ciò che non vale nulla.

L'amore di eros tende a un oggetto ( cosa o persona ), che manifesta apparenza di grandezza, di valore, di bellezza.

L'agape è diversa: non è un amore di desiderio, ma di sovrabbondanza, un amore di dilezione, che parte non da una privazione che sia in noi e che liberi il movimento del desiderare, ma da una pienezza; e ha il suo vertice nell'amore divino.

L'amore divino è un amore agapico o di dilezione; non un amore di desiderio, come se Dio mancasse di qualcosa.

L'amore di dilezione è un amore gratuito di sovrabbondanza, che non si mette in moto, come l'amore di eros, perché la cosa verso cui si rivolge è di per sé bella e buona: magari si rivolge a cose che non sono né belle né buone, per versare in loro bellezza, bontà e verità.

Perciò il moto di agape, nel suo vertice divino, discende dall'alto verso il basso, come una eterna fontana che sovrabbonda, mentre il vettore dell'amore di desiderio è orizzontale o ascendente: partendo da ciò che a me manca, tende verso qualcosa che sta al mio livello o più in alto.

Un volto prezioso e nascosto di agape si svela a chi insiste nel meditare la differenza che intercorre tra l'esistere per qualcuno e l'esistere con qualcuno.

Noi esistiamo per qualcuno se ci impegniamo per lui, lo aiutiamo, difendiamo la sua causa.

Questo è necessario, ma a un livello più radicale spesso gli uomini hanno bisogno, più che di qualcuno che esista per loro, di qualcuno che esista con loro.

Possiamo infatti esistere per qualcuno senza riuscire ad entrare in reale comunicazione intima con lui.

Su queste sensibili frontiere si manifesta la duplice forma dell'amore di dilezione, che è, sì, amore di donazione e perfino di sacrificio in favore di qualcuno, ma a un livello più profondo e radicale è amore che si svela e si dona nel rapporto io-tu e nel dialogo allo scoperto, nella comunione delle due soggettività.

Anche questo secondo amore, più raro e più decisivo del primo, e di cui gli uomini hanno speciale bisogno, rintraccia la propria sorgente in Dio, il quale ama gli uomini di un amore di dilezione tanto inviando l'Unigenito come vittima di espiazione per l'uomo, quanto rivelando all'uomo qualcosa della propria vita intima e chiamandolo al dialogo.

Senza scindere l'atto di un amore indiviso, possiamo dire che nel primo caso Dio esiste per l'uomo, nell'altro che esiste con lui.

3) A che cosa si rivolge amore?

Qui l'esprit de finesse di Pascal non è stato in pari con se stesso.

Alla domanda se l'amore si indirizzi alla persona o alle sue qualità, egli risponde optando apertamente per il secondo corno.

« Che cosa è l'i'o? Un uomo che si mette alla finestra per vedere i passanti, se io passo di là posso dire che si è messo per vedermi? No, perché non pensa a me in particolare.

Ma colui che ama qualcuno per la sua bellezza, l'ama veramente?

No, perché il vaiolo che ucciderà la bellezza senza uccidere la persona, farà che egli non l'ami più.

E se mi si ama per il giudizio o la memoria, si ama il mio io?

No, perché posso perdere queste qualità senza perdere me stesso.

Dov'è dunque questo io, se non è né nel corpo né nell'anima?

E come amare il corpo o l'anima, se non per queste qualità, che non costituiscono punto ciò che fa l'io, poiché sono periture?

Si potrebbe amare la sostanza dell'anima di una persona, astrattamente, e quali che siano le qualità presenti?

Ciò è impossibile e sarebbe ingiusto.

Non si ama dunque mai la persona, ma solamente delle qualità ».13

Pascal, mentre sembra intendere che l'io è un nucleo intimo che non si risolve nelle sue qualità, nega che esso come tale possa valere come oggetto di amore.

E così certo che egli abbia ragione?

In realtà l'amore umano autentico, che è possibile chiamare il bell'amore, va soprattutto all'esistenza stessa dell'essere amato, gioendo che esista e cercando di coglierlo nel suo nucleo più interno, quello che le sue qualità ad un tempo rivelano e velano.

Poiché certe qualità oggi ci sono e domani possono venir meno, l'assunto di Pascal preso alla lettera renderebbe impossibile l'amore umano autentico e duraturo: come sarebbe possibile continuare ad amare e ad avere cura dell'altro quando questi è malato, indebolito, sfigurato, se non fosse che il nostro amore va allora più intensamente alla sostanza dell'altro e non solo o non più alle sue qualità?

Tale amore appartiene alla categoria dell'amore di amicizia, in cui si ama l'altro in quanto altro, si vuole non solo il bene dell'altro, ma bene all'altro amato per lui stesso, differentemente dall'amore di desiderio, in cui l'amato è cercato per il bene dell'amante.

Forse Pascal è stato vittima di un equivoco, in certo modo, riducendo la latitudine dell'amore umano ad eros, a amore di desiderio, e lasciando da parte l'amore di amicizia e di benevolenza che si collega ad agape.

Nella sua essenza ekstatica l'amore è tanto più forte e vero quanto più, facendo uscire da se stessi, non si arresta alle qualità che appaiono ma raggiunge il soggetto personale nella sua interiorità.

Poiché la sostanza dura nell'essere, l'amore umano riuscito, il bell'amore, si dirige verso l'interiorità sostanziale dell'altro al di là delle vicissitudini delle qualità, distendendosi nella dimensione della permanenza e della fedeltà.

Attraverso il cammino di eros e di agape diventa possibile affrontare il grande problema della conoscenza reale dell'alterità.

L'amore si apre una strada verso l'interiorità dell'altro, l'amore cerca di conoscere l'altro.

Questi è qualcosa di esterno a noi, non è la parte oscura di noi stessi; è l'altro nella sua costitutiva velatezza che si nega e si nasconde proprio nell'atto in cui si lascia in parte raggiungere.

Se solo l'amore va verso la soggettività altra, la sua strada si pone come infinitamente preziosa, perché senza di essa l'altro come tale rimarrebbe ultimamente inattinto.

Come comprendere meglio il tema qui alluso, che stabilisce una dialettica delicata su cui occorre sostare?

Fissiamo dapprima il problema.

Se si trascura la via dell'amore che ci porta nel cuore dell'alterità, è possibile conoscere mediante concetti ( di cui è intessuta la conoscenza umana e di cui non si può fare a meno nel conoscere oggettivante e universalizzante ) la soggettività in quanto tale?

La risposta si presenta negativa.

L'intelletto conosce solo oggettivando e universalizzando, mentre l'universo dell'interiorità personale è ultimamente inoggettivabile e perfettamente individuale.

La conoscenza umana avanza mediante concetti e nozioni universali, appoggiandosi su oggetti di pensiero che lasciano da parte l'individuale, mentre qui si tratta proprio di conoscere la soggettività e l'interiorità individuali, che sfuggono per definizione a ciò che conosciamo tramite concetti.

Come uscire da questa impasse, attraverso cui si tramanda il retaggio di non poter rendere vera giustizia alla persona?

Se attraverso l'intelletto conosciamo come oggetti i soggetti personali, noi non rendiamo loro giustizia, perché non adeguiamo mai l'intuizione, oscura ma reale, che ogni soggetto ha di se stesso in quanto soggetto; intuizione esistenziale che forse non possiamo concettualizzare pienamente neppure a noi stessi.14

Solo nell'amore mi è rivelata in qualche modo la soggettività dell'altro.

Il concetto oggettiva, l'amore ( di dilezione ) soggettiva, nel senso che raggiunge oscuramente ma realmente l'interiorità dell'altro.

Ma questo genere di amore è raro.

Quando esso accade, si può con ugual verità sostenere tanto il « soi-même comme un autre », quanto il « un autre comme soi-mème », per fare riferimento al noto titolo di un'opera di Ricoeur.

Riprenderemo questo filo conduttore tra poco per mostrare la perennità del fenomeno religioso in quanto questo viene incontro ad un'indistruttibile esigenza della persona: quella di essere riconosciuta e compresa nella sua singolarità; quella che alla mia soggettività precaria e ferita sia resa giustizia, e che essa sia colta in un'esperienza di misericordia.

4) Aprendosi la strada verso l'altro, l'amore incontra quell'incoercibile bisogno di riconoscimento che erompe nel soggetto e che è fondamentale per il raggiungimento della vita buona, e cerca di corrispondervi.

Conoscere in giusta luce l'uomo è dargli riconoscimento.

Appropriatamente sottolinea questo punto C. Taylor: « La tesi è che la nostra identità sia plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un'immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia …

Un riconoscimento adeguato non è soltanto una cortesia che dobbiamo ai nostri simili: è un bisogno umano vitale ».15

Ed è attraverso una prassi di riconoscimento che si crea nella vita delle comunità e in specie nella famiglia una catena generazionale in cui relazioni, senso della comunità e « legature » - per usare il termine adottato da Dahrendorf16 - sono vitali per il raggiungimento della vita buona.

Un progetto di vita buona implica che le generazioni comunichino: e questo suggerisce che vi siano bambini cui parlare e da amare, contrariamente all'evento per cui oggi i bambini - la vita nuova che fiorisce - si vedono con notevole parsimonia.

Se scompare agape, se vengono meno i volti, siamo indifesi dinanzi ad un possibile esito antifraterno dell'azione.

La fraternità non rappresenta un concetto derivato di cui si possa almeno in prima battuta fare a meno; insieme ad agape appare il più alto fattore disponibile per il miglioramento della condizione umana, la matrice di un'etica universale di liberazione, oltre l'etica procedurale autonoma cui guardano numerosi autori politici del postmoderno.

Queste prospettive sulla filosofia dell'amore fanno apparire in luce nuova la questione dell'autonomia e dell'eteronomia.

Dopo Kant è divenuto un luogo comune assegnare accezione solo negativa alla seconda, e vedere strettamente congiunte persona e autonomia.

Eppure nella relazione d'amore l'interiorità si fa ekstatica e pone il proprio centro nell'altro, nell'amato, facendosi autonomamente ( ossia liberamente ) eteronoma.

« La soggettività, in quanto responsabile, è una soggettività che è di colpo comandata: in qualche modo l'eteronomia è qui più forte dell'autonomia ».17

Il senso profondo dell'amore in quanto estatico è di far uscire la persona da se stessa, di decentrarla verso l'altro.

Nel bell'amore l'amato è elevato a centro dell'amante, di modo che la pienezza dell'autopossesso interiore coincide col libero donarsi della persona: paradossale identità di autonomia ed eteronomia, paradossale coincidentia oppositorum.

Il contrario dell'amore estatico è il narcisismo: non aprirsi agli altri, ad un « io altro » in un atto di comunione, ma vedere riflessa sempre e solo la propria immagine.

Reinvestimento sull'io in una autocontemplazione compiaciuta, il narcisismo è lo scacco dell'amore, l'impossibilità di uscire dalla solitudine.

5) La comunicazione.

Nel movimento ekstatico d'amore dell' « io » verso il « tu » le due soggettività comunicano.

Il variopinto spazio della comunicazione umana si dischiude allo sguardo, proprio a partire dalla filosofia dell'amore e della persona: sulle sue basi si può stabilire con pieno diritto una filosofia della comunicazione umana e dello scambio con l'altro.

In quanto atto più fondamentale e ricco del solo informare che è processo unidirezionale, il comunicare comporta la bidirezionalità ossia il coinvolgimento dei due poli della comunicazione; nel comunicare si trasmette qualcosa di se stessi all'altro in uno scambio personale, raggiungendo una almeno parziale fusione tra le due soggettività.

La comunicazione umana riuscita è rischiarata dall'amore agapico, sotto il cui calore l'isolamento si spezza e le persone si incontrano nel mutuo riconoscimento.

Ben al di là del momento del « si dice » e della chiacchiera, gli uomini entrano realmente in rapporto solo attraverso l'essere e le sue proprietà trascendentali: unità, verità, bontà, bellezza.

Una coerente dottrina della comunicazione non può non considerare la « comunicabilità » di quanto esiste, la cui radice sta appunto nell'essere e nei trascendentali, e che differisce fondamentalmente dalla dialettica delle autocoscienze come analizzata da Hegel nella Fenomenologia dello spirito.

L'autocoscienza qui si pone come pretesa al riconoscimento di se stessi da parte dell'altro, invece che come reciproco riconoscimento, ossia dell'altro e di se stessi con l'altro.

L'autocoscienza vincente toglie invece la dimensione dell'alterità come tale, il signore sottomette il servo e gode del suo lavoro, ma l' « io » dell'uno e dell'altro rimangono un che di estraneo e di lontano.

La relazione con se stessi e la relazione con l'altro, ossia l'autorelazione e l'eterorelazione, si separano senza rimedio, e una notte profonda sbarra l'accesso all'interiorità della persona.

Il nucleo di una filosofia della comunicazione viene dischiuso dall'inizio del Vangelo di Giovanni: « In principio era il Logos », ossia il Verbo, ossia la Parola.

