Confessioni |
O Signore, io sono servo tuo, io sono servo tuo e sono figlio dell'ancella tua.
Poiché hai spezzato i miei lacci, ti offrirò in sacrificio di lode una vittima.
Ti lodi il mio cuore, la mia lingua; tutte le mie ossa dicano: "Signore, chi simile a te?".
Così dicano, e tu rispondimi, di' all'anima mia: "La salvezza tua io sono".
Io chi ero mai, com'ero? Quale malizia non ebbero i miei atti, o, se non gli atti, i miei detti, o, se non i detti, la mia volontà?
Ma tu, Signore, sei buono e misericordioso; con la tua mano esplorando la profondità della mia morte, hai ripulito dal fondo l'abisso di corruzione del mio cuore.
Ciò avvenne quando non volli più ciò che volevo io, ma volli ciò che volevi tu.
Dov'era il mio libero arbitrio durante una serie così lunga di anni? da quale profonda e cupa segreta fu estratto all'istante, affinché io sottoponessi il collo al tuo giogo lieve e le spalle al tuo fardello leggero, o Cristo Gesù, mio soccorritore e mio redentore?
Come a un tratto divenne dolce per me la privazione delle dolcezze frivole!
Prima temevo di rimanerne privo, ora godevo di privarmene.
Tu, vera, suprema dolcezza, le espellevi da me, e una volta espulse entravi al loro posto, più soave di ogni voluttà, ma non per la carne e il sangue; più chiaro di ogni luce, ma più riposto di ogni segreto; più elevato di ogni onore, ma non per chi cerca in sé la propria elevazione.
Il mio animo era libero ormai dagli assilli mordaci dell'ambizione, del denaro, della sozzura e del prurito rognoso delle passioni, e parlavo, parlavo con te, mia gloria e ricchezza e salute, Signore Dio mio.
Decisi davanti ai tuoi occhi di non troncare clamorosamente, ma di ritirare pianamente l'attività della mia lingua dal mercato delle ciance.
Non volevo che mai più i fanciulli cercassero, anziché la tua legge e la tua pace, i fallaci furori e gli scontri forensi comprando dalla mia bocca le armi alla loro ira.
Per una fortunata coincidenza mancavano ormai pochissimi giorni alle vacanze vendemmiali.
Perciò decisi di pazientare quel poco. Mi sarei poi congedato come sempre, ma, da te riscattato, non sarei ritornato più a vendermi.
Questo il nostro piano, noto a te, ignoto invece agli uomini, eccetto gli amici intimi.
Si era convenuto fra noi di non parlarne in giro ad alcuno, sebbene durante la nostra ascesa dalla valle del pianto, mentre cantavamo il cantico dei gradini, ci avessi dato frecce acuminate e carboni devastatori per difenderci dalle lingue perfide, che sotto veste di consigliere contraddicono e sotto veste d'amiche divorano, come si fa col cibo.
3 Ci avevi bersagliato il cuore con le frecce del tuo amore, portavamo le tue parole conficcate nelle viscere, e gli esempi dei tuoi servi, che da oscuri avevi reso splendidi, da morti vivi, ammassati nel seno della nostra meditazione erano fuoco che divorava il profondo torpore, per impedirci di piegare verso il basso.
Tanto ne eravamo infiammati, che tutti i soffi contrari delle lingue perfide avrebbero rinfocolato, non estinto l'incendio.
Tuttavia nel tuo nome, che hai reso sacro su tutta la terra, qualcuno avrebbe anche esaltato comunque il nostro voto e il nostro proposito; quindi ci sembrava che la nostra sarebbe stata piuttosto un'ostentazione, se, invece di attendere l'epoca delle vacanze così prossime, ci fossimo ritirati in anticipo da una professione pubblica, posta sotto gli occhi di tutti.
Avrei richiamato sul mio gesto lo sguardo dell'intera città, rifiutandomi di aspettare il giorno vicino delle vacanze, e molte sarebbero state le chiacchiere, quasi avessi cercato di riuscire importante.
A che pro, dunque, suscitare congetture e discussioni sui miei sentimenti, oltraggi al nostro bene?
C'era di più. Durante quella medesima estate i miei polmoni avevano cominciato a cedere sotto il peso dell'eccessivo lavoro scolastico.
Respiravo a stento e la lesione si manifestava con dolori al petto, che m'impedivano di parlare in modo abbastanza chiaro e abbastanza a lungo.
Dapprima mi aveva contrariato la necessità, in cui presto mi sarei trovato, di deporre il fardello dell'insegnamento, o quanto meno, se era possibile una cura e la guarigione, di lasciarlo per qualche tempo.
Ma quando si sviluppò e consolidò in me la piena volontà di attendere liberamente a considerare che tu sei il Signore, allora, ti è noto, Dio mio, divenne addirittura una gioia per me l'intervento di una scusa non falsa, capace di mitigare il malumore di chi a vantaggio dei propri figli voleva togliere per sempre a me il vantaggio della libertà.
Pervaso da questa gioia, sopportai con pazienza il tempo che ci separava dalle vacanze, una ventina di giorni al più; una pazienza che tuttavia mi costava fatica, perché si era dileguata la cupidigia che di solito mi aiutava a sostenere il peso gravoso della scuola.
