3 Novembre 1976
Siamo in novembre.
Questo scorcio dell'anno liturgico ci prepara a una conclusione, che s'intitola a Cristo-Re.
Cioè a fare una sintesi su la nostra celebrazione di Cristo, quasi una revisione della nostra professione religiosa cristiana.
Abbiamo celebrato le feste del Signore percorrendo il ciclo annuale degli avvenimenti della sua biografia evangelica e degli insegnamenti ch'Egli, il Maestro divino, ci ha lasciati;
abbiamo qualificati i primi come « misteri », fatti cioè traboccanti dalla realtà della scena storico-umana in aperture sconfinate nella rivelazione del cielo e dei destini soprannaturali della vita umana;
e abbiamo cercato di classificare e di penetrare i secondi, cioè gli insegnamenti, in un certo ordine, che abbiamo chiamato Vangelo, dottrina cristiana.
Siamo ora noi in grado di fare questa sintesi, traducendola in una duplice risposta alle due domande che sempre dobbiamo rivolgere a noi stessi, e che alla fine di questa pedagogia liturgica annuale si fanno urgenti su le nostre coscienze:
Chi è Cristo, in Se stesso?
Chi è Cristo per me?
La fortuna che noi abbiamo avuta, di ricevere un'istruzione religiosa fondamentale e di sentircela ripetere partecipando ai riti domenicali, ovvero ascoltando gli echi della parola « cristiana » provenienti dalla conversazione nella vita vissuta, ci soccorre certamente con precise risposte; e beati noi se la memoria ce le conserva in termini fedeli.
Ma in realtà queste risposte si inceppano talora sulle nostre labbra e nell'interno stesso dei nostri animi, non tanto per la difficoltà di trovare le parole esatte di tali risposte, quanto perché le realtà che esse devono esprimere si sono fatte così grandi e così complesse da diventare forse nebulose o forse ineffabili.
Quasi si preferirebbe che quelle domande non sorgessero dentro, o fuori di noi, e che noi potessimo coprirci del nome cristiano comodamente, senza sperimentarne né la stringenza, né l'ebbrezza ( Cfr. At 26,28; 1 Pt 4,16 ).
Chi è Cristo?
Chi è Egli per me?
Quando riflettiamo su queste semplici, ma formidabili ricorrenti questioni ci accorgiamo d'essere tentati di scivolare in un vuoto nominalismo cristiano e di eludere la logica drammatica del realismo cristiano.
Se Cristo è Colui all'infuori del quale non v'è soluzione alle questioni capitali della nostra esistenza, se sono vere, se sono attuali le parole « piene di Spirito Santo » dell'Apostolo Pietro nello scontro del primo processo intentato alla Sua Predicazione messianica: « … Questo Gesù è la pietra che, scartata dai costruttori, è diventata testata d'angolo.
In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che noi possiamo essere salvati » ( At 4,11-12 ), allora la nostra mentalità è scossa e forse sconvolta; non possiamo più considerare il nome di Gesù Cristo come un appellativo puro e semplice che si è insinuato nel linguaggio convenzionale della nostra vita, ma la sua presenza, nella statura incalcolabile della sua grandezza, si drizza davanti a noi; ecco, Egli è l'alfa e l'omega, « il principio e il fine » d'ogni cosa ( Cfr. Ap 1,8 ), il cardine dell'ordine cosmico, che ci obbliga a rivedere le dimensioni della nostra filosofia, della nostra concezione del mondo, della storia della nostra personale esistenza.
Ci sentiamo annientati, come gli apostoli sul monte della trasfigurazione ( Mt 17,6 ), e non oseremmo più rialzare lo sguardo, vogliamo dire inoltrarci in un'esperienza spirituale e morale che si fa religiosa, cioè ci dà « l'estasi e il terrore » d'una Verità vivente a noi del tutto proporzionata, se non fosse che una sua voce incantevole e vicina ci ridestasse dalla confusione del nostro paralizzante stupore, anzi un suo tocco prodigioso ( « … li toccò », dice il Vangelo ), ci facesse gustare l'ineffabile momento, diventato umanissimo: « Su, e non abbiate timore! » ( Mt 17,7 ), e ci ricordasse altre sue parole rivelatrici che ci assicurano essere riservate le sue divine confidenze a noi, se piccoli ed umili ( Cfr. Mt 11,25 ).
L'umiltà di Dio fatto uomo ci confonde come la sua grandezza, ma non solo rende possibile il colloquio, ma lo offre, lo impone ( Cfr. S. Augustini Sermo 30; De Catech. Rud., 4,7-8; Confessiones, 7,18, 24; Confessiones, 7,20-26 ).
Siamo in un'atmosfera nuova, inverosimile: è quella del rapporto della fede, che non annulla il rapporto della ragione, ma lo esalta, e fortifica così quello religioso da infondergli una certezza più preziosa della vita stessa, e ancora così avida di sapere e di progredire da rendere insonne la sua ricerca e la sua contemplazione.
Alla conclusione della nostra stagione liturgica esaminiamo, Figli e Fratelli, il grado della nostra conoscenza di Cristo.
Non è offensivo il nostro rilievo: noi lo troveremo forse deficiente.
E così per noi tutti, se qualche cosa abbiamo afferrato della divina conversazione che la nostra elezione cristiana ci consente.
Riassumiamo i nostri pensieri in un proposito finale, in un desiderio che prelude al suo compimento oltre il tempo; è quello dei Greci che nel giorno dell'ingresso messianico di Cristo in Gerusalemme così si espressero: « vogliamo vedere Gesù » ( Gv 12,21 ).
Cosi noi tutti.
Con la nostra Apostolica Benedizione.