Poiché la Parola parla a qualcuno, e non può che parlare indirizzandosi a qualcuno e comunicando con lui, che in principio essa fosse implica un altro asserto: « In principio era la Comunicazione » o anche « in principio era la Persona », poiché non sono note forme di comunicazione e di dialogo se non fra soggetti personali.

Nel perfetto circolo della relazione trinitaria le tre Persone instaurano una comunicazione infinta che rimane come eterno, asintotico modello per ogni comunicazione urnana.

Dio comunica entro se stesso nella vita trinitaria; Dio comunica se stesso agli uomini nella rivelazione fatta di eventi e parole.

La comunicazione è riuscita quando, andando da coscienza umana a coscienza umana, transita e riconosce il proprio baricentro nella comunicazione originaria divina.

Ogni autentico comunicare fra uomini è un processo triangolare, che non può non passare per la Trascendenza.

In ciò sono precontenuti l'umanesimo dell'altro uomo e l'attenzione al volto dell'Altro.

Con questi assunti ci si colloca su rive lontane da chi afferma che in principio era il Mondo, o l'Azione o la Tecnica, forme in cui si configura un predominio nel Neutro con la conseguenza che non vi siano nel cosmo veri soggetti personali, ne quello umano né quello divino.

Un carattere notevole della comunicazione umana non consiste nel passaggio dall' « io » al « tu » e al « noi », ma viceversa dal « noi » all' « io »; ossia dalla comunicazione data nel mondo quotidiano della vita alla comunicazione personale liberamente guadagnata.

Questo rimane un compito per ogni uomo, reso non facile dalle false forme di comunicazione e dal rischio di integrazione funzionalistica, in cui le persone valgono solo come ruoli interscambiabili.

L'osservazione ha il suo rilievo anche per la teoria della democrazia, dove si può domandare se una sua esclusiva identificazione con le regole del gioco salvaguardi la natura comunicativa del rapporto politico.

L'interesse che attualmente si dispiega nella filosofia mondiale verso le etiche comunicative potrebbe ricondurre la ricerca verso questioni prossime a quelle qui sfiorate.

Questo sarebbe possibile a patto che le etiche comunicative scendessero più in profondità di quanto accada oggi, non si mantenessero cioè per l'essenziale entro il quadro dell'egologia moderna nel tragitto che va da Cartesio a Kant ed oltre, e cercassero di riprendere contatto con la filosofia della persona, dell'interiorità e dell'amore di cui mancano in modo sorprendente.

Sviluppatesi entro il grembo della filosofia del linguaggio del '900, esse sembrano da un lato volte alla ricerca del consenso intersoggettivo nella comunità illimitata del dialogo e della comunicazione, e dall'altro più o meno consapevolmente tributarie dell'assunto che la mediazione espressiva dell'interiorità si realizzi nel linguaggio ( o solo nel linguaggio ), piuttosto che nell'amore.

Chi potrebbe negare che il linguaggio sia un grande veicolo di interpersonalità e di comunicazione?

Il fatto è che l'amore lo è di più, in modo più universale, potendosi esprimere anche senza parole e segni, e potendo raggiungere nell'uomo strati ontologici più profondi di quelli attinti dalla parola.

Chi considerasse le odierne più notevoli etiche del discorso, quali quelle di Apel e di Habermas, avvertirebbe che esse costituiscono una consapevole ripresa del programma kantiano sulla ragion pratica, nel senso di fondare una filosofia morale cognitiivista, universale, formale-procedurale -, riformato per quanto riguarda il passaggio dalla centralità dell' « io » a quella del « noi ».

Riformulando la dottrina morale kantiana sulle norme attraverso la teoria della comunicazione, le etiche del discorso lasciano da parte l'ontologia della persona, dell'interiorità, dell'amore.

Se esse hanno il merito di aver superato il postulato humeano e positivista della grande divisione tra essere e dover essere, ristabilendo la possibilità del cognitivismo morale, non hanno però esaminato la relazione tra linguaggio e essenza comunicativa della persona.

6) Conoscenza dell'altro.

Insieme all'amore, il conoscere è l'atto più qualificante della persona, perché la rivela in profondità ed in modo complementare al disvelamento provocato dall'amore, dal momento che conoscenza e amore seguono movimenti diversi, seppure entrambi volti a sormontare la solitudine dell'io nell'unione con l'alterità.

È fuori dai confini fissati a questa riflessione svolgere una metafisica della conoscenza, su cui ci siamo soffermati altrove.18

Limitiamoci ad un'annotazione.

Una filosofia idealistica della soggettività rappresentante rende difficilissima l'esplorazione dell'abisso senza fondo della soggettività, nonché l'accesso all'altro come altro.

In proposito l'idealismo paga lo scotto di un errore fatale nell'intendere la conoscenza, secondo cui rappresentarsi una cosa significa assimilarla a sé, includerla, negarne l'alterità riconducendola all'identità dell'io: riportata all'io conoscente, l'alterità viene digerita e contraffatta, e ciò rende impossibile in un idealismo conseguente, come fu quello di G. Gentile, la conoscenza dell'altro come altro.

Conoscere non è però riportare a sé e identificare all'io, ma - al contrario - divenire intenzionalmente o immaterialmente l'altro ( fieri aliud in quantum aliud ), dimorando in se stessi carichi del contenuto intelligibile dell'altro.

La dottrina realista della conoscenza incorpora il riconoscimento dell'altro, il primato dell'esteriorità, dell'alterità, della non-identità: è ad essa che occorre rivolgersi per un accesso all'altro mantenuto nella sua alterità, non ricondotto e « digerito » dall'io.

Mentre l'amore è ek-statico, la conoscenza è in-statica: l'oggetto conosciuto è conosciuto entro lo spirito, e questo non deve uscire da se stesso per assimilarsi all'ente.

È dall'interno del suo atto immanente che lo spirito conosce.

3. La coscienza psicologica e morale

Con il riferimento alla coscienza si opera un prelievo tematico di prim'ordine entro il campo della filosofia della persona, dal momento che la sua questione costituisce un luogo massimo del filosofare, cui guarda anche la scienza.

Coscienza è inoltre una delle parole-chiave che possono ambire a rappresentare la filosofia moderna sino alla contemporaneità, attraverso le varie indagini fenomenologiche, morali, gnoseologiche e metafisiche su di essa.

Esiste una traiettoria della coscienza nella modernità che, a partire da Cartesio, attraverso Kant, Fichte, Hegel, Husserl giungendo sino all'epoca presente, ne veicola significati differenti.

La coscienza cartesiana, strettamente legata al cogito e all'io come sostanza pensante ( res cogitans ), si apparenta assai più alla coscienza come conoscenza ed « essere consapevoli di » che alla coscienza morale: è una coscienza di tipo conoscitivo, riflessivo, monologico, dove l'alterità dimora lontano quando non è francamente assente.

Differentemente il tema si pone in Hegel, dove la coscienza si struttura, irenicamente o agonisticamente, come coscienza dell'altro nella ricerca del riconoscimento, il quale ne attesta la struttura relazionale.

La coscienza in Husserl riprenderà formule e modalità cartesiane, incontrando conseguentemente come suo delicato problema quello dell'intersoggetti vita, ossia dell'apertura e del riconoscimento dell'alterità.

Dubiterei che sia possibile formulare una teoria della coscienza in base alla scienza attuale o ai suoi prevedibili sviluppi, poiché o si riduce la coscienza a un quadro logico-computazionale ( ma allora è ancora coscienza? ), oppure suoi rilevanti aspetti si sottraggono alle prese della scienza, della neurofisiologia, delle teorie della mente come « software », del cervello-macchina.

Quantomeno ne fuoriescono la coscienza morale e larga parte di quella cognitiva: nella produzione del verbo mentale o concetto, la coscienza come mente cognitiva differisce pienamente dal « software » ed anche da processi di elaborazione dell'informazione; altrettanto si dica per l'intenzionalità.

Non possiamo perciò risolvere la soggettività cosciente nel dominio della scienza naturale.

Questa può certo rivolgersi anche alla soggettività e alla coscienza, mantenendosi tuttavia consapevole che molto le sfugge.

L'immagine scientifica del mondo, lungi dal coprire tutta la realtà e la soggettività cosciente, è qualcosa di ineliminabile e ad un tempo di limitato: una scienza della soggettività, se c'è, è esterna alla scienza naturale.

« Coscienza » è parola centrale nella cultura, dove incontriamo senza risparmio un lessico che in modo diretto o traslato parla di coscienza morale, psicologica, pedagogica, religiosa, civile, politica; di formazione della coscienza; di coscienza dei propri diritti e doveri, di libertà di coscienza, ecc., secondo mille cammini che partono e ritornano alla persona.

Di tale tema polivalente vogliamo qui tratteggiare qualche elemento relativo alla coscienza psicologica e morale, secondo i due significati fondamentali che emergono nell'analisi:

1) coscienza come consapevolezza; ossia coscienza psicologica nel senso dell' « esser coscienti di »;

2) coscienza come coscienza morale, come avvertenza del bene e del male.

Le lingue neolatine come l'italiano e il francese hanno a disposizione un solo sostantivo ( coscienza, conscience ) per esprimere le due maggiori funzioni proprie della coscienza.

La relativa povertà del lessico, sorprendente se commisurata all'importanza del nucleo cui ci si riferisce, può essere in parte superata accostando al sostantivo gli aggettivi pertinenti.

Il tedesco e l'inglese dispongono invece di due sostantivi: bewusstein e consciousness per il primo significato, gewissen e conscience per l'altro.

Con la bipartizione introdotta viene evocata una prima scansione del tema, cui occorre ora assegnare un contenuto maggiormente determinato.

Si vedrà allora che almeno il significato 1) di coscienza è polivalente, ospitando al suo interno altri modi e livelli della coscienza.

Procedo per larghe differenziazioni, quasi a colpi di sciabola, per disegnare un perimetro accettabilmente significativo.

A) La coscienza psicologica.

Essa vale come consapevolezza interna delle percezioni apportate dagli organi sensoriali, e quale presenza a se stesso dell'io: del pensiero a se stesso; della volontà a se stessa; della memoria a se stessa.

In altri termini, mentre la persona è rivolta agli oggetti, all'alterità nel suo senso più ampio, contemporaneamente la coscienza è conscia di sé.

Il soggetto è consapevole dei propri stati d'animo ( coscienza concomitante, che può diventare coscienza riflessa e susseguente ), proprio mentre è volto verso l'altro, è coscienza dell'altro.

Qui la coscienza vale come centro di consapevolezza del sentire, del percepire, dell'intendere e del volere.

A tale quadro si riferisce il « senso interiore » di cui parla Agostino nel De libero arbitrio, quale luogo di inerenza, concentrazione e sintesi delle modificazioni degli organi sensoriali.

A questa forma di coscienza psicologica, in unione con la memoria, si collega l'esperienza interna del tempo, come da altro lato si rapportano i diversi stati psichici della coscienza vigilante, di quella onirica, della perdita di coscienza, dell'apertura del campo di coscienza, ecc.

E si rapporta anche l'esperienza psicologica della continua molteplicità degli stati di coscienza, con la connessa difficoltà a riportare all'unità dell'io lo sparpagliamento dei flussi coscienziali in mille rivoli e direzioni, a governare la torrenziale molteplicità che ci abita.

Nel cinematografo della psiche ad un tratto qui appare un'immagine, là ci attira un suono, all'interno si libera un ricordo, multiformi maschere dell'io e dell'altro si alzano, si levano, si confondono, combattono fra loro, si quietano, riprendono vigore.

Il soggetto non avrà mai finito di battagliare con la molteplicità dei propri stati coscienziali, in un confronto che può condurre ad un'accettabile unità dinamica, sempre da riconquistare, o nelle forme patologiche verso la irammentarietà e perfino la frantumazione della coscienza, dove l'io non e più in grado di unificare apprezzabilmente.

Deve qui rimanere come un interrogativo se l'esperienza dello sparpagliamento possa venire regolata e ordinata scendendo più in profondità in se stessi.

Alla coscienza psicologica quale raccolta e concentrazione dei vissuti psichici in un proprio punto interno, per cui essa diventa un luogo di sintesi e di presenza di sé a se stessi, si lega strettamente l'autocoscienza, che è qualcosa di più della coscienza psicologica di sé, di cui si è detto poco sopra.

Autocoscienza significa che nel processo generale della consapevolezza l'attenzione si volge a se stessi, in virtù della fondamentale capacità dello spirito di poter ritornare su se stesso attraverso un atto completo di autoriflessione, e dunque che il soggetto fa di se stesso una totalità dalle infinite risonanze, un poligono di infiniti lati.

Nell'autocoscienza l'io diventa un universo a se stesso e per se stesso, scopre la dimensione del profondo e si indirizza verso l'interiorità.

L'interiorità autocosciente quale proprietà fondamentale della persona non possiede una portata esclusivamente psicologica, avente a che fare con i flussi psichici e la memoria.