Ne sarei anzi rimasto schiacciato, se non fosse succeduta la tolleranza.
Forse qualcuno dei tuoi servi, miei fratelli, dirà che in ciò peccai, tollerando di rimanere sia pure una sola ora di più seduto sulla cattedra della menzogna, quando già il cuore traboccava del desiderio di servirti.
Io non discuto, ma tu, Signore misericordiosissimo, non mi hai perdonato e rimesso nell'acqua santa anche questo peccato insieme agli altri miei funesti orrori?
La nostra fortuna consumava d'inquietudine Verecondo.
Egli vedeva come, a causa dei vincoli tenacissimi che lo trattenevano, sarebbe rimasto escluso dalla nostra società.
Non ancora cristiano, aveva una moglie credente, ma proprio costei era una catena al piede, che più di ogni altra lo ritardava fuori dal cammino che avevamo intrapreso.
Poi diceva di voler rinunziare a farsi cristiano, se non poteva esserle nel modo appunto che gli era precluso.
Però si offrì molto generosamente di ospitarci per tutto il tempo che saremmo rimasti colà.
Lo ricompenserai, Signore, con usura alla resurrezione dei giusti, come già lo ricompensasti concedendogli il loro stesso capitale.
Noi, trasferiti ormai a Roma, eravamo assenti quando, assalito nel corpo da una malattia, si fece cristiano e fedele, quindi migrò da questa vita.
Fu da parte tua un atto di misericordia non soltanto nei suoi riguardi, ma anche nei nostri, poiché sarebbe stato un tormento intollerabile ripensare all'insigne generosità dell'amico verso di noi senza poterlo annoverare nel tuo gregge.
Grazie a te, Dio nostro! Noi siamo tuoi, lo attestano le tue esortazioni e poi le tue consolazioni, perché, fedele alle promesse, tu rendi a Verecondo, in cambio della sua campagna di Cassiciaco, ove riposammo in te dalla bufera del secolo, l'amenità del tuo giardino dall'eterna primavera.
Sì, gli hai rimesso i peccati sulla terra, ponendolo sul monte pingue di cacio, il tuo monte, monte ubertoso.
Egli era dunque angosciato in quei giorni; Nebridio invece condivideva la nostra esultanza.
Era caduto anch'egli, non ancora cristiano, nella fossa di quel funestissimo errore, che gli faceva credere vuota apparenza la carne vera del tuo Figlio; tuttavia già ne emergeva e si trovava a questo punto, che, sebbene non ancora iniziato a nessuno dei sacri misteri della tua Chiesa, ricercava però la verità con grandissimo ardore.
Non molto tempo dopo la nostra conversione e rigenerazione mediante il tuo battesimo divenne anch'egli fedele cattolico, e mentre ti serviva in Africa tra i suoi familiari, che aveva tutti convertito alla fede cristiana, in una castità e continenza perfette, lo liberasti dalla carne.
Ora vive nel grembo di Abramo. Là, qualunque sia il significato di questo "grembo", il mio Nebridio vive, il dolce amico mio, ma tuo, Signore, figlio adottivo e già liberto.
Là vive: e che altro luogo sarebbe adatto a quell'anima? Vive nel luogo di cui spesso chiedeva a me, omuncolo inesperto.
Non avvicina ora più l'orecchio alla mia bocca, ma la sua bocca spirituale alla tua fonte, ove attinge la sapienza quanto può e vuole, infinitamente beato.
Non credo però che tanto se ne inebri, da scordarsi di me, poiché tu, Signore, da cui attinge, di noi ti sovvieni.
Questa era dunque la nostra condizione: da un lato consolavamo Verecondo, rattristato, senza danno per l'amicizia, di quella nostra conversione, esortandolo all'osservanza fedele dei doveri del suo stato, ossia della vita coniugale; dall'altro aspettavamo Nebridio, quando ci avrebbe seguito.
Vicino com'era, poteva farlo ed era già lì lì per farlo, quand'ecco finalmente trascorsi quei giorni, che mi rendeva così lunghi e numerosi l'amore della libertà quieta, in cui avrei cantato da ogni mia fibra: "Il mio cuore ti disse: "Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, ricercherò"".
E venne il giorno della liberazione anche materiale dalla professione di retore, da cui ero spiritualmente già libero.
Così fu: sottraesti la mia lingua da un'attività, cui avevi già sottratto il mio cuore.
Partito per la campagna con tutti i miei familiari, ti benedicevo gioioso.
L'attività letteraria da me esplicata laggiù interamente al tuo servizio, benché sbuffante ancora, come nelle pause della lotta, di alterigia scolastica, è testimoniata nei libri ricavati dalle discussioni che ebbi con i presenti, e con me solo davanti a te; mentre quelle che ebbi con Nebridio assente sono testimoniate nel mio epistolario.
E quando mi basterà il tempo per mettere in scritto tutti i tuoi grandi benefici a noi accordati in quel periodo, tanto più che ho fretta di passare ad altri, ancora maggiori?
