19 Maggio 1971
Così grande in sé, così importante per Noi è il fatto della risurrezione di Gesù che, come la Chiesa prolunga per alcune settimane la sua meditazione sopra di esso e ravvisa nell'avvenimento della passione e della morte del Signore e della ripresa della sua nuova vita corporea il mistero per eccellenza, il mistero pasquale, così noi, cristiani rinnovati e meravigliati della sua recente celebrazione, sostiamo ancora una volta sulla riflessione, ch'esso ci impone come ad uomini vivi e mortali nel tempo nostro, per chiederci qual è il rapporto tra Cristo risorto e noi, qual è la sua presenza, ovvero la sua assenza, a nostro riguardo;
che cosa insomma ci resta di Lui, dopo aver trovato, come le sante donne in quel mattino pasquale, la sua tomba vuota, e dopo aver saputo e creduto circa le sue varie apparizioni « non a tutto il popolo, ma ai testimoni preordinati da Dio » ( At 10,41 ).
La questione non è una curiosità vana, ovvero un semplice dubbio esegetico; è una domanda essenziale per la nostra fede e per la nostra vita religiosa.
Essa ci incalza da vicino, ciascuno personalmente: che cosa ti resta di Gesù?
Una sbiadita memoria storica?
Un puro concetto idealizzato?
La sua sola lontana, anche se sempre squillante Parola?
La associazione dei suoi fedeli, che si tradusse in una tradizione storica e sociale, chiamata Chiesa?
Ma lui, Lui risorto dov'è?
Non ci resta forse che da aspettare il suo spettacolare ritorno, preannunciato da Lui, quando verrà « nella gloria di Dio, sulle nubi del cielo »? ( Cfr. Mc 14,62 )
Ovvero, anche adesso, anche per ciascuno di noi, Egli è ancora presente, e come?
Le ultime parole di Gesù risorto, registrate nel Vangelo di San Matteo, ci attestano una realtà meravigliosa, ma anch'essa misteriosa; nell'atto di scomparire dallo sguardo dei suoi discepoli e dalla scena sensibile di questo mondo, Egli, il risorto, disse e profetizzò: « Ecco che io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo » ( Mt 28,20 ).
Dunque ancora oggi, Egli è presente; ma come, ma dove?
Altre volte ci siamo chiesti quale genere di presenza, quale forma di attualità Cristo abbia fra noi, e come noi possiamo cercarlo e trovarlo al di là e al di qua del duplice diaframma, che separa gli uomini fra loro, lo spazio ed il tempo; e sempre ci domandiamo e ci confermiamo nella fede che l'abisso incolmabile e impenetrabile della morte è superabile; è superato dal superstite contatto che conserviamo con Cristo e con quanti nel regno escatologico, cioè dell'oltretomba, sono nella sua pace.
Ed è questo un pensiero che Gesù stesso ebbe profondamente presente in quei famosi e superlativi discorsi dell'ultima cena, dopo l'istituzione del sacramento della sua perennità nella nostra storia, e della sua ubiquità nella nostra collocazione terrena, l'Eucaristia.
Sono i discorsi d'addio, i discorsi testamentari di Gesù, che sa imminente la sua morte, e accenna alle conseguenze ch'essa avrà negli animi dei suoi, non mai così suoi, più che discepoli, amici ( Gv 15,14 ), come in quella vigilia del distacco naturale da loro: « Io vado. Io vado … ».
Quante volte Gesù quella notte ripete queste parole di commiato ( Cfr. Gv 13,33.36; Gv 14,3.5.12.28; Gv 16,5.7.11.16.17.28; ecc. ).
E quante volte Gesù accenna ad una sua permanenza, ad un suo ritorno anche durante la vita temporale dei suoi fedeli: « Non vi lascerò orfani, verrò a voi » ( Gv 14,18.21.23.28, ecc. ).
E quante altre volte insiste sopra una raccomandazione, un'esigenza, ch'Egli manifesta in quell'ora estrema di preannunciato distacco: « Rimanete in me, rimanete nel mio amore … » ( Cfr. Gv 15,4.5.6.7.9.10 ).
L'amore è svelato come il vincolo più perfetto della comunione, il complemento della fede, come avvertirà S. Agostino: Hoc est enim credere in Christum, diligere Christum, questo infatti vuol dire credere in Cristo, amarlo ( In Ps. 131; cfr. Gal 5,6 ).
E poi l'annuncio nuovissimo: la missione dello Spirito, del Paraclito, l'instaurazione d'una presenza nuova, soprannaturale di Dio nell'anima di quelli che hanno creduto in Cristo e lo hanno amato ( Cfr. Gv 14,19-23; Gv 15,26; Gv 16,13-15 ).
Certo, per cogliere il senso, anzi l'operante virtù di queste ineffabili promesse di Cristo, alle soglie della sua morte temporale, bisogna essere iniziati alla sua silenziosa ascoltazione, e alla sua conversazione, timida, impropria, audace da parte nostra, e pur capace di fare scaturire parole da Cristo come queste, all'interruzione di Tommaso: « Io sono la via e la verità e la vita; nessuno va al Padre se non per mezzo mio » ( Gv 14,6 ); o a quella di Filippo: « Chi vede me vede anche il Padre » ( Gv 14,9 ).
Ma non mancarono allora gli ascoltatori fedeli e fortunati; non mancheranno mai, nella Chiesa di Cristo, anime privilegiate a questi trascendenti colloqui.
Ma tutti noi, quanti siamo cristiani, possiamo sapere e credere che questa intima, perenne, moltiplicata comunione di Cristo, come Dio e come Uomo, deriva dal mistero pasquale, deriva dal fatto della risurrezione di Cristo, mediante la quale anche il Corpo beato del Signore può rendersi realmente presente fra noi nella celebrazione dell'Eucaristia, molteplice materialmente nel segno sacramentale, ma sempre intenzionalmente unico nella Realtà significata ( Cfr. S. TH., III, 73, 2; Billot, De Eccl. Sacramentis 1, p, 32.3; De La Taille, Mysterium Fidei, p. 132 ).
E ciò che diciamo della presenza reale di Cristo nel Sacramento eucaristico possiamo dire della sua grazia a noi comunicata mediante gli altri Sacramenti ( Cfr. Ciappi, De Sacr., p. 98, ad 3 ), sempre per causa della Passione e della Risurrezione di Cristo, cioè del mistero pasquale, come bene ci ricorda il Concilio: « Con la sua risurrezione costituito Signore, Egli, Cristo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra ( Cfr. At 2,36; Mt 28,18 ), opera ormai nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, non solo suscitando il desiderio del mondo futuro, ma per ciò stesso ispirando, purificando, e fortificando quei generosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra » ( Gaudium et Spes, 38 ).
Ecco il perché della nostra letizia pasquale, e perché ne dobbiamo sempre portare sulle labbra e nel cuore il suo Alleluia.
Con la Nostra Apostolica Benedizione.