Si colloca in una dimensione ontologica più profonda, costituisce una rivelazione del fatto che, poiché non tutto è in superficie secondo estensione e durata, si da la dimensione del profondo e dell'intimo; rappresenta il modo meno inadeguato con cui è possibile raggiungere qualcosa della vita profonda dello spirito.

Secondo le analisi svolte da Kierkegaard in La malattia mortale, la cosa più difficile per l'uomo sta nel percepire di essere un io, di valere come soggetto, come interiorità autocosciente, come spirito.

Da tale difficoltà scaturiscono le tre forme della disperazione: disperatamente non essere consapevole di essere un io; disperatamente non volere essere se stesso; disperatamente voler essere se stesso.

Nel continuo « si dice » mondano e nella chiacchiera che lo accompagna si conversa spesso di vite fallite, un punto su cui si concentra la tristezza di non poter più cambiare il filo conduttore di un'esistenza largamente trascorsa, e la nostalgia per qualcosa di diverso.

La conversazione mondana sa ciò di cui discorre, ossia il senso di una vita sciupata?

Non potrebbe essere vita sciupata quella dell'uomo incapace di diventare conscio di sé come interiorità autocosciente?

« Sciupata è soltanto la vita di quell'uomo che la lascia passare, ingannato dalle gioie e dalle preoccupazioni della vita, in modo che non diventò mai, in una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come io ».19

Si diventa consapevoli di essere un io in specie nelle situazioni-limite o nel « naufragio » di cui dice Jaspers, nelle quali l'uomo comprende la finitudine della propria esistenza e fa esperienza di non essere Dio.

Nello stesso tempo si esperisce come esistente nel modo della libertà ed interiorità, e comprende che l'uomo è più di tutto ciò che pensa e fa.

L'io e l'altro. Fra i temi notevoli della filosofia della persona si colloca l'interrogativo se sia più originaria la coscienza dell'io/se stessi o la coscienza dell'altro.

Sembra difficile negare che sin dalle prime fasi della vita del bambino, del nuovo nato, la coscienza operi soprattutto come coscienza dell'alterita, come apertura in certo modo incondizionata a ciò che si dà nell'esteriorità.

La coscienza è di per sé aperta all'alterità.

Il pensiero di Lévinas ha elaborato con vigore questo aspetto originario della coscienza sostenendo che l'esperienza dell'altro ( e correlata apertura della coscienza ) sia costitutiva del filosofare ancor più che le platoniche meraviglia e meditazione della morte: in quanto la coscienza è coscienza dell'Altro ( autrui ), la relativa filosofia si darà come pensiero dell'esteriorità.

La filosofia dell'essere è anch'essa in certo modo una filosofia dell'esteriorità, poiché sostiene che dapprima accade la coscienza dell'altro rispetto all'autoconoscenza dell'io: quest'ultima si sviluppa gradatamente con la maturità del soggetto.

Oltretutto nel proiettarsi verso il reale il soggetto pensa l'essere prima di percepire di pensare.

Sicché la comunicazione umana, quale scambio fra soggetti spirituali per i quali vale la regola dell'interiorità, è propriamente il riconoscersi e il relazionarsi di due interiorità nell'esteriorità.

Scarso è quindi il fondamento con cui si oppongono esteriorità ed interiorità, individualità soggettiva e alterità.

La coscienza che risponde all'appello dell'Altro è la coscienza di un io, di un soggetto dotato di interiorità; il pensiero dell'alterità è insieme una ( ri ) visitazione della soggettività e dell'interiorità.

In una concezione della coscienza come coincidenza di interiorità ed esteriorità e come originariamente etica, la donazione di senso non appartiene alla coscienza trascendentale dei moderni dove non di rado sussiste il rischio di pervenire ad una egologia chiusa, ma all'esteriorità etica del volto d'altri.

Ciò getta effetti in molte direzioni, in specie sullo schema dell'autonomia morale quale autolegislazione della ragione ( cfr. Rousseau e in specie Kant ), legato alla coscienza trascendentale, in certo modo costituente, che entra in crisi e tende a dissolversi, « metamorfosandosi » nel pulviscolo delle singole soggettività empiriche.

Il recupero dell'altro e dell'apertura del soggetto all'alterità sembra piuttosto legato alle filosofie del realismo e dell'esteriorità, nella relativizzazione dello schema egologico-monologico.

Conosciamo le difficoltà entro cui si è avvolta una parte della filosofia moderna a proposito del rapporto tra la mia e l'altrui coscienza.

Difficoltà che si imperniano intorno all'interrogativo che, se rimane inevaso, conduce al solipsismo: come si può essere certi dell'esistenza di altre coscienze, di altri io?

Tale problema che impegnò a fondo Husserl nelle Meditazioni cartesiane, porta in sé un'inerente difficoltà a rendere conto della comunicazione, poiché le filosofie legate alla monologia del cogito devono quasi dedurre quello che è invece già presente nell'esistenza.

Nelle filosofie personalistiche l'altro è dato immediatamente all'io in virtù del carattere aperto, relazionale e comunicativo della persona.

Il fatto che la certezza dell'altra coscienza sia data, non cancella la dialettica particolarmente rischiosa, soggetta a successi ed a scacchi, della comunicazione.

B) La coscienza morale.

Il possesso della coscienza morale - quella psicologica non è tipica soltanto del genere umano - è un segno decisivo dell'uomo, e forse il più evidente indizio della persona.

Per questo toccando il suo tema e quello dell'etica, ci si può attendere che ogni filosofia non possa non fissarvi lo sguardo, poiché l'esperienza morale e la coscienza morale sono universali, elementi che accompagnano necessariamente l'esser-persona.

Il principio-persona si depotenzia molto, se non è esplorato anche tramite la strada della morale; del nomos dunque e non solo del logos.

Ora l'esperienza morale, di cui si occupano i filosofi e le scienze umane, cercando di decifrarla e di comprenderne la verità e il dinamismo, è qualcosa di straordinariamente vasto che qui non presumiamo di accostare.

Intendiamo soltanto svolgere alcune intuizioni sulla coscienza morale quale chiaro testimone della persona, quale « facoltà » che sta in noi in modo innato, ci accompagna tutta la vita e rappresenta la più immediata manifestazione dell'umano.

Nella coscienza morale di ciascuno si esprime la qualità del suo individuale rapporto col bene e col male.

Bene e male sono le sentinelle costanti con cui la coscienza morale, qualsiasi sia il grado del suo sviluppo, deve fare i conti: una presenza costitutiva per la coscienza, senza la quale non sarebbe.

La voce più radicale ed originaria della coscienza, qualcosa che concerne ogni uomo in quanto uomo e che stabilisce un universale che travalica appartenenze religiose, tradizioni e filosofie, è la voce che dice in ogni persona: fai il bene perché è bene; evita il male perché è male.

Su questo piano la coscienza decide.

Essa sceglie un'azione perché la ritiene buona, e lascia andare un'altra azione perché considerata cattiva.

In tali ambiti la coscienza è arbitra, nel senso che decide in proprio.

Si riconferma che nella coscienza morale più che in quella psicologica sta la dignità della persona, capace di riconoscere il vero e il bene.

Nella coscienza morale si esprime la responsabilità verso l'altro e prima verso il Bene: lasciare che nella quiete delle passioni l'essere sia, il bene appaia e ne possiamo comprendere qualcosa.

Le scuole greche, le grandi religioni mondiali, il pensiero moderno e contemporaneo risultano coinvolti sino all'osso nel suo problema.

La coniugazione fra pensiero filosofico e pensiero biblico, lungamente esperita in Occidente e tuttora vitale, autorizza a non escludere quest'ultimo, per accertare talune forme della coscienza morale.

La coscienza e il cuore.

Nel linguaggio biblico il cuore più che lo spirito è l'organo interiore nascosto che designa la parte più profonda della personalità, la coscienza ( il termine « spirito » viene di preferenza applicato a Dio, già dai primi versetti della Genesi ).

Il cuore è il luogo dei sentimenti, affetti, amori, delle fondamentali inclinazioni morali.

Esso veicola la mah ( anima, soffio ), affinché la vita ( nephesh ) sia normale.

Esso è anche l'organo dell'intelligenza e della coscienza ( 1 Sam 24,6; 2 Sam 24,10; Pv 23,12; Qo 7,27 ).

Tipica in proposito una frase dei Vangeli: «Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore » ( Lc 2,19 ).

Ed è il cuore che detta all'uomo la sua condotta morale ( Is 57,17; Qo 11,9 ), per cui un uomo vale quanto il suo cuore.

L'io sarà là dove conducono i desideri del cuore: « là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore » ( Mt 6,21 ).

La coscienza morale del bene e del male appare come un elemento dell'intelligenza, come parte dell'anima.

Il retto atteggiamento esistenziale e morale sta nell'ascolto: occorre ascoltare la parola con cuore buono e perfetto, e custodirla ( Lc 8,15 ).

Nel Nuovo Testamento il termine « coscienza » ricorre esplicitamente nella forma greca di syneidesis ( Rm 2,15 ), tradotto dalla Volgata con conscientia: « Essi ( i pagani ) dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano e ora li difendono ».20

In altri passaggi incontriamo ulteriori riferimenti alla coscienza: « Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati … »; « Anzi, io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna, non per questo sono giustificato ». ( 2 Tm 1,3; e 1 Cor 4,4 )

In tali testi il termine « coscienza » viene ad indicare l'essere moralmente consapevole del proprio agire e delle proprie intenzioni, e dunque del bene o del male che c'è in noi; e soprattutto dell'esistenza nel soggetto di una legge morale che non viene dall'uomo, che egli non si dà, che la tradizione chiama la legge naturale, la quale vale come una guida scritta non nei codici ma nel cuore, nella coscienza.

Conosciamo la determinazione, classica nella sua brevità, che ne offre Tommaso: « La Iegge naturale altro non è che una partecipazione della legge eterna nella creatura razionale » ( Lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura ).22

Con esplicito riferimento al passo della Lettera ai Romani appena citato, il Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et Spes ( n. 16, « Dignità della coscienza morale » ) illustra la portata e la profondità della coscienza: « Nell'intimo della ( coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a are il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa questo, fuggi quest'altro …

La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria.

Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo ».

Entro tali aspetti si disvela il carattere di trascendenza della coscienza, che si manifesta come una presenza di trascendenza nella coscienza: il venire alla luce in essa di qualcosa che è oltre e sopra la coscienza, di un appello che proviene dall'altrove rispetto al mondo e che difficilmente può risultare del tutto spento anche nelle coscienze più opache.

Anche ad un esame cursorio la coscienza si presenta come organo percettivo della legge morale e delle realtà morali e, in stretto rapporto con questo aspetto, come la sede di uno degli elementi più fondamentali della vita etica: l'obbligazione morale.

La coscienza, percependo l'appello che promana dalla legge morale con la sua divisione tra bene e male, si sente inclinata a compiere il bene e a fuggire il male.

Nasce nell'uomo il sentimento dell'obbligazione morale, del dovere.

La forza persuasiva dell'obbligazione morale raggiunge il vertice quando si avverte che vi sono cose che vanno compiute costi quel che costi; e cose che non vanno compiute costi quel che costi.

Antigone, che va incontro alla morte pur di non disobbedire al dettame della coscienza e della legge non scritta, è l'eroina dell'obbligazione morale e della legge naturale.

Coscienza e libertà: la scissione del libero arbitrio.

Presupposto della coscienza morale, della responsabilità del soggetto agente e della connessa imputabilità, per cui la responsabilità di un'azione può venire attribuita ad un soggetto come a suo vero autore, è la libertà.

In un ideale lessico dalla voce « coscienza » siamo rinviati alla voce « libero arbitrio », sul cui problema filosofia e teologia hanno nel corso dei tempi apportato contributi, approfondimenti, aperture nuove di prim'ordine, tra cui quello che potremmo chiamare l'impotenza o la scissione del libero arbitrio: la mente indica alla volontà di volere un certo oggetto A o una certa azione B, ma essa non li vuole, non si adegua.

Il tema era noto ad Agostino, che nel libro VIII delle Confessioni osserva: « Lo spirito comanda allo spirito di volere, non è un altro spirito, eppure non esegue » ( VIII, 9,21 ).

E per quale motivo non esegue?

Non esegue perché, essendo necessario alla produzione dell'atto libero l'apporto del volere, questo con il peso della sua potenza di desiderio può volere difformemente dal giudizio della mente.

Ed anzi in ultima istanza può far pronunciare all'intelletto il giudizio pratico ultimo, con cui la volontà viene determinata all'azione individuale e concreta qui ed ora.

Su questo difficile problema la filosofia cristiana si è inoltrata non poco, forse in specie la scuola tomista.

Scandagliando l'abisso dell'atto libero, essa ha messo in luce il primato esistenziale ultimo della volontà e del desiderio sul giudizio della mente.

Questo giudizio, da cui è mossa la volontà nell'agire, è in ultima istanza-pronunciato dalla ragione nel modo e nella forma voluti dalla volontà.