La mia memoria mi richiama, pregusto la dolcezza di confessarti, Signore, i pungoli interiori, con cui mi domasti; il modo che usasti per spianarmi, abbassando i monti e i colli dei miei pensieri, per raddrizzare le mie vie tortuose, per addolcire le mie asperità; e quello con cui piegasti anche lui, Alipio, al nome del tuo unigenito, il signore e salvatore nostro Gesù Cristo, fino ad allora indegno ai suoi occhi di figurare nei nostri scritti.
Preferiva che olezzassero dei cedri scolastici, ormai stritolati dal Signore, anziché delle erbe ecclesiastiche, medicamentose contro i serpenti.
Quali grida, Dio mio, non lanciai verso di te leggendo i salmi di Davide, questi canti di fede, gemiti di pietà contrastanti con ogni sentimento d'orgoglio!
Novizio ancora al tuo genuino amore, catecumeno ozioso in villa col catecumeno Alipio e la madre stretta al nostre fianco, muliebre nell'aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell'amore, cristiana nella pietà, quali grida non lanciavo verso di te leggendo quei salmi, quale fuoco d'amore per te non ne attingevo!
Ardevo del desiderio di recitarli, se potessi, al mondo intero per abbattere l'orgoglio del genere umano.
Ma lo sono, cantati nel mondo intero, e nessuno si sottrae al tuo calore.
Come era violento e aspro di dolore il mio sdegno contro i manichei, che tosto si mutava in pietà per la loro ignoranza dei nostri misteri, dei nostri rimedi, per il loro pazzo furore contro un antidoto che avrebbe potuto salvarli!
Avrei voluto averli vicini da qualche parte in quel momento, e che a mia insaputa osservassero il mio volto, udissero le mie grida mentre nella quiete di quelle giornate leggevo il salmo quarto, e percepissero l'effetto che producevano in me le sue parole: Ti invocai e mi esaudisti, Dio della mia giustizia; nell'angustia mi apristi un varco.
Abbi pietà di me, Signore, esaudisci la mia preghiera; ma che udissero a mia insaputa, altrimenti avrebbero potuto intendere come dette per loro le parole che intercalavo a quelle del salmo.
Invece davvero non le avrei dette, o le avrei dette diversamente, se avessi sentite su me le loro orecchie e i loro occhi; o, se dette, non le avrebbero intese quali le dicevo a me e fra me innanzi a te, espressione dell'intimo sentimento della mia anima.
Rabbrividii di paura e insieme ribollii di speranza e giubilo nella tua misericordia, Padre; e tutti questi sentimenti si esprimevano attraverso i miei occhi e la mia voce alle parole che il tuo spirito buono dice rivolto a noi: "Figli degli uomini, fino a quando avrete i cuori gravati?
Sì, perché amate la vanità e cercate la menzogna?".
Io avevo amato appunto la vanità e cercato la menzogna, mentre tu, Signore, avevi già esaltato il tuo Santo, risuscitandolo dai morti e collocandolo alla tua destra, affinché inviasse dal cielo chi aveva promesso, il Paracleto, spirito di verità.
L'aveva già inviato, ma io lo ignoravo. L'aveva già inviato, per essere già stato esaltato risorgendo dai morti e ascendendo al cielo.
Prima lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato.
Grida il profeta: "Fino a quando avrete i cuori gravati? Sì, perché amate la vanità e cercate la menzogna?
Sappiate che il Signore ha esaltato il suo Santo"; grida: "Fino a quando", grida: "Sappiate", e io per tanto tempo, ignaro, amai la vanità e recai la menzogna.
Perciò un brivido mi corse tutto all'udirlo.
Ricordavo di essere stato simile a coloro, cui sono rivolte queste parole; gli inganni che avevo preso per verità, erano vanità e menzogna.
Perciò feci risuonare a lungo, profonde e forti, le mie grida nel dolore del ricordo.
Oh, se le avessero udite coloro che amano tuttora la vanità e cercano la menzogna!
Forse ne sarebbero rimasti turbati e l'avrebbero rigettata; tu li avresti esauditi, quando avessero levato il loro grido verso di te, poiché morì per noi della vera morte della carne Chi intercede per noi presso di te.
10 Al leggere: "Adiratevi e non peccate", quanto mi turbavo, Dio mio!
Avevo ormai imparato ad adirarmi contro me stesso dei miei trascorsi per non peccare in avvenire, e con giusta ira, perché in me non peccava per mezzo mio una natura estranea, della razza delle tenebre, secondo le asserzioni di coloro che, non adirandosi contro se stessi, accumulano un patrimonio d'ira per il giorno dell'ira e della proclamazione del tuo giusto giudizio.
Il mio bene non era più fuori di me, né lo cercavo più in questo sole con gli occhi della carne.
Quanti pretendono di avere gioia fuori di sé, facilmente si disperdono, riversandosi sulle cose visibili e temporali e lambendo la loro apparenza con immaginazione famelica.
Oh se, spossati dal digiuno, chiedessero: "Chi ci mostrerà il bene?".
Rispondiamo loro, e ci ascoltino: "In noi è impresso il lume del tuo volto, Signore".
Non siamo noi il lume che illumina ogni uomo, ma siamo illuminati da te per renderci, da tenebre che fummo un tempo, luce in te.
