20 settembre 1978
Seconda tra le sette « lampade della santificazione » per papa Giovanni era la speranza.
Vi parlo oggi di questa virtù, che è obbligatoria per ogni cristiano.
Dante nel suo Paradiso1 ha immaginato di presentarsi a un esame di cristianesimo.
Funzionava una commissione coi fiocchi.
« Hai la fede? » gli chiede prima San Pietro.
« Hai la speranza? » continua S. Giacomo.
« Hai la carità? » finisce S. Giovanni.
« Sì - risponde Dante - ho la fede, ho la speranza, ho la carità », lo dimostra e viene promosso a pieni voti.
Ho detto che è obbligatoria: non per questo la speranza è brutta o dura: anzi, chi la vive viaggia in un clima di fiducia e di abbandono, dicendo con il salmista: « Signore, tu sei la mia roccia, il mio scudo, la mia fortezza, il mio rifugio, la mia lampada, il mio pastore, la mia salvezza.
Anche se si accampasse contro di me un esercito, non temerà il mio cuore; e se si leva contro di me la battaglia, anche allora io sono fiducioso ».
Direte: non è esageratamente entusiasta questo salmista?
Possibile che, a lui, le cose siano sempre andate tutte diritte?
No, non gli sono andate diritte sempre.
Sa anche lui, e lo dice, che i cattivi spesso sono fortunati ed i buoni oppressi.
Se ne è anche lamentato talvolta con il Signore; è arrivato a dire: « Perché dormi, Signore? Perché taci? Svegliati, ascoltami, Signore ».
Ma la sua speranza è rimasta: ferma, incrollabile.
A lui e a tutti gli speranti si può applicare quello che ha detto S. Paolo di Abramo: « credette sperando contro ogni speranza » ( Rm 4,18 ).
Direte ancora: come può avvenire questo?
Avviene, perché ci si attacca a tre verità: Dio è onnipotente, Dio mi ama immensamente, Dio è fedele alle promesse.
Ed è Lui, il Dio della misericordia, che accende in me la fiducia; per cui io non mi sento né solo, né inutile, né abbandonato, ma coinvolto in un destino di salvezza, che sboccherà un giorno nel Paradiso.
Ho accennato ai Salmi.
La stessa sicura fiducia vibra nei libri dei Santi.
Vorrei che leggeste un'omelia tenuta da S. Agostino nel giorno di Pasqua sull'Alleluia.
Il vero Alleluia - dice pressappoco - lo canteremo in Paradiso.
Quello sarà l'Alleluia dell'amore pieno: questo, di adesso, è l'Alleluia dell'amore affamato, cioè della speranza.
Qualcuno dirà: ma se io sono povero peccatore?
Gli rispondo come risposi a una signora sconosciuta, che s'era confessata da me molti anni fa.
Essa era scoraggiata, perché - diceva - aveva avuta una vita moralmente burrascosa.
Posso chiederle - dissi - quanti anni ha? - Trentacinque.
- Trentacinque! Ma lei può viverne altri quaranta o cinquanta e fare ancora un mucchio di bene.
Allora, pentita com'è, invece che pensare al passato, si proietti verso l'avvenire e rinnovi, con l'aiuto di Dio, la sua vita.
Citai in quell'occasione S. Francesco di Sales, che parla delle « nostre care imperfezioni ».
Spiegai: Dio detesta le mancanze, perché sono mancanze.
D'altra parte, però, in un certo senso, ama le mancanze in quanto danno occasione a Lui di mostrare la sua misericordia e a noi di restare umili e di capire e compatire le mancanze del prossimo.
Non tutti condividono questa mia simpatia per la speranza.
Nietzsche - per esempio - la chiama « virtù dei deboli »; essa farebbe del cristiano un inutile, un separato, un rassegnato, un estraneo al progresso del mondo.
Altri parlano di « alienazione », che distoglierebbe i cristiani dalla lotta per la promozione umana.
Ma « il messaggio cristiano - ha detto il Concilio - lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo … li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente ».2
Sono anche affiorate ogni tanto nel corso dei secoli affermazioni e tendenze di cristiani troppo pessimisti nei confronti dell'uomo.
Ma tali affermazioni sono state disapprovate dalla Chiesa e dimenticate grazie ad una schiera di santi lieti e operosi, all'umanesimo cristiano, ai maestri ascetici, che Saint-Beuve chiamò « les doux » e a una teologia comprensiva.
S. Tommaso d'Aquino, ad esempio, pone tra le virtù la iucunditas ossia la capacità di convertire in un sorridere giocondo - nella misura e nel modo conveniente - le cose udite e vedute.3
Giocondo a questo modo - spiegavo ai miei alunni - è stato quel muratore irlandese che cascò dall'impalcatura e si ruppe le gambe.