Essa lo volge come e dove vuole: « L'indifferenza della libertà consiste nel dominio della volontà non solo sul proprio atto, al quale spinge, ma anche sul giudizio [ dell'intelletto ] dal quale è mossa » [ Indifferentia libertatis consistit in potestate dominativa voluntatis non solum super actum suum, ad quem movet, sed etiam super iudicium a quo movetur ].23

Domande sull'educazione.

Il dominio esistenziale della volontà sul giudizio della ragione, avvia a notevoli considerazioni sul cruciale problema dell'educazione della coscienza morale.

L'assunto mostra l'insufficienza di un'educazione soltanto intellettuale o dottrinale della coscienza, pur necessaria, e la centralità dell'educazione esistenziale del volere, in specie nei suoi due movimenti primi: l'amore e il desiderio.

Ora l'educazione della coscienza morale, momento cruciale dell'educazione della persona e del cittadino, è divenuto uno dei massimi problemi in Occidente per vari motivi, fra cui due emergono come essenziali: il relativismo intellettuale che trova in quello morale un esito di primo piano; l'azione dissolvente di parte delle scienze sociali moderne che hanno spesso finito per rendere vaga, evanescente, oscillante, relativa la distinzione fra bene e male, che l'umanità aveva avvistato in una lunga storia di dolori, di delitti e d'eroismo.

Per teorici e pratici delle scienze umane e sociali ( psicologia, psicoanalisi, sociologia, antropologia, economia, politica ) il male morale non è più un argomento degno di attenzione: meglio assumere che il male sia esterno alla persona e di origine sociale, in modo da semplificare il problema e congedare abilmente la responsabilità personale e Satana.

Secondo Freud i demoni non esistono più di quanto esistano gli dèi, e noi siamo manovrati non dalla coscienza morale ma dall'inconscio.

Lanciando il suo atto d'accusa contro le scienze sociali, lo scrittore israeliano Amos Oz osserva acutamente: « Per la prima volta dal Libro di Giobbe il diavolo si trovava a dover pazientare … Satana era stato congedato.

Era l'età moderna.

Ma i tempi possono cambiare di nuovo.

Satana sarà anche stato licenziato, ma non è rimasto disoccupato.

Il ventesimo secolo è stato il peggior teatro di male premeditato nella storia dell'umanità.

Le Scienze sociali non hanno saputo prevedere, affrontare, e neppure cogliere questo male moderno, altamente tecnologizzato ».24

Quanto al relativismo intellettuale e morale, che senso avrebbe educare se appunto non vi sono verità ferme e valori stabili?

La crisi deleducazione morale in Occidente, che erode come silenziosa talpa le sue radici, rischia di render vano il recupero o la rinascita del principio-persona.

In merito l'enfasi del liberalismo sulla libertà esclusiva dell'individuo e del neoilluminismo sulle capacità trasformatrici della tecnica non è fatta per tranquillizzare, poiché sposta verso terreni impropri un tema che riguarda il rapporto dell'uomo con se stesso e con l'altro.

A lungo, in specie nelle morali del dovere di derivazione kantiana, si è detto: « devi, dunque puoi ».

Oggi la potenza della tecnica capovolge il detto: « puoi, dunque devi ».

L'obbligazione morale a fare o non fare non è un « prima », un'intuizione originaria procedente da qualcosa che vale, ma un « dopo », un comando condizionato dalla volontà di potenza.

Quest'ultima, aiutata dall'estesa scepsi etica tuttora prevalente e da una formulazione debole e funzionalistica del principio-persona, tende a far passare in secondo piano la responsabilità verso l'altro uomo.

Questo è il terreno dell'etica pubblica che, incontrando il pluralismo morale, vede come unica via d'uscita la ricerca del consenso, come sostiene Engeihardt: « La sola speranza che rimane è la soluzione tramite accordo ».25

4. Paradossi della persona

Quanto più si riflette sulla persona, tanto più si moltiplicano e quasi sfuggono i punti di prospettiva, sì da far ritenere che solo un'ontologia dell'inesauribile e dell'ulteriorità sia a misura di un oggetto a tal punto complesso e polivalente.

Non si può mai presumere di averla completamente afferrata, di averla oggettivata come si obiettiva un essere naturalistico.

I suoi confini sono qui ed in ogni dove, secondo l'intuizione che vibra in un frammento di Eraclito: « I confini dell'anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie: così profondo è il suo logos » ( n. 45 ).

Accogliendo il senso dell'ulteriore e dell'inesauribile, le filosofie personalistiche inseriscono nella cultura un elemento di apertura, di oltrepassamento senza di cui la vita individuale e sociale rischierebbe di isterilirsi; ed un'istanza di risorgimento di valori repressi o anche umiliati.

Della persona desideriamo ora mettere in luce gli aspetti paradossali.

Paradosso in generale può essere inteso come qualcosa che va contro l'opinione accettata e perciò sorprende come strano e inaspettato, poiché in esso il senso comune non avverte immediatamente dove collocarsi.

I paradossi di cui parleremo sono espressi in proposizioni entrambe vere ma che apparentemente confliggono; rispecchiano situazioni in cui il sì e il no si danno la mano, nel senso che sembrano valere un elemento e il suo contrario, ma non affermano e negano contemporaneamente lo stesso dello stesso e perciò non cadono nella contraddizione.

Il carattere unico dell'essere persona si riverbera in un certo numero di paradossi.

Ne consideremo quattro: coesistenza di già e non ancora nell'esistenza della persona; incomunicabilità ontologica e comunicabilità intenzionale; manifestatività e velatezza; superiorità del singolo sul genere.

1) Il soggetto umano è persona nel registro ontologico e deve diventare persona in quello dell'azione, in una costante dialettica tra il nostro « io » temporale e puntuale e il nostro « io » essenziale: primo grande paradosso dell'esistenza personale!

Siamo già persone ontologicamente e non ancora persone sul piano delle qualità e dell'agire.

Diventare quello che si è significa svolgere le potenzialità o le virtualità che sono in noi per giungere intellettualmente, moralmente, affettivamente alla pienezza d'essere inclusa nell'idea di soggetto personale, ossia diventare atto di tutto l'essere a noi consentito e incluso nell'idea dell'esser-persona.

Si può immaginare l'ampiezza di elaborazione necessaria per dare sostanza analitica e per così dire empirica a tale paradosso, poiché morale, pedagogia, amore, progetto e molti altri fattori andrebbero presi in considerazione.

Secondo un'autorevole tradizione questo compito non può venire condotto ad esito senza l'apporto esistenziale del livello teologico.

Se nell'elemento speculativo la difficoltà è comprendere la persona, nell'elemento dell'esistenza la difficoltà è il divenirlo: divenire consapevoli di essere un io, una coscienza eterna e di esistere dinanzi a Dio.

Nell'opera di Kierkegaard il tema del rapporto assoluto dell'io con l'Assoluto è dominante: « Essere un io è la più grande concessione fatta all'uomo, ma nello stesso tempo è ciò che l'eternità pretende da lui …

L'io è la sintesi cosciente del finito e dell'infinito, che si mette in rapporto con se stessa, il cui compito è divenire se stessa, compito che non si può risolvere se non mediante un rapporto con Dio …

L'io è la sintesi dove il finito è quello che limita, l'infinito quello che allarga ».26

2) Il secondo paradosso, già veicolato in parte nell'assunto secondo cui l'individualità è incomunicabile ( individuum importai incommunicabilitatem ),27 può venir formulato dicendo che la persona è compresenza di assoluta incomunicabilità ontologica e di illimitata comunicabilità intenzionale, nel senso che è la stessa e identica persona che sussiste in sé e per sé della sussistenza dell'anima - nessun altro può esistere al suo posto, la sua esistenza è assolutamente individuale, non può essere comunicata ad altri, né esercitata vicariamente o assunta da altri - e che comunica con la conoscenza e con l'amore con l'altro e col tutto.28

In quanto incomunicabilità del proprio atto d'essere - esplicitata nella determinazione di Riccardo di san Vittore per il quale la persona è un'esistenza incomunicabile di natura intellettuale - e apertura o comunicabilità spirituale d'intelligenza e libertà, la persona è coincidenza degli opposti, ossia dell'in-stasi nel proprio esistere sostanziale e dell'ek-stasi comunionale d'amore.

La dialettica d'in-stasi ed ek-stasi stabilisce forse il carattere più complesso della vita della persona.

La persona è capacità di porsi in relazione con l'intero; non come la parte si rapporta al Tutto, ma come un tutto al Tutto.

Più si discende alla radice dell'incomunicabilità ontologica dell'esistenza personale, più si incontra una sovrabbondanza, una generosità espansiva dello spirito sul piano intenzionale della conoscenza e dell'amore.

Qui la persona è apertura, comunicazione, relazione, libertà, novità; ed il punto di saldatura tra l'incomunicabilità ontologica e la comunicabilità intenzionale è l'interiorità, microcosmo in cui si riflette il macrocosmo, vertice della dinamica espansiva e comunionale che anima la vita e il tutto.

Quando si dice che nessuno può vivere al mio posto e nel contempo si sostiene che l'anima è in certo modo tutte le cose, si è dinanzi al paradosso di cui trattiamo, per cui ad un tempo l'io è esistenza perfettamente individuata e apertura senza limiti.

Il secondo paradosso dell'esistenza personale conduce verso la seguente idea anch'essa paradossale: l'io o la persona umana che è finita, aperta verso l'infinito.

La finitezza reale-ontica si accompagna ad un'apertura illimitata sul piano intenzionale.

Nel secondo paradosso si può forse leggere la coincidenza di autorelazione e d'eterorelazione, come sottolinea Pareyson: « Il personalismo ontologico sostenuto in questo libro si riconduceva a quello che mi sembrava il centro ispiratore dell'esistenzialismo, il principio della coincidenza di relazione con sé e relazione con altro ».29

Slmilmente Berdjaev: « La coscienza di sé è necessariamente la coscienza degli altri: nella sua natura metafisica essa è sociale …

L'isolamento assoluto dell'io, la sospensione di ogni contatto con altri, con un tu, equivarrebbe alla distruzione dell'io da parte di se stesso ».30

L'io si autodistruggerebbe se non incontrasse anche il tu; morirebbe di solitudine, perché solo i soggetti, non gli oggetti, possono toglierla.

Sartre ha sostenuto che l'inferno sono gli altri; eppure si può domandare se l'inferno non sia piuttosto l'assoluta solitudine, là dove un io è un io solo per se stesso, che insiste ossessivamente sul proprio esistere individuale, recidendo ogni legame.

3) Il terzo paradosso concerne l'appartenenza della persona alla sfera della manifestatività e ad un tempo a quella della velatezza: ciò che si manifesta, anche si vela, sottraendosi alla piena oggettivazione.

Ciò è del resto incluso sia nel concetto di re-velatio che indica ad un tempo lo svelare, il manifestare ma anche il velare, il nascondere, sia nel termine latino « persona » e in quello greco « prosopon » che indicando il personaggio-maschera, alludono al fatto che esso tanto esprima quanto nasconda.

Un'intrinseca ambivalenza, un darsi e un ritrarsi, un rapporto mai pienamente determinato tra lo spirituale e il corporeo sono perciò comuni alla vita della persona, e possono venir attribuiti alla trasparenza solo parziale di uno spirito in condizione corporea.

Essa non riguarda solo la conoscenza che altri ha di me; si applica al rapporto dell'io con se stesso, perché lo spirito incorporato non è autotrasparente.

Non esiste un'autointellezione radicale dell'anima, in cui la sua essenza sia dal soggetto conosciuta allo scoperto.

Se vogliamo evitare il riferimento agli autori della filosofia dell'essere, dove il tema è canonico, si potrà prestare ascolto al suggerimento di Kant: « Io non ho affatto una conoscenza di me, così come sono, ma semplicemente nel modo in cui appaio a me stesso ».31

Si danno vari livelli del discendere in se stessi, ma in tutti si evidenzia la non-coincidenza fra coscienza e persona: nulla autorizza a porre la radice della personalità soltanto nella coscienza,32 e la coincidenza fra evento psichico ed evento di coscienza: l'area della psiche è più ampia e ricca dell'area della coscienza.

Nella psiche quale realtà dinamica si intrecciano desideri, tendenze, istinti, impulsi, immagini, che in parte entrano nella zona della consapevolezza, provenendo dal più vasto ambito dell'anima, la quale ancor meno della coscienza è esplorabile o oggettivabile.

Approfondendo se stesso, cercando di autoconoscersi e di discendere nella conoscenza di sé, l'io trova abbastanza presto un punto d'arresto.

Noi non ci rapportiamo a noi stessi come a un qualsiasi oggetto, non possiamo pienamente oggettivarci, ne essere trasparenti a noi stessi, perché incontriamo l'opacità, l'intrasparenza, la notte della coscienza ( di sé ).

Raggiungiamo qui un'idea di autocoscienza molto lontana da quella di Cartesio e di espressioni dell'idealismo, in cui lo spirito è essenzialmente fenomenologia dispiegata, cioè manifestazione e automanifestazione di una coscienza che stando in sé e per sé, riposa in se stessa certa di sé, conoscendosi allo scoperto.