Oh se vedessero nel loro interno l'eterno, che io, per averlo gustato, fremevo di non poter mostrare a loro; se mi portassero il cuore, che hanno negli occhi, quindi fuori di loro, lontano da te, e chiedessero: "Chi ci mostrerà il bene?".
Là infatti, ove avevo concepito l'ira contro me stesso, dentro, nella mia stanza segreta, ove ero stato punto dalla contrizione, ove avevo immolato in sacrificio la parte vecchia di me stesso e fidando in te avevo iniziato la meditazione del mio rinnovamento, là mi avevi fatto sentire dapprima la tua dolcezza e avevi messo la gioia nel mio cuore.
Gridavo, leggendo esteriormente queste parole e comprendendole interiormente, né volevo moltiplicarmi nei beni terreni, divorando il tempo e divorato dal tempo, mentre avevo nell'eterna semplicità un diverso frumento e vino e olio.
11 Il verso seguente strappava un alto grido dal mio cuore: Oh, nella pace, oh, nell'Essere stesso…: oh, quali parole: … mi addormenterò e prenderò sonno!
Chi potrà mai resisterci, quando si attuerà la parola che fu scritta: La morte è stata assorbita nella vittoria?
Tu sei veramente quell'Essere stesso, che non muti; in te è il riposo oblioso di tutti gli affanni, poiché nessun altro è con te né si devono cogliere le altre molteplici cose che non sono ciò che tu sei; ma tu, Signore, mi hai stabilito, unificandomi nella speranza.
Leggevo e ardevo e non trovavo modo di agire con quei morti sordi, al cui novero ero appartenuto anch'io, pestifero, aspro e cieco nel latrare contro le tue Scritture dolci del dolce miele celeste, e del lume tuo luminose.
Mi consumavo, pensando ai nemici di tanto scritto.
Quando ricorderò tutti gli avvenimenti di quei giorni di vacanza?
Non li ho però dimenticati, né tacerò la durezza del tuo flagello e la mirabile prestezza della tua misericordia.
Mi torturavi allora con un male ai denti.
Quando si aggravò tanto che non riuscivo a parlare, mi sorse in cuore il pensiero d'invitare tutti i miei là presenti a scongiurarti per me, Dio d'ogni salvezza.
Lo scrissi sopra una tavoletta di cera, che consegnai loro perché leggessero, e appena piegammo le ginocchia in una supplica ardente, il dolore scomparve.
Ma quale dolore? o come scomparve? Ne fui spaventato, lo confesso, Signore mio e Dio mio, perché non mi era mai capitato nulla di simile da quando ero venuto al mondo.
S'insinuarono così nel profondo del mio essere i tuoi ammonimenti, e giulivo nella fede lodai il tuo nome.
Quella fede tuttavia non mi permetteva di essere tranquillo riguardo ai miei peccati anteriori, perché non mi erano stati ancora rimessi mediante il tuo battesimo.
Al termine delle vacanze vendemmiali avvertii i milanesi di provvedersi un altro spacciatore di parole per i loro studenti, poiché io avevo scelto di passare al tuo servizio e non ero più in grado di esercitare quella professione per la difficoltà di respirare e il male di petto.
Con una lettera informai il tuo vescovo, il santo Ambrogio, dei miei errori passati e della mia intenzione presente, chiedendogli consiglio sui tuoi libri che più mi conveniva di leggere per meglio prepararmi e dispormi a ricevere tanta grazia.
Mi prescrisse la lettura del profeta Isaia, credo perché fra tutti è quello che preannunzia più chiaramente il Vangelo e la chiamata dei gentili.
Trovandolo però incomprensibile all'inizio e supponendo che fosse tutto così, ne rinviai la lettura, per riprenderla quando fossi addestrato meglio nel linguaggio del Signore.
Giunto il momento in cui dovevo dare il mio nome per il battesimo, lasciammo la campagna e facemmo ritorno a Milano.
Alipio volle rinascere anch'egli in te con me.
Era già rivestito dell'umiltà conveniente ai tuoi sacramenti e dominava così saldamente il proprio corpo, da calpestare il suolo italico ghiacciato a piedi nudi, il che richiede un coraggio non comune.
Prendemmo con noi anche il giovane Adeodato, nato dalla mia carne e frutto del mio peccato.
Tu bene l'avevi fatto. Era appena quindicenne, e superava per intelligenza molti importanti e dotti personaggi.
Ti riconosco i tuoi doni, Signore Dio mio, creatore di tutto, abbastanza potente per dare forma alle nostre deformità; poiché di mio in quel ragazzo non avevo che il peccato, e se veniva allevato da noi nella tua disciplina, fu per tua ispirazione, non d'altri.
Ti riconosco i tuoi doni. In uno dei miei libri, intitolato Il maestro, mio figlio appunto conversa con me.
Tu sai che tutti i pensieri introdotti in quel libro dalla persona del mio interlocutore sono suoi, di quando aveva sedici anni.
Di molte altre sue doti, ancora più straordinarie, ho avuto la prova.
La sua intelligenza m'ispirava un sacro terrore; ma chi, al di fuori di te, poteva essere l'artefice di tali meraviglie?
Presto hai sottratto la sua vita alla terra, e il mio ricordo di lui è tanto più franco, in quanto non ho più nulla da temere per la sua fanciullezza, per l'adolescenza e l'intera sua vita.
