19 Febbraio 1969
Diletti Figli e Figlie!
Il rito dell'imposizione delle ceneri emana tale ricchezza e tale chiarezza di significato da non avere bisogno di spiegazione e di commenti.
Parla da sé.
E dice molte cose e gravi cose.
Dice la sua permanenza secolare nella spiritualità della nostra religione; esso ha infatti nell'antico Testamento la sua origine ( cfr. Ger 25,34; Gb 42,6 ); nel Vangelo è ricordato ( Mt 11,21 ); entra prestissimo nella liturgia cristiana, fa parte della disciplina dei penitenti, e diventa un sacramentale della Chiesa; si fonde con l'inaugurazione della quaresima caratterizzandone lo scopo penitenziale e preparatorio alla celebrazione pasquale.
Dice così qual è la condizione dell'uomo di fronte al mistero della salvezza, una condizione tragica e miserrima: egli è peccatore, egli è mortale, egli è abitualmente illuso di possedere la vita e inganna se stesso quando pone la sua fiducia nelle cose che vede e che possiede, nella propria vitalità e nella propria salute, nel tempo che pare non finisca mai e subito ci viene meno a tradimento con la morte la quale riduce in nulla, in cenere ogni nostra sicurezza, ogni nostra ricchezza; anzi spalanca a noi il suo regno abissale e, quand'è privo del lume della fede, oscuro e pauroso, il regno della morte.
Dice perciò questo rito la nostra inesorabile sorte di creature mortali, come figli del tempo ed eredi della condanna generata dal peccato, e dice insieme la nostra tragica condizione di esseri immortali, responsabili per l'eternità davanti al Dio vivo e da noi perduto, bisognosi di Lui, e a Lui incapaci d'arrivare con le nostre forze esauste e consumate in fallaci speranze.
Dice la disperazione dell'uomo che confida in se stesso; dice la filosofia del nulla, propria del nostro esistenzialismo, quand'è apostata dalla fonte viva di Cristo; e obbliga noi, col lugubre silenzio che subito lo conclude, a invocare misericordia e salvezza.
Parte di qui l'itinerario verso la redenzione, verso il mistero pasquale.
È perciò un rito che produce un senso interiore e globale dell'esistenza umana, e suscita una coscienza personale drammatica circa il destino della nostra vita; una coscienza che è così favorita a determinarsi in un suo proprio e nuovo orientamento morale fondamentale ( cfr. L. Janssen, Liberté de conscience … p. 78 ), che nel linguaggio spirituale chiamiamo conversione.
È la « metanoia » del Vangelo.
Cioè il cambiamento interiore, è la conversione del cuore, è propriamente la penitenza, cioè la disposizione anch'essa misteriosamente ispirata dalla grazia, che ci apre al regno di Dio ( Mc 1,15; Lc 13,3; ecc. ).
Quando parliamo di penitenza il pensiero corre agli atti ascetici e alle pratiche di mortificazione e di carità, che imprimono nell'animo e esprimono nell'azione quel sentimento di mutazione spirituale nel quale propriamente consiste la penitenza: ma la Chiesa ci farà ripetere in questi giorni le parole del profeta Gioele: « Convertitevi a me di tutto cuore, nel digiuno, nel pianto, nel duolo; e stracciate i vostri cuori e non le vostre vesti, e convertitevi al Signore Iddio, perché Egli è benigno e misericordioso, paziente e molto compassionevole e predisposto a condonare il male » ( Gl 2,12-13 ); e ci ricorderà così che l'essenza della penitenza è appunto un fatto psicologico, morale e interiore, un rivolgimento di mentalità, un cambiamento del nostro modo di valutare noi stessi, un pentimento, una professione cordiale di umiltà, una amarezza che perfino chiamiamo contrizione.
Ed è questa rifusione spirituale, che vale più d'ogni atto esteriore di penitenza e che, se mancasse, gli atti esteriori sarebbero privi di sincerità e di valore.
Da ricordare quanto c'insegna Gesù, a fuggire l'esteriorità ipocrita degli atti penitenziali, di moda nell'ambiente farisaico del suo tempo ( Mt 6,16-17 ), e non mai del tutto scomparsa dalla perenne tentazione umana di sostituire la realtà della virtù con le sue apparenze.
Poi, dicendo penitenza, pensiamo al sacramento, che ne porta il nome e che ci conferisce la grazia propria della penitenza, la riconciliazione con Dio e la comunione vitale della sua presenza soprannaturale nelle nostre anime, mediante l'applicazione del ministero conferito da Cristo a Pietro e agli Apostoli, il famoso potere delle « chiavi » ( Mt 16,19; Mt 18,18; Gv 20,23 ), cioè la potestà di rimettere i peccati, sempre che la fede e il pentimento ne rendano possibile l'efficacia.
Tutto questo ci è ben noto; ed è molto bello.
In questo circolo di dottrine, di sentimenti, di atti religiosi e penitenziali, di riparazione del male e di reviviscenza del bene, di pratica sacramentale e di umiltà giusta e vera, si contiene ciò che ha di più prezioso la pratica della vita cattolica; qui un triplice ordine si restaura prodigiosamente: dapprima con la valutazione coraggiosa e salutare della propria miseria ( ricordate la parabola del figliuol prodigo: « in se reversus », ritornato in sé: Lc 15,17 ); l'anima ritorna sincera con se stessa, rientra dentro di sé, si conosce e si accusa con assoluto coraggio, ripudia ciò che la disonora intimamente e ricupera un primo dominio di sé; l'uomo ritorna degno di tal nome.
Poi con l'impensabile, l'immeritato, l'ineffabile incontro con Dio, con una tenerezza infinita, con una bontà immensa e vegliante, che altro non attendeva se non il momento di manifestare la sua onnipotenza mediante la sua misericordia ( cfr. la colletta della Messa della decima domenica dopo Pentecoste: « O Dio, che manifesti la tua onnipotenza massimamente col perdono e con la misericordia … » ): è la vita nuova, che rinasce; è la circolazione soprannaturale della grazia che riprende ad animare la nostra esistenza naturale infondendole lo Spirito divino vivificante; è la fortuna più grande che possa capitare a chi non aveva più diritto di riallacciare con Dio il rapporto battesimale, è la risurrezione celebrata in nuova pienezza e in un nuovo gaudio, veramente pasquale.
E terzo ordine restaurato è quello con la Chiesa: il peccatore, se non rinnega espressamente la fede scomunicando se stesso dalla società dei credenti, rimane, sì, membro della Chiesa, ma membro inerte e paralizzato, e quasi spiritualmente morto, e socialmente privo della comunione vitale col Corpo mistico di Cristo.
Tutto questo ci è ricordato dai testi del recente Concilio ( cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 109-110; Lumen Gentium, n. 11; ecc. ), ed è stato richiamato dalla Nostra Costituzione apostolica Paenitemini ( 17 febbraio 1966 ): faremo bene a ritornare a queste fonti recentissime, che ci recano il flusso salutare di quelle evangeliche e di quelle della tradizione più autorevole dei Padri e dei Concili ( Lateranense IV e Tridentino specialmente ), e ci dimostrano che l'antica celebrazione della Quaresima non è cosa di altri tempi, né cosa fossilizzata in date forme esteriori; ma è cosa viva, e di attualità, proprio per noi, uomini del nostro secolo, tanto bisognosi di ritrovare noi stessi, Dio e la Chiesa nel mistero pasquale di Cristo Signore.
Così Egli vi aiuti a comprendere e a profittare della grazia che passa ancora nella nostra annata 1969, con la Nostra Benedizione Apostolica.