Al contrario non è raro esperire che più discendiamo in noi stessi, più il buio si fa fitto, perché la soggettività, l'interiorità, la vita profonda della coscienza non sono completamente oggettivabili.

La soggettività individuale « è un abisso sostanziale che, ben lungi dal definirsi mediante la coscienza di sé, sfida la coscienza di sé, perché è per la coscienza una notte che diventa sempre più profonda man mano che essa vi si immerge ».33

Se cerchiamo di analizzare, nei limiti in cui ciò sia realmente possibile, la discesa in se stessi, è forse possibile riassumerla in tre fasi.

La prima modalità di rapportarsi a se stessi è psicologica: avvertire il fiume caotico delle molteplici percezioni che si accavallano in noi.

È il livello primordiale e in certo modo più « banale », quello in cui l'io appare come una galleria di specchi o come un palcoscenico dove si svolge un'incessante rappresentazione.

La seconda modalità discende ulteriormente nell'io dove desideri, timori, slanci, paure e fantasmi si presentano a turno, non adeguatamente ordinati e compresi, e che anzi affondano nella notte senza fondo della soggettività.

Qui l'io, mentre appare come una pinacoteca che cela dietro ogni quadro un mistero insospettato e inesauribile, tenta di porre in ordine e di analizzare, ma incontra abbastanza presto un punto di arresto in cui il processo di analisi e di ordinamento sfugge di mano.

In terzo luogo mediante un'ascosi abolitiva prolungata e ardua, mediante un atto di svuotamento da ogni altro atto, andare oltre in direzione del profondo sino a raggiungere il centro in quiete dell'io: divenire con una discesa alla sorgente un centro immobile, qualcosa di analogo a quanto è ricercato nello zen.

Divenuti un centro immobile, toccare atematicamente e fruire metaconcettualmente dell'atto primo di esistenza della nostra anima, là dove è gioia, pace e fruizione.

Nella notte della soggettività si dischiude qualcosa della bellezza dello spirito, sia pure di uno spirito come quello umano in condizione di incarnazione, di uno spirito incorporato.

A questi elementi si può aggiungere la percezione di noi stessi che si raggiunge facendo leva sulla connaturalità che sperimentiamo con la nostra esperienza di vita, una conoscenza che chiamerei di « connivenza » dell' io con se stesso.

Prendendo le mosse da consimili analisi, alcuni pensatori quali Platone, Bergson, e in specie Maritain sono stati condotti a chiedersi se non si dia una vita preconscia dell'anima, un'attività originaria di primevale freschezza che si svolge alle sue radici e che solo in parte passa nella zona della coscienza.

Esiste una vita preconscia dello spirito nella sua sorgente, nascosta all'intelligenza discorsiva, e che prende origine in quella zona profonda dell'anima in cui si radicano tutte le sue facoltà, dove esse si annodano e si uniscono prima di distinguersi in base agli oggetti verso cui si dirigono e ai corrispondenti atti.

Vita preconscia dello spirito, che si differenzia nettamente dall'altra grande zona esplorata da Freud e dalla psicanalisi: la zona dell'inconscio, degli istinti, delle pulsioni, delle tendenze, e che potremmo chiamare « inconscio freudiano » o anche « inconscio istintuale ».

Naturalmente il preconscio spirituale e l'inconscio istintuale possono comunicare e intrattenere scambi; provenendo però da diverse zone dell'io sono ben lungi dall'identificarsi.

Le attività delle facoltà dell'anima ( intelletto e volere ) sono influenzate da quanto accade nella sfera preconscia dello spirito.

L'elaborazione dei concetti, l'opera del discorso razionale, le scelte e le deliberazioni che impegnano la libertà sono preceduti da un lavorio che si svolge nella notte, nella penombra, nel chiaroscuro della vita preconscia, dove non è possibile discendere oltre un certo limite con atti deliberati e consapevoli di introspezione.34

La persona è dunque il luogo di un mistero quasi insondabile poiché, come osservato in precedenza, la conoscenza della soggettività è il grande scoglio contro cui si infrange ogni velleità conoscitivo-oggettivante del pensiero, essendo contraddittorio voler conoscere oggettivamente la soggettività come tale.

4) La persona: parte e tutto.

La persona è una totalità concreta, un tutto autonomo e indipendente, che non assume il suo valore dal fatto di esistere come parte di una totalità.

Paradossale è perciò in essa la compresenza di due aspetti: l'individuo è particella del cosmo, granello di polvere piccola iridescenza sulla cresta dell'onda che un istante è e subito dopo non è più, e ad un tempo un tutto in cui si rispecchia l'infinito.

Elemento che conduce lontano e che porta, per la prevalenza del secondo aspetto sul primo, a dover considerare la società non come un tutto formato di parti, ma come un tutto composto di tutti: « Dire che la società è un 'tutto' composto di persone, è quindi dire che la società è un 'tutto' composto di tanti 'tutti' ».35

Questa paradossalità emerge anche quando consideriamo la società.

L'individuo entra come parte nella vita sociale e nel contempo la sopravanza: vi entra come servitore e nel contempo come servito.

E servitore poiché deve contribuire al bene comune; è servito poiché il bene comune, le opere della cultura e del lavoro sono risorse per il suo perfezionamento, per divenire uomo.

Già a questo livello la persona possiede dignità di fine, non è semplicemente subordinabile al tutto sociale.

Il motivo ultimo per cui l'uomo trascende la totalità sociale e si pone come irriducibile al genere è il suo essere ordinato a Dio come fine ultimo assoluto.

È una ragione teologica che fonda ciò, espressa robustamente da Kierkegaard: il Singolo come Singolo è più alto del generale in quanto « il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto all'Assoluto ».36

Già Tommaso aveva espresso in termini non troppo diversi questo aspetto sostenendo: « Bonum gratiae unius majus est quam bonum naturae totius universi ».37

5. Personalismo teologico e teocentrico

1) Nell'elaborazione sin qui seguita, e in quella che seguirà, vertente sulle biotecnologie, la pace, la guerra, il concetto di persona ha assunto un significato principalmente antropologico, senza che ciò debba essere inteso come un restringersi del piano della persona al solo piano dell'uomo.

La nozione di persona è analogica, una delle massime concretizzazioni dell''analogia entis, il che vieta di restringere il concetto di persona all'uomo.

Persona non è soltanto l'essere umano, e questi non è il solo a dire io.

La Persona assoluta è capace di dire « Io » in modo assoluto, e di esistere in modo assoluto: Ego sum qui sum.

La rivelazione di Dio quale essere personale che accade nel libro dell'Esodo dice che Essere, Io, Persona si danno la mano.

Il supremo nome di Dio è Essere - un infinito oceano di esistenza - e tale oceano è Autocoscienza/Io e Persona.

Incontriamo quanto Carlo Arata ha opportunamente chiamato la metafisica della Prima Persona.38

Vipsum esse per se subsistens non è un neutro, ma identicamente un Ego: Ego sum qui sum; e anche: Ego sum Veritas.

Le filosofie del Neutro sono nettamente antipersonalistiche e infine nichilistiche.

Il nostro compito è ora di esplorare il campo del personalismo teologico, là dove il messaggio biblico ha gettato una inedita luce sulla persona, la sua origine e il suo destino.

2) Secondo Maria Zambrano ( Agonia dell'Europa, Marsilio 1999 ) il vero padre dell'Europa fu Agostino.

Con lui inizia la vita e la cultura europea, in specie con due grandi opere: le Confessioni e La Città di Dio.

E nelle Confessioni che viene formato ed espresso un nuovo concetto di uomo, di modo che con questa opera accade secondo l'autrice il transito dal mondo antico cosmocentrico a quello moderno ruotante intorno al soggetto o « soggettocentrico »: questo termine sembra più appropriato di « antropocentrico », una nozione che in Agostino è del tutto estranea.

Quando egli ricorre alla celebre frase: in tè ipsum redi, in inferiore nomine habitat veritas, non mirava certo a visioni antropocentriche, ma piuttosto riteneva che nell'uomo interiore, nella persona stesse l'essenziale.

Si tratta della scoperta dell'interiorità, dell'interiorità oggettiva dove si incontra se stessi e la verità.

Tale grande scoperta era stata forse adombrata da Platone in alcuni passaggi della sua antropologia come risulta dalla Repubblica ( libro IX ), ma in un modo incompiuto per la latitanza dell'idea di persona nella filosofia ellenica.

La platonica dottrina tripartita dell'anima contempla un'anima concupiscibile, un'altra irascibile ed una terza razionale: « Colui che afferma l'utilità dell'essere onesti sostiene che bisogna agire e parlare in modo che l'uomo inferiore sia reso il più forte possibile, così da riuscire a dirigere la bestia dalle molte teste » ( 589ab ).

Conseguentemente Platone coglieva che lo scopo dell'opera educativa consisteva nell'edificazione dell'uomo inferiore, e nella conoscenza adeguata di se stessi.

Agostino avrebbe aderito a tali intuizioni, aggiungendovi in maniera decisiva l'orientamento teocentrico della soggettività umana, e così dischiudendo l'era del personalismo teologico, « Per quanto mi riguarda, il mio bene è rimanere unito a Dio, perché se non permango in Lui, non permarrò nemmeno in me » ( Confessioni, VII, 11 ).

In queste espressioni prende forma l'umanesimo teocentrico, a lungo una stella direttrice dello spirito europeo.

L'avvento del cristianesimo ha introdotto come acquisto per sempre il concetto di uomo come persona, per cui non è l'uomo ad esitere per l'universo ma l'universo per l'uomo.

Non nella somiglianza col cosmo ma nell'essere immagine del Creatore sta la nobiltà dell'io.

A queste altezze il personalismo ontologico di cui si è finora discorso vale come personalismo teologico ( la persona umana come imago Dei ), e parimenti relazionale nel senso che la relazione dell'uomo con Dio è primaria: l'uomo è creato da Dio e a lui ritorna.

Tale personalismo trova la sua fonte più pura nelle dottrine della Trinità e della comunione dei santi.

C Taylor ha messo in luce con acutezza questi aspetti ricordando che l'idea di umanità è qualcosa che non può essere realizzato in ogni singolo essere umano, quanto piuttosto nella comunione tra tutti gli uomini: « La pienezza dell'umanità non deriva dalla somma di differenze, ma dallo scambio e comunione fra di esse.

Esse raggiungono la pienezza non separatamente ma insieme.

L'immagine usata da Herder è quella di un coro, o potremmo dire di un'orchestra.

La ricchezza definitiva sopraggiunge quando tutte le differenti voci o strumenti convergono …

La teologia che sta alle spalle di questa concezione trova le sue fonti in certe cruciali dottrine cristiane, ad esempio quella della Trinità e della Comunione dei Santi »39

3) Possiamo raggruppare sotto il termine di « personalismo teologico » le scuole che riconoscono come positivo e valorizzano come essenziale il nesso fra persona e trascendenza.

Il loro modello è rintracciabile nella Bibbia, storia di un'eterna vicenda di dialogo e di scontro fra Dio e uomo.

Dal nucleo reggente del cristianesimo apprendiamo che l'io esiste immediatamente dinanzi a Dio, sta in modo assoluto innanzi all'Assoluto e possiede il proprio centro in lui.

Il personalismo teologico, che si presenta come originale coniugazione di teologia e di antropologia, è un termine appropriato almeno per tre ordini di ragioni: per l'origine, in quanto il concetto di persona si è sviluppato entro fondamentali dibattiti teologici tesi alla comprensione della Trinità e dell'Incarnazione; per il fine nel senso che l'uomo è immediatamente destinato a Dio come suo fine ultimo assoluto; e per l'evento, poiche la dignità della persona umana e il suo effettuale rispetto sono un'esigenza sorta nell'area della rivelazione cristiana.

Complessivamente verificabile sul piano culturale e storiografico è la regola secondo cui le posizioni personaliste mostrano legami o almeno simpatia per l'elemento teologico, mentre quelle antipersonaliste in genere si abbinano ad un'istanza ateologica o antiteologica, coniugata col criterio « immanente » di procedere etsi deus non daretur.

I personalismi possono accampare due fattori di affinità con la teologia: individuare nella trascendenza la miglior garanzia e difesa della persona umana, e ravvisare nelle Persone divine la realizzazione ultima e perfetta dell'idea di persona.

Secondo Berdjaev, espressione del pensiero slavo-ortodosso particolarmente attento al livello religioso, « nessun cerchio dell'essere può avere la sorgente della vita unicamente in sé, salvo Dio che è la vita infinita ».40

I personalismi teologici ritengono che il principio-persona possa emergere e fiorire nello spazio spirituale del creazionismo biblico in cui Dio e uomo sono destinati ad un rapporto personale, che non potrebbe esservi se l'uomo fosse solo un'emanazione inconscia dell'essere divino.

Il personalismo teologico si oppone alle dottrine che postulano l'esistenza del divino solo in forma di immanenza, come accadeva nell'idealismo storicistico per il quale Deus manet in nobis et nos est.