Ce lo associammo, dunque, come nostro coetaneo nella tua grazia, da educare nella tua disciplina.
E fummo battezzati, e si dileguò da noi l'inquietudine della vita passata.
In quei giorni non mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi disegni sulla salute del genere umano.
Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua chiesa!
Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà.
Le lacrime che scorrevano mi facevano bene.
Non da molto tempo la Chiesa milanese aveva introdotto questa pratica consolante e incoraggiante, di cantare affratellati, all'unisono delle voci e dei cuori, con grande fervore.
Era passato un anno esatto, o non molto più, da quando Giustina, madre del giovane imperatore Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare il tuo campione Ambrogio, istigata dall'eresia in cui l'avevano sedotta gli ariani.
Vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a morire con il suo vescovo, il tuo servo.
Là mia madre, ancella tua, che per il suo zelo era in prima fila nelle veglie, viveva di preghiere.
Noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia eccitati dall'ansia attonita della città.
Fu allora, che s'incominciò a cantare inni e salmi secondo l'uso delle regioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia, innovazione che fu conservata da allora a tutt'oggi e imitata da molti, anzi ormai da quasi tutti i greggi dei tuoi fedeli nelle altre parti dell'orbe.
In quel giorni una tua rivelazione al tuo vescovo citato poc'anzi gli aveva indicato il luogo dove giacevano sepolti i corpi dei martiri Protasio e Gervasio.
Per tanti anni li avevi serbati intatti nel tesoro del tuo segreto, per estrarli al momento opportuno e domare la rabbia di una donna, regale però.
Portati alla luce ed esumati, durante il solenne trasporto alla basilica ambrosiana non solo si produssero guarigioni, riconosciute dagli stessi demòni, di persone tormentate dagli spiriti immondi; ma un cittadino notissimo in città, cieco da molti anni, a quell'agitazione festosa del popolo, chiesta e saputa la causa, balzò in piedi e si fece guidare dalla sua guida sul posto.
Là giunto, ottenne di entrare e toccare col fazzoletto la bara ove giacevano, morti di morte preziosa ai tuoi occhi, i tuoi santi.
Appena compiuto quel gesto e accostato il panno agli occhi, questi si aprirono istantaneamente.
La notizia si divulgò, salirono a te lodi fervide, fulgide, e l'animo della tua nemica, se non si volse alla salvezza della fede, soffocò per lo meno la sua folle brama di persecuzione.
Grazie a te, Dio mio! Da dove e dove guidasti il mio ricordo, affinché ti lodassi anche per questi avvenimenti, che, sebbene notevoli, avevo smemoratamente trascurato?
Eppure allora, benché tanto alitasse il profumo dei tuoi unguenti, non correvamo dietro a te.
Di qui il moltiplicarsi delle mie lacrime durante il canto dei tuoi inni.
Un tempo avevo sospirato verso di te; finalmente respiravo la poca aria che circola in una capanna d'erba.
Tu, che fai abitare in una casa i cuori unanimi, associasti alla nostra comitiva anche Evodio, un giovane nativo del nostro stesso municipio.
Agente nell'amministrazione imperiale, si era rivolto a te prima di noi, aveva ricevuto il battesimo e quindi abbandonato il servizio del secolo per porsi al tuo.
Stavamo sempre insieme e avevamo fatto il santo proposito di abitare insieme anche per l'avvenire.
In cerca anzi di un luogo ove meglio operare servendoti, prendemmo congiuntamente la via del ritorno verso l'Africa.
Senonché presso Ostia Tiberina mia madre morì.
Tralascio molti avvenimenti per la molta fretta che mi pervade.
Accogli la mia confessione e i miei ringraziamenti, Dio mio, per innumerevoli fatti, che pure taccio.
Ma non tralascerò i pensieri che partorisce la mia anima al ricordo di quella tua serva, che mi partorì con la carne a questa vita temporale e col cuore alla vita eterna.
Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata.
Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l'ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.
Più che le premure della madre per la sua educazione, ella soleva esaltare quelle di una fantesca decrepita, che aveva portato suo padre in fasce sul dorso, ove le fanciulle appena grandicelle usano portare i piccini.
Questo precedente, insieme all'età avanzata e alla condotta irreprensibile, le avevano guadagnato non poco rispetto da parte dei padroni in quella casa cristiana.
Quindi le fu affidata l'educazione delle figliuole dei padroni, cui attendeva diligentemente, energica nel punire all'occorrenza con ben ispirata severità e piena di buon senso nell'ammaestrare.
Ad esempio, fuori delle ore in cui pasteggiavano a tavola, molto parcamente, con i genitori, non le lasciava bere nemmeno l'acqua, anche se fossero riarse dalla sete.
Mirava così a prevenire una brutta abitudine e aggiungeva con saggia parola: "Ora bevete acqua, perché non disponete di vino; ma una volta sposate e divenute padrone di dispense e cantine, l'acqua vi parrà insipida, ma il vezzo di bere s'imporrà".
Con questo genere di precetti e con autorità di comando teneva a freno l'ingordigia di un'età ancora tenera e uniformava la stessa sete delle fanciulle alla regola della modestia, fino a rendere per loro nemmeno gradevole ciò che non era onorevole.
