27 Maggio 1970
Fra le grandi questioni della mentalità moderna per noi credenti vi è quella dell'atteggiamento dell'uomo verso il progresso.
È una questione che ordinariamente si presenta come un'obiezione: il credente è uomo dalla psicologia statica, fissa, immobile; la sua fede dogmatica non gli consente di comprendere le cose nuove, di desiderarle, di promuoverle.
Anzi egli, il credente, è ancora al passato, a quel momento della storia passata, in cui avvenne il fatto evangelico, due mila anni fa; per lui il tempo non passa, il suo sguardo è rivolto all'indietro; e perciò la sua psicologia è tendenzialmente estranea agli avvenimenti grandiosi e precipitosi del nostro tempo; egli diffida dei cambiamenti, che si verificano in ogni campo della vita umana: nel pensiero, nella scienza, nella tecnica, nella sociologia, nei costumi, ecc.; non può essere « uomo del nostro tempo », non può capire i giovani; è senza desideri, senza speranze; è, in fondo, apatico e timoroso; e, nel campo ecclesiale, è preconciliare …
Occorre una nuova mentalità religiosa, una nuova teologia, una nuova Chiesa.
Questa descrizione d'una figura preconcetta del credente potrebbe prolungarsi senza fine.
La questione è grossa, e lo stile del nostro discorso, come al solito breve e elementare, non ci consente altro che presentarlo alla vostra attenzione con l'aggiunta d'una semplice domanda: è esatta questa descrizione?
Il credente sfugge davvero all'imperativo dell'attualità, al fascino del progresso? ( Cfr. Dawson, Progresso e religione )
Ammettiamo, anzi difendiamo un aspetto essenziale del credente, del cristiano: egli è uomo della tradizione; della tradizione in cui egli vive; è uomo di Chiesa, cioè è figlio di quel corpo sociale, vivo e mistico, che trae la sua vita dal suo capo, che è Cristo; il Cristo vissuto nella storia del Vangelo e ora vivente nella gloria celeste, nella pienezza divina, come diciamo nel Credo: alla destra del Padre.
Il cristiano vive cioè d'un'eredità, d'una memoria proveniente da un avvenimento storico passato, decisivo per le sorti dell'umanità, il Vangelo, e vive d'un'attualità a lui comunicata nello Spirito Santo da una sfera, ch'è oltre quella del tempo e della realtà naturale: vive di fede, vive di grazia.
Se questo filo si rompesse, la vita dell'uomo, in quanto cristiano, si spegne.
È questione di vita o di morte.
Ma diciamo subito: questo vincolo con il passato e con il trascendente soprannaturale non astrae il credente dal presente e dal futuro temporale e ultraterreno, anzi ve lo inserisce più intimamente.
Perché? perché la fede, a cui egli aderisce, è di natura sua una promessa; o meglio: è l'adesione a verità che devono ancora palesarsi nella loro completa conoscibilità e nel loro promesso godimento.
Come descrive la fede la lettera agli Ebrei?
È celebre la formula: « La fede è il fondamento di cose sperate, è la certezza di cose che ora non si vedono » ( Eb 11,1 ).
Perciò la fede ha un rapporto essenziale con la speranza.
Sì, con la speranza.
Ed è la speranza la forza motrice del dinamismo umano, e tanto di più, come virtù teologale, del dinamismo cristiano.
Qui sarebbe da fare l'analisi della speranza nella psicologia moderna; a voi la affidiamo.
Vedrete subito che di speranza vive l'uomo moderno.
Cioè la sua anima è tesa verso il futuro, verso qualche bene da conseguire; ciò ch'egli possiede non gli basta; anzi ciò ch'egli possiede, invece di soddisfarlo, lo stimola e lo tormenta a possedere di più, a cercare qualche cosa d'altro: lo studio, il lavoro, il progresso, la contestazione e perfino la rivoluzione sono altrettante speranze in azione.
Questa fuga in avanti, propria del nostro tempo, è tutta alimentata dalla speranza; e chi meno simpatizza col passato o col presente mette il suo cuore nel futuro, cioè spera; dice bene S. Tommaso che la speranza abbonda nei giovani ( Summ. Theol. I-II, 40,6 ), salvo che, deluso di raggiungere un qualche miglior bene nel futuro, cada nella disperazione, come avviene non di rado nella psicologia critica e pessimistica di tanti uomini, figli anch'essi del nostro tempo.
Ora il cristiano è uomo della speranza, e non conosce disperazione.
E riguardo alla speranza vi è una differenza fra il cristiano e l'uomo profano moderno: quest'ultimo è un vir desideriorum, l'uomo dai molti desideri ( fra desiderio e speranza vi è stretta parentela: questa si inscrive fra gli istinti di forza, quello piuttosto fra gli istinti di godimento, ma entrambi tendono a beni futuri ); ed è uomo che cerca di abbreviare la distanza fra lui e i beni da conseguire; è uomo dalle speranze a breve termine, le vuole presto soddisfatte, e quelle sensibili, economiche e temporali sono più rapidamente raggiungibili, e perciò, presto esaurite, lasciano stanco e vuoto, e spesso deluso il cuore dell'uomo.
Sono le sue delle speranze che non fanno grande il suo spirito, e non dànno alla vita il suo pieno significato, e spingono il cammino della vita stessa su sentieri di discutibile progresso.
Il cristiano invece è l'uomo della vera speranza, quella che ambisce il raggiungimento del sommo bene ( Cfr. S. Aug., Conf. 1, 1: « Fecisti nos ad Te » ), e che sa d'avere al suo desiderio e al suo sforzo l'aiuto da quello stesso sommo Bene, che alla speranza infonde la fiducia e la grazia di conseguirlo ( Cfr. Summ. Theol., I-II, 40,7 ).
Entrambe, le due speranze profana e cristiana, traggono la spinta da una carenza della nostra condizione di vita presente, dal dolore, dalla povertà, dal rimorso, dal bisogno, dal disagio; ma una diversa tensione le sostiene, sebbene quella cristiana possa far propria tutta la tensione veramente umana ed onesta della speranza profana: non è questa l'idea ispiratrice della grande Costituzione pastorale Gaudium et spes del recente Concilio?
« Nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore » dei discepoli di Cristo ( Gaudium et spes, 1; cfr. Ter.: « Humani nihil a me alienum puto » ).
Concludiamo dunque correggendo la falsa concezione del credente quasi fosse un reazionario obbligato, un quietista di professione, un estraneo alla vita moderna, un insensibile ai segni dei tempi, un uomo privo di speranza; diciamo piuttosto ch'egli è uomo vivente di speranza, e che la sua stessa salvezza cristiana, iniziata e incompleta qual è, è un dono da trafficare, è un traguardo da raggiungere, perché quasi a credito, cioè solo « in speranza siamo fatti salvi » ( Rm 8,24 ); e se egli non vuole cadere nel divoratore relativismo del tempo che passa, e non cede alla foga cieca delle novità staccate dalla coerenza con la tradizione cattolica, non è per questo retrivo al rinnovamento e al progresso improntati al disegno divino, sì bene promotore alacre e intelligente; perché è uomo della Speranza.
Riflettiamo un po'.
Con la Nostra Benedizione Apostolica.