Qui Dio non è inteso come persona trascendente, ma come essenza impersonale o Ragione trascendentale la quale, quasi vertice o profumo dell'esistenza stessa dell'uomo, finisce per essere l'uomo che parla di se stesso col tono più alto e attribuisce - ma provvisoriamente e per artificio - a Dio quello che pensa di se stesso.

Può un dio esclusivamente immanente in noi essere altro che una proiezione dello spirito umano?

Piuttosto con quel concetto viene rappresentato un altro nome dell'Uomo stesso.

Così si conferma ancora una volta il carattere di sogno e di irrealtà del razionalismo e dell'immanentismo: essi si muovono nello spazio dell'onirico.

In virtù delle controversie trinitarie e cristologiche del III e IV secolo che diedero l'avvio alla metafisica della persona, si può affermare l'anteriorità del personalismo teologico su quello umanistico-metafisico.

Nella modernità il personalismo teologico si è espresso come "personalismo teocentrico" o anche "umanesimo teocentrico".

Se quest'ultimo termine ricorre frequentemente in Maritain ( cfr. in specie Umanesimo integrale del 1936, largamente imperniato su tale nozione ), l'altro è spesso evocato da Pareyson in Esistenza e Persona col riferimento al carattere teocentrico della persona, concepita « come ordinata a nient'altro che a Dio » ( p. 186 ).

In base all'assunto che l'uomo « più che essere in rapporto con Dio, o avere rapporto con Dio, è rapporto con Dio » ( p. 193 ), Pareyson trae anche il carattere essenzialmente teocentrico della società.

Si potrebbe pure con pieno diritto ricordare la posizione di K. Rahner che fa dell'uomo un uditore della Parola: « L'uomo è l'ente che nella sua storia deve tendere l'orecchio ad un'eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana ».41

4) Kierkegaard ha scritto che « "il singolo" è la categoria cristiana decisiva ed essa diventerà decisiva anche per il futuro del cristianesimo ».42

Se numerosi sono i fattori in base a cui una filosofia può denominarsi cristiana, essa è cristiana par excellence proprio sulla questione della persona, quando fa propria e integra nella sua riflessione la rivelazione biblica sulla natura, la condizione storica e il destino dell'uomo.

Anche a partire da questi argomenti diventa imprescindibile la scelta tra cristianesimo e anti-cristianesimo, secondo un ammonimento elevato da Pareyson: « Il cristianesimo, oggi, non è cosa davanti a cui si possa restare indifferenti.

Bisogna scegliere o prò o contro.

Non c'è via di mezzo: ogni posivione intermedia è stata spazzata via dalla crisi della cultura moderna ».43

Di fronte all'esito della cultura moderna intesa come laicizzazione del cristianesimo Pareyson tiene aperta la possibilità di un suo recupero o di un suo ritrovamento.

Non un nuovo cristianesimo, ma un nuovo incontro col cristianesimo di sempre, col cristianesimo eterno.44

5) Nuclei del personalismo teologico e teocentrico.

Per introdurci nel tema, sintetizziamo le fasi fondamentali della relazione tra uomo e Dio come ci provengono dalla Rivelazione biblica:

1) il Paradiso terrestre: Dio e il mondo, o meglio: Dio nel mondo, dunque la Presenza.

Dio come Trascendenza immanente e presente;

2) la Caduta: l'uomo si ritira da Dio, Dio si 'ritira' dal mondo.

Inizio delle religioni storiche e della stessa storia umana.

Distanza, Trascendenza lontana;

3) l'Incarnazione: Dio nuovamente nel mondo, con l'uomo e nell'uomo.

Prosecuzione della storia, nuova Presenzialità trascendente-immanente;

4) il secondo Avvento, la Parusia: fine della storia e del mondo come lo conosciamo, e inedito inizio con cieli nuovi e terra nuova.

Alla luce di tali tappe essenziali riassumiamo in tre nuclei il personalismo teologico e teocentrico:

a) et incarnatus est, ossia la discesa del divino nell'umano;

b) l'ordinazione diretta dell'uomo a Dio;

c) il tema dell'imago Dei e dell'analogia.

a) Al centro dell'evento cristiano sta l'Incarnazione del Verbo.

Questa novità quale la storia mai conobbe né mai conoscerà di nuovo, si riverbera in tutto il Libro e forse in specie in due espressioni: « Benedetto il Signore Dio d'Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo » ( Lc 1,67s ); « Et Verbum caro factum est » ( Gv 1,14 ).

Sovviene qui una grande espressione di Pascal: « Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo; non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo.

Senza Gesù Cristo, non sappiamo che cosa sia la nostra vita, la nostra morte.

Dio, noi stessi ».45

L'evento dell'Incarnazione dipende solo dalla libera iniziativa divina e non rientra in alcuna connessione necessaria fra cause ed effetti.

Libertà dunque, non necessità.

Tale evento unico è un tempo puntuale e con portata universale: Vincamatus est costituisce un universale concreto, l'accadimento fondamentale della storia universale come di ogni singola vita.

Una speranza eterna, una redenzione eterna e una beatitudine eterna vengono perciò fondate su un fatto storico puntuale, contro il dettato razionalistico di Lessing.

I Padri greci formularono il circuito dell'intero, il senso terminale della storia, dicendo che Dio si è fatto uomo affinché l'uomo diventasse Dio.

Tommaso d'Aquino l'ha espresso in un testo di pari portata: « Nel mistero dell'Incarnazione è più decisiva la discesa della pienezza divina nella natura umana che l'ascesa dell'uomo verso Dio ».46

Ora, poiché Dio è Persona assoluta, e dunque Soggettività e Interiorità, la persona umana che come immagine di Dio partecipa più altamente del divino, può entrare in un dialogo da solo a solo con Dio, nelle vette della contemplazione d'amore.

È ultimamente per questi aspetti ( ma senza dimenticare la dignità della persona raggiunta per via ontologica ) che la persona umana è dotata di un valore unico e merita rispetto.

b) Nel personalismo teologico si elabora la risposta alla domanda su quale sia il fine ultimo assoluto della persona umana.

Ci appoggeremo su due frasi: una proviene dalla Scrittura, l'altra da un filosofo cristiano.

L'apostolo Pietro scrive che noi siamo partecipi della natura divina ( 2 Pt 1,4 ) e Maritain: « La persona umana è ordinata direttamente a Dio come al suo fine ultimo assoluto, e questa ordinazione diretta a Dio trascende ogni bene comune creato, bene comune della società politica e bene comune intrinseco dell'universo ».47

Queste posizioni e quelle già citate di Kierkegaard e Pareyson sono vicinissime: esse fanno dipendere il valore in certo modo assoluto della persona dal suo rapporto con Dio, e perciò si collocano di primo acchito nell'ordine soprannaturale e rivelato.

Avanzando l'inaudita e quasi inconcepibile verità per cui l'uomo è chiamato per libero dono dall'alto alla beatitudine eterna consistente nella conoscenza e nell'amore di Dio, la filosofia cristiana mostra la sua novità in paragone a tutte le sapienze mondane, d'ora innanzi scoronate.

Dall'aldilà del mondo si proietta una luce sul mondo che, facendolo apparire deformato e manchevole, lo apre all'evento messianico del secondo Avvento e al compimento di tutte le cose.

Intorno a tale affermazione si organizza la riflessione credente sulla persona in quanto esce da Dio ed a lui ritorna: quell'uscita da Dio e ritorno a Dio ( exitus a Deo et reditus ad Deum ), che è il circolo assoluto dell'essere e della vita.

Nell'orizzonte teologico il cammino della persona è di assimilarsi a Dio e di ritornare alla sorgente.

Qui il cominciamento non si può fare dalla speculazione filosofica ma dalla scelta della libertà.

Il cristianesimo significa: Dio è persona; Dio è entrato nel tempo affinché l'uomo entrasse nell'eterno; il Logos incarnato è il ponte fra finito e infinito, mediatore che conduce l'infinito nel finito e viceversa.

Si tratta di un annuncio assolutamente inedito, sconosciuto alle epoche e alle sapienze anteriori, compresa la sapienza greca.

Ce ne è abbastanza per disilludere autori contemporanei secondo i quali il cristianesimo non insegna nulla d'intellettualmente rispettabile che non sia già stato scoperto a suo tempo dai Greci.

Mentre la metafisica studia l'esistenza ma non la comunica, il cristianesimo è prooriamente una comunicazione di esistenza.

c) La concezione della persona umana come immagine di Dio può venire approfondita entro i quadri della metafisica della creazione, della partecipazione e dell'analogia dell'essere, che consentono di esplorare qualcosa dell'abisso interposto tra finito e infinito, tra principiato e principio.

Secondo la dottrina della partecipazione una perfezione che esiste in maniera infinita nel principio può venire comunicata in maniera finita nei principiati; e reciprocamente una perfezione esistente in questi ( a titolo di perfezione pura ) rinvia ad un abisso di perfezione nel creatore.

Per intendere il nesso fra finito e infinito e l'uomo come imago Dei, ci si può appoggiare alla dialettica « immanenza-trascendenza » ossia alla relazione « in/al di sopra di »; e forse ancor più alla dialettica « somigliante/dissomigliante », cioè all'analogia.

Ad essa alluse il IV Concilio Laterano, asserendo: « Tra il creatore e la creatura non si può affermare una somiglianza tanto grande che la dissomiglianza che si trova tra essi non sia sempre ancor maggiore ( Denz., n. 432 ).

Dunque l'analogia tra creatore e creatura, sempre imperfetta e allusiva, va pensata secondo il tipo « somigliante/dissomigliante », e non col modulo « identità/differenza », la cui dialettica giace al di fuori dell'analogia dell'essere: il che equivale a dire che la dialettica « identità/differenza » non è analogica, e risulta inidonea a pensare il nesso tra finito e infinito, e la persona umana come immagine di Dio e analogia dell'Infinito.

Quando Agostino cercò di comprendere l'uomo come immagine di Dio, mosse alla ricerca di analogie e corrispondenze trinitarie nello spirito umano, poiché un Dio-Trinità non poteva non aver lasciato orme trinitarie nella sua immagine: « Non del solo Padre, o del solo Figlio, o del solo Spirito Santo, ma ad immagine della stessa Trinità l'uomo fu fatto » ( « Non ad solius Patris, aut solius Filii, aut solius Spiritus Sancti, sed ad ipsius Trinitatis imaginem factus est homo », De Gen. ad litt. op. imp., 61 ).

Una tale immagine è impressa nell'uomo interiore, nell'anima intellettiva, non nel corpo: « L'uomo fu creato ad immagine di Dio non secondo la forma del corpo, ma secondo la sua anima razionale » ( « non secundum formam corpons homo factus est ad imaginem Dei, sed secundum rationalem mentem », De Trinitate 12,7,12 ).

L'immagine della Trinità sta nell'uomo interiore, che non si volge alle cose temporali per averne la scienza, ma che cerca l'eterna verità e la sapienza.

Ora nell'uomo interiore esiste una prima immagine della Trinità: mens, notitia, amar, di cui si tratta nel libro IX del De Trinitate; ed una trinità più evidente ( evidentior trinitas ) formata da memoria, intelligentia, voluntas.

Una tale struttura trinitaria è insita nello spirito, che conosce, ama, ricorda.

Sa di conoscere, di amare e di ricordare.

Ama di conoscere, d'amare, di ricordare.

Ricorda di conoscere, d'amare, di ricordare.

L'unità dell'anima e la trinità delle sue operazioni sono un riflesso dell'unità di Dio e della Trinità delle Persone.

In virtù dell'immagine trinitaria impressa in lei, la persona umana è un testimone barcollante di qualcuno che sta oltre il mondo.48

La somiglianza con Dio non si limita al carattere spirituale presente nell'uomo, ma include la capacità della persona umana di entrare in relazione con l'Assoluto e di partecipare alla communio personarum della Trinità.

6) Perennità del fenomeno religioso.

Le verità teologiche sulla persona possono svolgere un compito essenziale per riconciliare nell'esistenza i liberi scopi umani, dotati di autonomia e determinatezza, con la coscienza religiosa, affinché i primi nella loro molteplice varietà mondana siano fecondati dal divino e ad esso ricondotti.

Uno dei massimi compiti del personalismo nella tarda modernità sta nel raggiungere un nuovo equilibrio tra conoscenza di Dio e conoscenza mondana, affinché la crescente estensione delle attività terrestri e dei fini mondani, in cui consiste lo spirito dell'illuminismo, non renda irrilevante la conoscenza religiosa.

L'elemento teologico risulta essenziale non solo per l'integra custodia del concetto di persona, tanto più necessaria in un'epoca in cui i totalitarismi politici e l'impiego ideologico della scienza hanno costituito e costituiscono una permanente minaccia per l'uomo ma più radicalmente per la custodia del mondano.

Sostenere questo assunto rinverga con l'idea che in una forma o nell'altra il soggetto religioso non verrà mai meno; e che nessuna cultura o filosofia potrà mai sostituirlo.

Di questa impegnativa tesi si possono avanzare due giustificazioni l'una discendente, l'altra ascendente; l'una pensata in termini di evento trascendente; l'altra di struttura trascendentale.