Tuttavia si era insinuato in mia madre, secondo che a me, suo figlio, la tua serva raccontava, si era insinuato il gusto del vino.
Quando i genitori, che la credevano una fanciulla sobria, la mandavano ad attingere il vino secondo l'usanza, essa, affondato il boccale dall'apertura superiore della tina, prima di versare il liquido puro nel fiaschetto, ne sorbiva un poco a fior di labbra.
Di più non riusciva senza provarne disgusto, poiché non vi era spinta minimamente dalla golosità del vino, bensì da una smania indefinibile, propria dell'età esuberante, che esplode in qualche gherminella e che solo la mano pesante degli anziani reprime di solito negli animi dei fanciulli.
Cosi, aggiungendo ogni giorno un piccolo sorso al primo, come è vero che a trascurare le piccole cose si finisce col cadere, sprofondò in quel vezzo al punto che ormai tracannava avidamente coppette quasi colme di vino puro.
Dov'era finita la sagace vecchierella, con i suoi energici divieti?
Ma quale rimedio poteva darsi contro una malattia occulta, se non la vigile presenza su di noi della tua medicina, Signore?
Assenti il padre, la madre, le nutrici, tu eri presente, il Creatore, che ci chiami, che pure attraverso le gerarchie umane operi qualche bene per la salute delle anime.
In quel caso come operasti, Dio mio? donde traesti il rimedio, donde la salute?
Non ricavasti da un'altra anima un duro e acuminato insulto, che come ferro guaritore uscito dalle tue riserve occulte troncò la cancrena con un colpo solo?
L'ancella che accompagnava abitualmente mia madre alla tina, durante il litigio, come avviene, a tu per tu con la piccola padrona, le rinfacciò il suo vizio, chiamandola con l'epiteto davvero offensivo di beona.
Fu per la fanciulla una frustata. Riconobbe l'orrore della propria consuetudine, la riprovò sull'istante e se ne spogliò.
Come gli amici corrompono con le adulazioni, così i nemici per lo più correggono con le offese, e tu non li ripaghi dell'opera che compi per mezzo loro, ma dell'intenzione che ebbero per conto loro.
La fantesca nella sua ira desiderò esasperare la piccola padrona, non guarirla, e agì mentre erano sole perché si trovavano sole dove e quando scoppiò il litigio, oppure perché non voleva rischiare di scapitarne anch'essa per aver tardato tanto a rivelare il fatto.
Ma tu, Signore, reggitore di ogni cosa in cielo e in terra, che volgi ai tuoi fini le acque profonde del torrente, il torbido ma ordinato flusso dei secoli, mediante l'insania stessa di un'anima ne risanasti un'altra.
La considerazione di questo episodio induca chiunque a non attribuire al proprio potere il ravvedimento provocato dalle sue parole in un estraneo che vuole far ravvedere.
Mia madre fu dunque allevata nella modestia e nella sobrietà, sottomessa piuttosto da te ai genitori, che dai genitori a te.
Giunta in età matura per le nozze, fu consegnata a un marito, che servì come un padrone.
Si adoperò per guadagnarlo a te, parlandogli di te attraverso le virtù di cui la facevi bella e con cui le meritavi il suo affetto rispettoso e ammirato.
Tollerò gli oltraggi al letto coniugale in modo tale, da non avere il minimo litigio per essi col marito.
Aspettava la tua misericordia, che scendendo su di lui gli desse insieme alla fede la castità.
Era del resto un uomo singolarmente affettuoso, ma altrettanto facile all'ira, e mia madre aveva imparato a non resistergli nei momenti di collera, non dico con atti, ma neppure a parole.
Coglieva invece il momento adatto, quando lo vedeva ormai rabbonito e calmo, per rendergli conto del proprio comportamento, se per caso si era turbato piuttosto a sproposito.
Molte altre signore, pur sposate a uomini più miti del suo, portavano segni di percosse che ne sfiguravano addirittura l'aspetto, e nelle conversazioni tra amiche deploravano il comportamento dei mariti.
Essa deplorava invece la loro lingua, ammonendole seriamente con quella che sembrava una facezia: dal momento, diceva, in cui si erano sentite leggere il contratto matrimoniale, avrebbero dovuto considerarlo come la sanzione della propria servitù; il ricordo di tale condizione rendeva dunque inopportuna ogni alterigia nei confronti di chi era un padrone.
Le amiche, non ignare di quanto fosse furioso il marito che sopportava, stupivano del fatto che mai si fosse udito o rilevato alcun indizio di percosse inflitte da Patrizio alla moglie, né di liti, che in casa li avessero divisi anche per un giorno solo.
Richiesta da loro in confidenza di una spiegazione, illustrava il suo metodo, che ho riferito sopra; e chi l'applicava, dopo l'esperienza gliene era grata; chi non l'applicava, sotto il giogo era tormentata.
La suocera sulle prime l'avversava per le insinuazioni di ancelle maligne.
Ma conquistò anch'essa col rispetto e la perseveranza nella pazienza e nella dolcezza, cosicché la suocera stessa denunziò al figlio le lingue delle fantesche, che mettevano male fra lei e la nuora turbando la pace domestica, e ne chiese il castigo.