Portato all'ospedale, accorsero il dottore e la suora infermiera.
« Poverino - disse quest'ultima - vi siete fatto male cascando ».
Ma il malato: « Madre, non precisamente cascando, ma arrivando a terra mi son fatto male ».
Dichiarando virtù lo scherzare e il far sorridere, S. Tommaso si trovava d'accordo con la « lieta novella » predicata da Cristo, con l'hilaritas raccomandata da Sant'Agostino, sconfiggeva il pessimismo, vestiva di letizia la vita cristiana, ci invitava a farci coraggio anche con le gioie sane e pure, che incontriamo sul nostro cammino.
Quand'ero ragazzo, ho letto qualcosa su Andrea Carnegie scozzese, passato coi genitori in America e diventato un po' alla volta uno dei più ricchi uomini del mondo.
Egli non era cattolico, ma mi colpì il fatto che ritornasse con insistenza sulle gioie schiette ed autentiche della sua vita.
« Sono nato in miseria - diceva - ma non cambierei i ricordi della mia fanciullezza con quelli dei figli dei milionari.
Che ne sanno essi delle gioie familiari, della dolce figura di madre che combina in sé le mansioni di bambinaia, di lavandaia, di cuoca, di maestra, di angelo e di santa? ».
S'era impiegato giovanissimo in una filanda di Pittsburg con 56 misere lire mensili di stipendio.
Una sera, invece di dargli subito lo stipendio, il cassiere gli disse di attendere.
Carnegie tremava: « Adesso mi licenziano ».
Invece, pagati gli altri, il cassiere gli disse: « Andrea, ho seguito attentamente il vostro lavoro; ho concluso che vale di più di quello degli altri.
Vi porto lo stipendio a 67 lire ».
Carnegie tornò correndo a casa, dove la mamma pianse di contentezza per la promozione del figlio.
« Parlate di milionari - diceva Carnegie molti anni dopo - tutti i miei milioni messi assieme non mi hanno procurato mai la gioia di quelle undici lire di aumento ».
Certo, queste gioie, pur buone e incoraggianti, non vanno assolutizzate; sono qualcosa, non il tutto; servono come mezzo, non sono lo scopo supremo; non durano sempre, ma solo breve tempo.
« Di esse - scriveva S. Paolo - usino i cristiani, ma come non ne usassero, perché passa la scena di questo mondo » ( Cfr. 1 Cor 7,31 ).
Cristo aveva già detto: « Cercate prima di tutto il regno di Dio » ( Mt 6,33 ).
Per finire, vorrei accennare ad una speranza, che da alcuni è proclamata cristiana, ed invece è cristiana solo fino ad un certo punto.
Mi spiego: al Concilio ho votato anch'io il « Messaggio al Mondo » dei Padri Conciliari.
Dicevamo in esso: il compito principale del divinizzare non esime la Chiesa dal compito dell'umanizzare.
Ho votato la « Gaudium et Spes », mi sono commosso ed entusiasmato quando è uscita la « Populorum Progressio ».
Penso che il Magistero della Chiesa non insisterà mai abbastanza nel presentare e raccomandare la soluzione dei grandi problemi della libertà, della giustizia, della pace, dello sviluppo; ed i laici cattolici mai abbastanza si batteranno per risolvere questi problemi.
È, invece, errato affermare che la liberazione politica, economica e sociale coincide con la salvezza in Gesù Cristo, che il Regnum Dei si identifica con il Regnum hominis, che Ubi Lenin ibi Ierusalem.
A Friburgo, nell'85° Katholikentag è stato trattato nei giorni scorsi il tema « il futuro della speranza ».
Si parlava del « mondo » da migliorare, e la parola « futuro » ci stava bene.
Ma se dalla speranza per il « mondo » si passa a quella per le singole anime, allora bisogna parlare anche di « eternità ».
Ad Ostia, sulla riva del mare, in un famoso colloquio, Agostino e Monica, « dimentichi del passato e volti all'avvenire, si domandavano cosa sarebbe stata mai la vita eterna ».4
Questa è speranza cristiana; questa intendeva papa Giovanni e questa intendiamo noi, quando, con il catechismo, preghiamo: « Mio Dio, spero dalla bontà vostra … la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare.
Mio Dio, che io non resti confuso in eterno ».
1 | Dante Alighieri, La Divina Commedia, « Paradiso », XXIV, XXV, XXVI |
2 | Gaudium et Spes, 34; cfr.
ibid. 39 et
57; cfr. etiam Messaggio al Mondo dei Padri Conciliari, 20 ottobre 1962 |
3 | Cfr. S. Thomae Summa Theologiae, II-IIae, q. 168, a. 2 |
4 | S. Augustini Confessiones, IX, 10 |