La rivelazione cristiana si sviluppa tra la creazione e l'incarnazione, ossia tra due eventi che dipendono dalla libera iniziativa di Dio, e che sono indeducibili da qualsiasi struttura: il ricondurre l'evento a struttura, lo storico all'astratto costituisce la tentazione perenne del razionalismo, che come tale si mostra inadeguato a cogliere lo spessore della storicità.

Se invece consideriamo l'uomo dal lato della sua struttura essenziale, del suo apriori antropologico, scopriamo in lui il desiderio incoercibile e indistruttibile di essere riconosciuto da un'altra soggettività: che vi sia qualcuno che possa rivolgersi alla mia soggettività precaria e riconoscerla, che vi sia qualcuno che avvicinando la mia soggettività fragile e ondivaga, le renda giustizia.

Questo è quanto offre la religione nella sua più pura natura.

L'essenza della religione, per cui essa sta costitutivamente al di là della scienza e della filosofia, consiste in un rapporto assoluto con l'Assoluto, in un dialogo tra persona e Persona, con tutti gli smarrimenti, le delizie, le fughe e le riprese di un colloquio fra due soggettività.

E cosa alta vivere secondo l'etica e la ragione; ma è cosa più alta esistere dinanzi a Dio.

Sperimentata da Mosè e dai profeti, tale è l'esistenza assoluta che sta al di sopra dell'esistenza autentica, di cui ci parla Heidegger.

L'esperienza religiosa non potrà venir meno, perché l'uomo avverte che in essa non è oggettivato, ma compreso nella sua soggettività più profonda, incontrato in una esperienza di misericordia e dunque riconosciuto.

Consideriamo infatti.

La filosofia e la scienza oggettivano anche il soggetto, perché lo conoscono solo in quanto lo pongono come oggetto, attraverso l'astrazione, l'universalizzazione, il concetto.

Questi eventi non dipendendo dalla buona o cattiva volontà dei singoli, bensì dalla struttura della condizione e conoscenza umane, non sono volontari, ma insuperabili e inerenti.

Se attraverso l'intelletto conosciamo come oggetto l'universo del soggetto personale, non gli rendiamo giustizia, non adeguiamo la sua verità, ne l'intuizione oscura ma reale che ogni soggetto ha di se stesso in quanto soggetto.

Il concetto universalizza e oggettiva, l'amore di dilezione individualizza e soggettiva: solo nell'esperienza di un tale amore mi è in qualche modo rivelata la soggettività dell'altro, al di fuori di ogni fenomenologia dello sguardo estraneo, analizzata da Sartre.

La più fondamentale esigenza umana è forse quella di essere riconosciuti.

Può darsi che con molta fatica l'uomo possa rinunciare o moderare la spinta verso la felicità; non può però spogliarsi del bisogno primordiale di essere compreso, ossia che esista qualcuno che gli renda giustizia.

L'esperienza che non vi sia qualcuno, né uomo, né altro, che possa rendere giustizia alla mia soggettività singolare, precaria e ferita, riconoscendola e comprendendola, è per l'uomo l'ingresso nella disperazione e una specie di anticipo dell'inferno.

Il rapporto religioso autentico possiede una peculiarità che non ha la maggior parte degli scambi umani: in esso ha luogo un'esperienza di dialogo e di misericordia, in cui il mio io, la mia soggettività più nascosta non è obiettivata e perciò universalizzata, ma compresa nella sua singolarità.

Conoscendo la mia singolarità debole e fluttuante allo scoperto, fin nelle sue più intime pieghe con le sue nobiltà e viltà.

Dio mi conosce più di quanto io mi conosca.

Egli mi rende giustizia, almeno nel senso che di fronte a Lui la mia soggettività non è resa astratta, ma colta nella sua esistenza propria.

Egli mi comprende, così che il mio io può uscire dalla solitudine e dal rapporto inautentico.

Può darsi che Wittgenstein avesse presente anche questo aspetto quando scriveva: Noi sentiamo che, persino nell'ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati ».49

Il desiderio di riconoscimento di cui si è detto, radicato in una struttura antropologica invariante, e in certo modo rappresenta dal lato dell'uomo la possibilità trascendentale della permanenza della religione.

E possibile che la ripresa del personalismo teologico attribuisca nuova vitalità all'elemento religioso, capace di rimodulare la versione oggi prevalente di filosofia pubblica che in mille rivoli si spande nella piazza pubblica e che si nutre di fattori che prendono il nome di privatizzazione della religione, priorità del giusto sul bene, liberalismo individualistico, spazio pubblico secolarizzato, priorità dell'identità sul riconoscimento, primato della sola libertà di scelta.

L'immagine dell'uomo del personalismo teologico può diventare principio di una diversa prassi, contro l'idea che alla fede cristiana sia dischiuso solo lo spazio del privato.

La Chiesa presbiteriana americana dichiarò: « It is a limitation and a denial of faith not to seek its expression in both a personal and a public manner, in such ways as will not influence but transform thè social order.

Faith demands engagement in thè secular order and involvement in thè politicai realm ».50

6. Il rapporto dell'umanesimo secolare con la condizione umana

Un ultimo punto concerne la parziale impotenza di un umanesimo ateo-logico o compiutamente secolare nel conoscere la reale situazione esistenziale dell'uomo: un umanesimo pienamente laicizzato ignora la grandezza dell'uomo e parimenti la sua miseria.

Un umanesimo teistico conosce meglio la condizione umana se evita di considerare solo il potenziale di bontà e di grandezza della persona oppure solo il suo potenziale di abiezione.

Una conoscenza non può andare disgiunta dall'altra, se vogliamo evitare tanto l'enfasi dell'orgoglio, quanto il suo capovolgimento nella delusione e nel duro trattamento inflitto ad un materiale umano ingrato e refrattario alle nostre pretese.

Il passaggio dalla filantropia alla misantropia è breve.

Messa da parte agape, il più grande rischio di ogni umanesimo positivo è di nutrire in partenza un senso alto e trionfante dell'umano e poi, giunti dinanzi agli uomini in carne ed ossa, pervenire dalla delusione, al disprezzo e alla coercizione per obbligare la pesante pasta umana a ricevere nell'illibertà la forma che le si vuole imprimere.

Un umanesimo pienamente secolarizzato e privo di agape può produrre orrori più crudeli di quelli che la critica illuministica ha imputato alle società di cristianità del passato.

La modernità ha inteso che il compito della politica fosse di alleviare la sofferenza nel mondo e creare prosperità, dando avvio ad azioni di solidarietà e aiuto al debole che rappresentano un nucleo centrale nelle società democratiche.

L'umanesimo secolare nutre una giusta indignazione contro l'ingiustizia e l'oppressione e chiede imperiosamente di sanarle.

Esso accoglie dall'eredità cristiana l'appello alla benevolenza, alla solidarietà, al rispetto verso l'altro che promanano dalle intuizioni evangeliche e che fanno spesso parte del discorso pubblico 'laico' e dell'etica pubblica: di ciò siano rese grazie.

Ma tale umanesimo non si rende conto di porre con le richieste del suo idealismo laicizzato un aggravio morale non sopportabile - i costi pesanti dell'attenzione all'alterità - su soggetti che non sanno come portarlo.

L'etica della dignità umana e della benevolenza colloca sulle persone reali pesi morali, che difficilmente possono essere onorati senza l'apertura alla Trascendenza e il ricorso all'agape.

Ciò produce la conseguenza che alle richieste di concreta solidarietà i soggetti rispondano spesso volgendo le spalle: come onorare quelle pur giuste esigenze, se non si partecipa ad una fonte adeguata di vita in cui esse possano trovare sostentamento e il fardello etico possa venire considerato non schiacciante?

Riemerge l'antico e sempre inquietante interrogativo se, tolta ogni fede religiosa motivante, sia possibile obbligare moralmente in vista di valori e ottenere dagli uomini in carne ed ossa un'azione conforme.

Se manca l'agape, che l'umanesimo secolare non è in grado di rendere disponibile, il cammino può sfociare in un esito antifraterno e in un declino della solidarietà per un ritorno al privato.

Una filosofia pubblica incorre in un limite grave quando non si interroga sulla realizzabilità dell'azione proposta in premessa; quando si riduce ad un'essenza incapace di passare all'esistenza per il buio antropologico in cui dimora.

Questa fondamentale difficoltà - spesso aggirata mediante l'escamotage di metterla da parte - circola in quei tentativi di trarre dal cristianesimo, dapprima debitamente laicizzato ossia privato del suo contenuto trascendente, uno stimolo umanistico per la solidarietà interpersonale ed un'etica del finito amica dell'uomo.

S. Natoli che non si definisce cristiano, si è posto il problema.

Egli riconosce che il nucleo centrale del cristianesimo è la carità/agape, aggiungendo però che il cristianesimo difficilmente è riconoscibile senza l'incarnazione, la resurrezione dei morti, la vita eterna e la visione di Dio, ossia senza il contenuto del Credo.

A questo egli si sottrae nel senso che cerca di reinterpretarlo all'interno di una visione umanistica senza trascendenza.

Natoli è persuaso che « la secolarizzazione ha vinto e che il cristianesimo può sopravvivere alla fine della cristianità, se non unicamente certo plausibilmente, in una sua versione profana »: un cristianesimo senza fede, senza trascendenza, senza vita eterna, ma capace di non abbandonare la terra e di non smentire l'agape, la fraternità, il dono.

Un cristianesimo di cui si cerca di racogilere il meglio del suo passato per il nostro futuro.

Una posizione sollecitante, che culmina nella frase: « E Dio s'incarna davvero ogni qualvolta gli uomini diventano capaci di dono ».

Ma possono gli uomini donare e donarsi nell'agape, se prima Dio non si è incarnato?

Una prassi agapica senza Dio riposa su impossibili illusioni.

È a partire dalla fede in un Dio crocifisso e risorto, è dalla corrente di agape che da qui si diparte, che l'uomo può amare l'uomo.51

L'immanentismo sogna molto.

La negazione della trascendenza non solo pone sulle spalle dei soggetti concreti un fardello troppo gravoso, ma pone a rischio i guadagni e le idealità positive dell'umanesimo secolare, la sua pietas verso il finito, l'intento di ridurre la sofferenza nel mondo e di accrescere la vita.

Un umanesimo separato corre appunto il doppio rischio di non saper raggiungere i valori umanistici che ama, e talvolta di regredire verso il disprezzo per l'uomo.

Se l'intento è di preservare la vita e di non cedere ai criteri dell'utilità e dell'efficacia tecnica, vi è bisogno di un umanesimo eroico che vada oltre quel rimpicciolimento di orizzonti e quell' « io minimo » che viceversa ricorrono di frequente nelle nostre latitudini occidentali.52

Essi possono mettere in pericolo importanti conquiste della modernità quali i diritti umani e la giustizia.

Pur lasciando in sospeso se effettivamente ci attendono secoli bui dove un nuovo San Benedetto sia da attendere, come ritiene McIntyre in Dopo la virtù, possiamo legittimamente auspicare molti nuovi San Benedetto nell'epoca della scienza e della tecnica, affinché i dottori dell'efficacia non prevalgano sui monaci dell'amicizia e dell'agape.

Indice

1 Berdjaev, C'mq méditations sur l'existence, cit., p. 97.
2

In questo ambito emerge come fondamentale la polarità dei sessi e i modi della relazione maschile-femminile che è al cuore dell'esistenza: l'essere umano è solo nell'unità e nell'integrazione del maschile e del femminile, egli si realizza appieno solo grazie a questa dualità in cui la differenza sessuale modula un'identità essenziale, nella quale entrambi - uomo e donna - sono chiamati ad esistere reciprocamente l'uno per l'altra, a mettere in atto azioni dirette alla crescita dell'altro/a, al suo preservamento e sviluppo. La differenza sessuale è giocata dal pensiero femminile in vari modi: secondo l'opzione delle rivendicazioni e della parità con l'uomo; scegliendo di stare tra donne, regolandosi di preferenza sul giudizio delle donne ed accettandone l'autorità; cercando di sormontare la dicotomia maschile-femminile in un modo che, salvaguardando la loro differenza, si apra alla cooperazione e alla relazione. Dal sito della comunità filosofica femminile Diotima (www.diotimafilosofe.it) traggo le seguenti informazioni. "Non siamo un gruppo, ma singole donne con i segni singolari e comuni di una storia di relazioni, a cominciare da quella con nostra madre, per continuare con quella che ci lega fra noi e si chiama "diotima": nome comune di relazione fra donne impegnate nella ricerca filosofica. La comunità filosofica femminile Diotima nasce presso l'Università di Verona nel 1983, per iniziativa di donne interne ed esterne all'università, con l'intento di "essere donne e pensare filosoficamente". Riferimenti fondamentali per il lavoro di Diotima erano la riflessione filosofica di Luce Irigaray e il dibattito teorico e politico del movimento delle donne, in particolare il femminismo della differenza, in un rapporto particolarmente stretto con quanto elaborato dalla Libreria delle donne di Milano. La scommessa natale di Diotima è stata quella di fare filosofìa in fedeltà a se stesse e al proprio essere donne, A» ciò l'intento di pensare filosoficamente la differenza sessuale, rompendo l'universalità e neutralità con la quale il discorso filosofico si è presentato, pur essendo storicamente e simbolicamente l'espressione del soggetto maschile".