Il figlio, sia per ubbidienza alla madre, sia per la tutela dell'ordine domestico, sia per la difesa della concordia fra parenti punì con le verghe le colpevoli denunziate quanto piacque alla denunziante; quest'ultima promise uguale ricompensa a qualunque altra le avesse parlato male della nuora per accaparrarsi il suo favore.
Nessuna osò più farlo e le due donne vissero in una dolce amorevolezza degna di essere menzionata.
A così devota tua serva, nel cui seno mi creasti, Dio mio, misericordia mia, avevi fatto un altro grande dono.
Tra due anime di ogni condizione, che fossero in urto e discordia, ella, se appena poteva, cercava di mettere pace.
Delle molte invettive che udiva dall'una contro l'altra, quali di solito vomita l'inimicizia turgida e indigesta, allorché l'odio mal digerito si effonde negli acidi colloqui con un'amica presente sul conto di un'amica assente, non riferiva all'interessata se non quanto potevi servire a riconciliarle.
Giudicherei questa una bontà da poco, se una triste esperienza non mi avesse mostrato turbe innumerevoli di persone, che per l'inesplicabile, orrendo contagio di un peccato molto diffuso riferiscono ai nemici adirati le parole dei nemici adirati, non solo, ma aggiungono anche parole che non furono pronunciate.
Invece per un uomo davvero umano dovrebbe essere poca cosa, se si astiene dal suscitare e rinfocolare con discorsi maliziosi le inimicizie fra gli altri uomini, senza studiarsi, anche, di estinguerle con discorsi buoni.
Mia madre faceva proprio questo istruita da te, il maestro interiore, nella scuola del cuore.
Finalmente ti guadagnò anche il marito, negli ultimi giorni ormai della sua vita temporale, e dopo la conversione non ebbe a lamentare da parte sua gli oltraggi, che prima della conversione ebbe a tollerare.
Era, poi, la serva dei tuoi servi. Chiunque di loro la conosceva, trovava in lei motivo per lodarti, onorarti e amarti grandemente, avvertendo la tua presenza nel suo cuore dalla testimonianza dei frutti di una condotta santa.
Era stata sposa di un solo uomo, aveva ripagato il suo debito ai genitori, aveva governato santamente la sua casa, aveva la testimonianza delle buone opere, aveva allevato i suoi figli partorendoli tante volte, quante li vedeva allontanarsi da te.
Infine, di tutti noi, Signore, poiché la tua munificenza permette di parlare ai tuoi servi; che, ricevuta la grazia del tuo battesimo, vivevamo già uniti in te prima del suo sonno, ebbe cura come se di tutti fosse stata la madre e ci servì come se di tutti fosse stata la figlia.
All'avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire di questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare.
Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza.
Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d'uomo.
Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta.
24 Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea, non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d'amore verso l'Essere stesso, percorremmo su su tutte le cose corporee e il cielo medesimo, onde il sole e la luna e le stelle brillano sulla terra.
E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazione, l'esaltazione, l'ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e anch'esse superammo per attingere la plaga dell'abbondanza inesauribile, ove pasci Israele in eterno col pascolo della verità, ove la vita è la Sapienza, per cui si fanno tutte le cose presenti e che furono e che saranno, mentre essa non si fa, ma tale è oggi quale fu e quale sempre sarà; o meglio, l'essere passato e l'essere futuro non sono in lei, ma solo l'essere, in quanto eterna, poiché l'essere passato e l'essere futuro non è l'eterno.
E mentre ne parlavamo e anelavamo verso di lei, la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente, e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito, per ridiscendere al suono vuoto delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine.
E cos'è simile alla tua Parola, il nostro Signore, stabile in se stesso senza vecchiaia e rinnovatore di ogni cosa?
25 Si diceva dunque: "Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell'acqua e dell'aria, tacessero i cieli, e l'anima stessa si tacesse e superasse non pensandosi, e tacessero i sogni e le rivelazioni della fantasia, ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: "Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece Chi permane eternamente".
Se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l'orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse, non più con la bocca delle cose, ma con la sua bocca, e noi non udissimo più la sua parola attraverso lingua di carne o voce d'angelo o fragore di nube o enigma di parabola, ma lui direttamente, da noi amato in queste cose, lui direttamente udissimo senza queste cose, come or ora protesi con un pensiero fulmineo cogliemmo l'eterna Sapienza stabile sopra ogni cosa, e tale condizione si prolungasse, e le altre visioni, di qualità grandemente inferiore, scomparissero, e quest'unica nel contemplarla ci rapisse e assorbisse e immergesse in gioie interiori, e dunque la vita eterna somigliasse a quel momento d'intuizione che ci fece sospirare: non sarebbe questo l' "entra nel gaudio del tuo Signore"?
E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati?"
26 Così dicevo, sebbene in modo e parole diverse.
Fu comunque, Signore, tu sai, il giorno in cui avvenne questa conversazione, e questo mondo con tutte le sue attrattive si svilì ai nostri occhi nel parlare, che mia madre disse: "Figlio mio, per quanto mi riguarda, questa vita ormai non ha più nessuna attrattiva per me.
Cosa faccio ancora qui e perché sono qui, lo ignoro. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite.
