Summa Teologica - I-II

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Articolo 6 - Se si debba fuggire la tristezza più di quanto si debba desiderare il piacere

II-II, q. 138, a. 1; In 3 Sent., d. 27, q. 1, a. 3, ad 3; In 4 Sent., d. 49, q. 3, a. 3, sol. 3

Pare che si debba fuggire la tristezza più di quanto si debba desiderare il piacere.

Infatti:

1. S. Agostino [ Lib. LXXXIII quaest. 36 ] scrive: « Non c'è nessuno che non desideri maggiormente fuggire il dolore che bramare il piacere ».

Ora, ciò in cui tutti consentono è una cosa naturale.

Quindi è naturale ed è giusto che si fugga la tristezza più di quanto si brami il piacere.

2. L'azione dei contrari rende il moto più veloce e più intenso: infatti, come osserva il Filosofo [ Meteor. 1,12 ], « l'acqua calda si congela prima e con più forza ».

Ora, la ripulsa del dolore deriva dalla contrarietà di ciò che addolora, mentre l'appetito del piacere non deriva da una contrarietà, ma piuttosto dall'affinità di ciò che piace.

Quindi la ripulsa del dolore è superiore all'attrattiva del piacere.

3. Più forte è la passione alla quale uno resiste per seguire la ragione e più uno è degno di lode e più è virtuoso: poiché, come scrive Aristotele [ Ethic. 2,3 ], « la virtù riguarda il difficile e il bene ».

Ora il coraggioso, che resiste al moto di ripulsa per il dolore, è più virtuoso del temperante, che resiste all'attrattiva del piacere: infatti il Filosofo altrove [ Reth. 2,4 ] osserva che « i coraggiosi e i giusti sono i più onorati ».

Quindi il moto di ripulsa per il dolore è più forte dell'attrattiva del piacere.

In contrario:

Il bene è più forte del male, come dimostra Dionigi [ De div. nom. 4 ].

Ma il piacere è desiderabile per il bene, che ne forma l'oggetto, mentre la ripulsa del dolore ha per oggetto il male.

Quindi l'attrattiva del piacere è più forte della ripulsa del dolore.

Dimostrazione:

Di per sé l'attrattiva del piacere è più forte della ripulsa del dolore.

E la ragione è che la causa del piacere è il bene conveniente, mentre la causa del dolore è un certo male che ripugna.

Ora, ci può essere un bene che conviene senza alcuna dissonanza, mentre non ci può essere un male totalmente ripugnante senza alcuna convenienza.

Quindi il godimento può essere integro e perfetto, mentre il dolore è sempre parziale.

E così il desiderio del piacere è naturalmente superiore alla ripulsa del dolore.

- Ma vi è un'altra ragione, e cioè il fatto che il bene, oggetto del piacere, viene cercato per se stesso, mentre il male, oggetto del dolore, è da fuggirsi in quanto privazione di bene.

Ora, ciò che vale per se stesso è superiore a ciò che vale per altro.

- E abbiamo un segno di ciò nei moti di ordine fisico.

Infatti ogni moto fisico naturale è più intenso alla fine, quando si avvicina al termine proporzionato alla sua natura, che non quando, all'inizio, lascia il termine non conveniente alla sua natura: mostrando in qualche modo che la natura ha più tendenza a ciò che le conviene che ripulsa verso ciò che la contrasta.

Per cui l'inclinazione della facoltà appetitiva, assolutamente parlando, tende verso il piacere con più forza di quanto non rifugga dal dolore.

Può tuttavia capitare accidentalmente che uno fugga il dolore più di quanto desideri il piacere.

E ciò può avvenire in tre modi.

- Primo, a motivo della conoscenza.

Poiché, come scrive S. Agostino [ De Trin. 10,12.19 ], « l'amore è sentito maggiormente quando il bisogno lo manifesta ».

Ora, dal bisogno dell'oggetto amato nasce il dolore, che deriva dalla perdita del bene bramato o dal sopraggiungere di un male contrario.

Invece il piacere è incompossibile col bisogno del bene amato, essendo riposto nel bene già conseguito.

Essendo quindi l'amore causa del piacere e del dolore, quanto più forte è il sentimento dell'amore acuito dal contrasto, tanto più grande è la ripulsa del dolore.

- Secondo, a motivo della causa che addolora o che rattrista, la quale talvolta contrasta con un bene più amato del bene di cui godiamo.

Infatti noi amiamo maggiormente l'incolumità naturale del corpo che il piacere del cibo.

Quindi per paura del dolore prodotto dalle frustate, o da altre pene consimili che minacciano l'incolumità del corpo, rinunziamo al piacere del cibo o ad altri piaceri del genere.

- Terzo, a motivo degli effetti: poiché un dolore non ostacola un piacere soltanto, ma tutti.

Analisi delle obiezioni:

1. Quanto dice S. Agostino, che cioè « il dolore è più fuggito di quanto il piacere sia desiderato », è vero accidentalmente, non di per sé.

E ciò risulta evidente da quello che aggiunge: « Talora vediamo anche le belve più feroci astenersi dai più grandi piaceri per paura del dolore », il quale appunto è contrario alla vita, che è la cosa più amata.

2. Il caso del moto [ naturale ] proveniente dall'interno è diverso dal caso del moto proveniente dall'esterno.

Infatti il moto che proviene dall'intimo tende verso l'oggetto conveniente più di quanto non si ritragga dal suo contrario: come sopra [ nel corpo ] si è detto per il moto fisico naturale.

Invece il moto che proviene dall'esterno si intensifica per la stessa contrarietà: poiché ogni essere tende a resistere al suo contrario, quasi per conservare se stesso.

Per cui il moto violento è intenso all'inizio e debole alla fine.

- Ora, il moto della parte appetitiva è un moto dall'interno, portandosi dall'anima alle cose.

Quindi, assolutamente parlando, è più forte l'attrattiva del piacere che la ripulsa del dolore.

Invece il moto della parte sensitiva proviene dall'esterno, cioè va dalle cose all'anima.

Per cui è sentito maggiormente ciò che è maggiormente contrario.

E così, in quanto si richiedono i sensi per il piacere e per il dolore, accidentalmente è più fuggito il dolore di quanto non sia desiderato il piacere.

3. L'uomo forte non è lodato perché virtuosamente non si lascia vincere da un dolore o da una tristezza qualsiasi, ma da quella tristezza che consiste nel pericolo di morte.

La quale tristezza è fuggita con più forza di quanto non siano desiderati i piaceri venerei o del cibo, oggetto della temperanza: appunto perché la vita è amata più del cibo o dell'atto coniugale.

Ma il temperante è più lodato per non aver assecondato i piaceri del tatto che per non aver fuggito i dolori contrari, come appare da Aristotele [ Ethic. 3,11 ].

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