3 "Ratio partis contrariatur rationi personae", Tommaso d'Aquino, Commentarium in librimi III Sententiarum, d. 5, q. 3, a. 2.
4 R. Spaemann, Persone. Sulla differenza fra 'qualcosa' e 'qualcuno', a cura di L. Allodi, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 5.
5 "Quando nel deserto della Libia…", in Inchiesta su Dio, interviste a cura di G. Greco, Dino Editore, Roma 1992, p. 201 e s.
6 K. Wojtyla, Persona e atto, in Id. Metafisica della persona. Tutte le opere filosofìche e saggi integrativi, Bompiani, Milano 2002, p. 905.
7 H. Arendt, Vita adiva. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988, p. 182.
8 Totalità e infinito, Jaca Book Milano, 1996, p. 276.
9 II MAUSS (Movimento Antiutilitarista nelle Scienze Sociali) nasce a Parigi nel 1981. Ne fanno parte numerosi intellettuali di spicco francesi, ma non solo, tra cui Alain Caillé, Geraid Berthoud, Serge Latouche, Jacques Godbout, Jean-Luc Boilleau. Caillé in particolare è l'animatore del movimento, il direttore della rivista «La revue de MAUSS» e autore del manifesto dell'antiutilitarismo "Critica della ragione utilitaria". Il nome del movimento rappresenta anche un chiaro riferimento all'antropologo Marcel Mauss, il cui saggio sul dono come "fenomeno sociale totale" costituisce un punto di riferimento cruciale. Per la divulgazione del pensiero antiutilitarista in Italia un ruolo importante è stato giocato da Alfredo Salsano che ha fatto pubblicare per Bollati Boringhieri vari autori e testi antiutilitaristi. Recentemente è stata fondata anche un'associazione italiana, autonoma ma in accordo con il MAUSS internazionale, denominata "Associazione anti-utilitarista di critica sociale".
10 E. Lévinas, Filosofia, giustizia e amore, p. 12.
11 M. Buber, II principio dialogico, Milano 1958, p. 67.
12 S. Th., I, q. 20, a. 2; Luterò, WA 1, p. 365: le sue parole sono tratte dalla Disputa di Heidelberg (1518), tesi 28.
13 Pensées, ed. Brunschvicg, n. 323. In un breve saggio attribuito a Pascal e intitolato Discours sur les passions de l'amour, si legge: "Malamente si è tolto il nome di ragione all'amore, e gli si sono opposti senza un buon fondamento, poiché l'amore e a ragione non sono che una medesima cosa… Non escludiamo la ragione dall'amore, poiché essa ne è inseparabile", in Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pleiade, Gallimard, Paris 1980, p. 545.
14 Su questi aspetti cfr. le pagine profonde di J. Maritain, Breve trattato dell'esigenza e dell'esistente, Morcelliana, Brescia 1965, p. 58 e s.; e le nostre riflessioni in filosofia e Rivelazione, Città nuova. Roma 20002, pp. 94-98.
15 C.' Tavlor. in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 1998, p. 9 e s.
16 Cfr. R. Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Bari 1980.
17

E. Lévinas, Filosofia, giustizia e amore, p. 10. Sulla filosofia dell'amore cfr. anche V. Soloviev, iL significato dell'amore e altri scritti. La casa di Matriona, Milano 1988. La poesia forse più della filosofia rimane il luogo in cui la forza dell'amore è meglio intuita. Sull'amore divino intensa è la poesia di George Herbert (1593-1633): L'Amore mi accolse; ma l'anima / mia indietreggiò / colpevole di polvere e peccato. / Ma chiaroveggente l'Amore, vedendomi esitare / fin dal mio primo passo, / mi si accostò, con dolcezza domandandomi / se qualcosa mi mancava. / "Un invitato" risposi "degno di essere qui". / L'Amore disse: "Tu sarai quello". / "Io, il malvagio, l'ingrato? Ah! mio diletto, / non posso guardarti". / L'Amore mi prese per mano, sorridendo rispose: / "Chi fece questi occhi, se non io?". / "È vero, Signore, ma li ho insozzati; che vada la mia vergogna dove merita". / "E non sai tu" disse l'Amore "chi ne prese il biasimo su di sé?". / "Mio diletto, allora servirò". / "Bisogna tu sieda" disse l'Amore "che tu gusti il mio cibo". / Così mi sedetti e mangiai.

18 Cfr. Nichilismo e metafisica, cit., pp. 32-45.
19 S. Kierkegaard, La malattia mortale, Mondadori, Milano 1991, p. 29.
20 iL testo della Volgata suona: "qui ostendunt opus legis scriptum in cordibus suis, testimonium reddente illis conscientia ipsorum, et inter se invicem cogitationibus accusantibus aut etiann defendentibus".
22 S. Th., I II, q. 91, a. 2. Sviluppi sulla questione della coscienza morale, della legge naturale, dell'autonomia, teonomia, eteronomia dell'etica si trovano nel cap. "Autonomia morale, legge naturale, etica evangelica", in V. Possenti, Approssimazioni all'essere, Il Poligrafo, Padova 1995.
23

iovanni di san Tommaso, Phil. Nat. P. IV, q. 12, a. 2. Sulla filosofia della libertà e il rapporto in essa di volontà e intelletto, cfr. il saggio "Dialettica della libertà: libero arbitrio e liberazione", nel mio Essere e libertà, Rubbettino, Soveria 2004.

24 Amos Oz, Perché bene e male non esistono più, "Corriere della Sera", 3 settem-
bre 2005, p. 41.
25 H. T. Engeihardt jr., Manuale di Bioetica, 11 saggiatore, Milano 1991, p. 52.
26 S. Kierkegaard, La malattia mortale, cit., pp. 21, 32, 3
27 S. Th., I, q. 29, a. 3, ad 4m.
28 Che nella struttura del soggetto e del suo rapporto con l'alterila si debba riconoscere una radicale incomunicabilità ontologica, unita ad un'altrettanto radicale comunicabilità intenzionale, viene riconosciuto da Lévinas: "Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l'esistere", Il Tempo e l'Altro, II Melangolo, Genova 1997, p. 20.
29

Esistenza e persona, cit., p. 15. La coincidenza di autorelazione ed eterorelazione è per Pareyson il centro ispiratore anche del suo proprio "personalismo ontologico versione esistenzialista del personalismo" (ivi). L'intento programmatico dell'autore nella fase finale del suo pensiero muove peraltro verso un ripensamento dell'esistenzialismo nel senso dell'ontologia della libertà, che conduce all'idea - di derivazione schellinghiana - che l'essere stesso sia libertà: "solo la libertà precede e può precedere la libertà; e quindi l'essere stesso è libertà" (p. 268). Conseguentemente il personalismo pareysoniano sarà 'attualistico' più che ontologico-sostanzialistico, e seenato dal "ripudio della metafisica ontica e oggettiva in favore di un'ontologia critica nella quale a rigore non c'è posto per un discorso sul fondamento" (p. 19).

30 Cinq méditations sur l'existence, cit., p. 96.
31 Critica della ragion pura, cit., p. 149 e s.
32 "La coscienza non è un soggetto autonomo" (p. 15), scrive K. Wojtyla in un saggio del 1976 dal titolo La persona: soggetto e comunità, ora in «II nuovo Areopago», n. 20, inverno 1986, pp. 7-52. Ci sembra che vada oltrepassato l'equivoco di quelle filosofie che pongono l'essenza della persona nella capacità di riflessione e nella coscienza, intesa in senso spesso soltanto psicologico come 'essere consci di'. Invero l'interiorità, la libertà, la razionalità, la coscienza sono attributi ed espansioni della vita dell'anima in noi, la quale sfugge alla presa della autocoscienza: noi non conosciamo mai allo scoperto l'essenza dell'anima, ma solo indirettamente mediante riflessioni sui suoi atti e facoltà.
33 J. Maritain, La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1973, p. 185.
34 Appare arduo fare perno sulla autotrasparenza della coscienza dopo Freud e la psicoanalisi. Gli assunti della parziale opacità della coscienza a se stessa, del buio che si fa più fitto man mano che si discende in essa, dell'impossibilità di conoscere allo scoperto o per visione intuitiva l'essenza dell'anima erano d'altronde tematizzati dalla psicologia ontologica di Tommaso. Per un approfondimento in proposito cfr. J. Maritain, I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1974, pp. 523-530.
35 J. Maritain, La persona e il bene comune, cit., p. 35.
36 Timore e tremore, Rizzoli, Milano 1986, p. 81
37 S. Th;., 1 II, q. 113,a.9,ad2m.
38 "La Metafisica della Prima Persona (Ego sum qui sum)", RFNS, n. 2, 1989, pp.
181-200.
39 Testo di Taylor, citato da P. Costa nella sua postfazione a C. Taylor, La moder-
nità della religione, Meltemi, Roma 2004, p. 138.
40 "L'Oriente e l'Occidente", in G. Kocjiancic, G. Grandi, Oriente e Occidente, Rubbettino 2004, p. 19. "Trattare dell'uomo è già trattare di Dio. Ciò è essenziale per me. Un tempo Feuerbach… volle passare dall'idea di Dio a quella dell'uomo. Poi Nietzsche, che ando più avanti, volle passare dall'idea dell'uomo a quella del superuomo. L'uomo non soltanto non era qui che un cammino, ma destinato a sentire che era soltanto un cammino, un passaggio. Oggi è necessario comprendere in un modo nuovo che passare all'uomo è passare a Dio", N. Berdjaev, Cinq méditations sur l'existence, p. 208.
41 Uditori della parola. Boria, Torino 1967, p. 208.
42 S. Kierkegaard, Scritti sulla comunicazione, a cura di C. Fabro, Logos, Roma 1976, vol. 1 p. 203 "Il Singolo: con questa categoria sta e cade la causa del ountlaneslln0" (P- 205). "Il Singolo è la categoria per la quale devono passare dal punto di vista religioso il tempo, la storia, il genere umano", p. 201.
43 Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 11 e s.
44

Dalla sorgente del personalismo teologico scaturiscono notevoli sviluppi sull'homo religiosus e la storia delle religioni, capace di andar oltre l'esposizione storiografica per scoprire negli eventi religiosi esperienze vissute della persona. L'obiettivo, formulato fra gli altri da Mircea Elide, consiste nel mettere in evidenza quanto vi è di religioso nella storia delle religioni, e in tal modo superare lo storicismo che vi circola, mostrando che l'atto religioso aiuta l'uomo ad oltrepassare il quotidiano e la storia stessa. Ciò per giungere ad una comprensione essenziale dei fenomeni religiosi quali si manifestano nel comportamento dell'uomo religioso, e che fanno parte della scienza delle religioni. Si tratta di adottare un'ermenenutica totale per decifrare gli incontri della persona con il sacro, dall'epoca preistorica in avanti, e di metterne in luce il carattere transstorico. Il sacro, le ierofanie, l'esperienza religiosa a qualsiasi livello, la preghiera, l'offerta, il sacrificio, il peccato postulano la persona religiosa. Secondo Mircea Eliade tre sono gli elementi funzionali del comportamento dell'/iomo religiosus: il mito, il rito, il simbolo. Il mito mette in relazione col sacro e col mondo soprannaturale, introducendo ad un tempo diverso da quello profano; il rito stabilisce una relazione fra il tempo profano e quello primordiale; il simbolo aiuta a percepire le ierofanie e si pone come linguaggio di rivelazione del mistero.

45 Pensées, n. 548, ed. Brunschvicg. La frase di Pascal si pone come centro di un'intera antropologia teologica: per conoscere se stesso l'uomo dipende dalla conoscenza che Dio ha su di lui. Essa insegna che un'antropologia non cristologica è insufficiente, poiché ignora nuclei essenziali dell'uomo, quali il suo essere con Cristo e destinato a divenire consorte della natura divina.
46 S. Th., III, q. 34, a. 1. ad Im.
47 J. Maritain, La persona e il bene comune, p. 10.
48

Significativa è la preghiera trinitaria di D. Hammarskóld, Tracce di cammino,
Mondadori, Milano 1997, p. 127: Dinanzi a te, padre,/ in rettitudine e umiltà, / con te, fratello, / in fedeltà e coraggio, / in te, spirito, / in quiete.

49 Tractatus, 6. 52. Ho qui impiegato un brano di una mia opera non più in commercio: Razionalismo critico e metafisica. Quale realismo?, Morcelliana, Brescia 19962, p. 121es.
50 Thè Presbiterian Church, 'God alone is Lord of thè Conscience: A Policy Statement adopted by thè 200"' Generai Assembly, 1989.
51 Dio e il divino. Confronto col cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2000, p. 10 e p.53.
52 Cfr. Religione e vita civile, cit., pp. 150-156.