Una sola cosa c'era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire.
Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui?".
Cosa le risposi, non ricordo bene. Ma intanto, entro cinque giorni o non molto più, si mise a letto febbricitante e nel corso della malattia un giorno cadde in deliquio e perdette la conoscenza per qualche tempo.
Noi accorremmo, ma in breve riprese i sensi, ci guardò, mio fratello e me, che le stavamo accanto in piedi, e ci domandò, quasi cercando qualcosa: "Dov'ero?"; poi, vedendo il nostro afflitto stupore: "Seppellirete qui, soggiunse, vostra madre".
Io rimasi muto, frenando le lacrime; mio fratello invece pronunziò qualche parola, esprimendo l'augurio che la morte non la cogliesse in terra straniera, ma in patria, che sarebbe stata migliore fortuna.
All'udirlo, col volto divenuto ansioso gli lanciò un'occhiata severa per quei suoi pensieri, poi, fissando lo sguardo su di me, esclamò: "Vedi cosa dice", e subito dopo, rivolgendosi a entrambi: "Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena.
Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all'altare del Signore".
Espressa così come poteva a parole la sua volontà, tacque. Il male aggravandosi la faceva soffrire.
28 Io, al pensiero dei doni che spargi, Dio invisibile, nei cuori dei tuoi fedeli, e che vi fanno nascere stupende messi, gioivo e a te rendevo grazie, ricordando ciò che sapevo, ossia quanto si era sempre preoccupata e affannata per la sua sepoltura, che aveva provvista e preparata accanto al corpo del marito.
La grande concordia in cui erano vissuti le faceva desiderare, tanto l'animo umano stenta a comprendere le realtà divine, anche quest'altra felicità, e che la gente ricordasse come dopo un soggiorno di là dal mare avesse ottenuto che una polvere congiunta coprisse la polvere di entrambi i congiunti.
Quando però la piena della tua bontà avesse eliminato dal suo cuore questi pensieri futili, io non sapevo; ma ero pervaso di gioia e ammirazione che mia madre mi fosse apparsa così.
Invero anche durante la nostra conversazione presso la finestra, quando disse: "Ormai cosa faccio qui?", era apparso che non aveva il desiderio di morire in patria.
Più tardi venni anche a sapere che già parlando un giorno in mia assenza, durante la nostra dimora in Ostia, ad alcuni amici miei con fiducia materna sullo spregio della vita terrena e il vantaggio della morte, di fronte al loro stupore per la virtù di una femmina, che l'aveva ricevuta da te, e alla loro domanda, se non l'impauriva l'idea di lasciare il corpo tanto lontano dalla sua città, esclamò: "Nulla è lontano da Dio, e non c'è da temere che alla fine del mondo egli non riconosca il luogo da cui risuscitarmi".
Al nono giorno della sua malattia, nel cinquantaseiesimo anno della sua vita, trentatreesimo della mia, quell'anima credente e pia fu liberata dal corpo.
Le chiudevo gli occhi, e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime.
Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino a disseccarlo.
Fu una lotta penosissima. Il giovane Adeodato al momento dell'estremo respiro di lei era scoppiato in singhiozzi, poi, trattenuto da noi tutti, rimase zitto: allo stesso modo anche quanto vi era di puerile in me, che si scioglieva in pianto, veniva represso e zittito dalla voce adulta della mente.
Non ci sembrava davvero conveniente celebrare un funerale come quello fra lamenti, lacrime e gemiti.
Così si suole piangere in chi muore una sorta di sciagura e quasi di annientamento totale; ma la morte di mia madre non era una sciagura e non era totale, Ce lo garantivano la prova della sua vita e una fede non finta e ragioni sicure.
Ma cos'era dunque, che mi doleva dentro gravemente, se non la recente ferita, derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune?
Mi confortavo della testimonianza che mi aveva dato proprio durante la sua ultima malattia, quando, inframmezzando con una carezza i miei servigi, mi chiamava buono e mi ripeteva con grande effusione d'affetto di non aver mai udito una parola dura o offensiva al suo indirizzo scoccata dalla mia bocca; eppure, Dio mio, creatore nostro, come assomigliare, come paragonare il rispetto che avevo portato io per lei, alla servitù che aveva sopportato lei per me?
Privata della grandissima consolazione che trovava in lei, la mia anima rimaneva ferita e la mia vita, stata tutt'una con la sua, rimaneva come lacerata.
31 Soffocato dunque il pianto del fanciullo, Evodio prese il salterio e intonò un salmo.
Gli rispondeva tutta la casa: "La tua misericordia e la tua giustizia ti canterò, Signore".
Alla nuova, poi, dell'accaduto, si diedero convegno molti fratelli e pie donne; e mentre gli incaricati si occupavano dei funerali secondo le usanze, io mi appartavo in un luogo conveniente con gli amici, che ritenevano di non dovermi abbandonare, e mi trattenevo con loro su temi adatti alla circostanza.
Il balsamo della verità leniva un tormento che tu conoscevi, essi ignoravano.
Ne ascoltavano attentamente e pensavano che non provassi dolore.
Invece al tuo orecchio, ove nessuno di loro udiva, mi rimproveravo la debolezza del sentimento e trattenevo il fiotto dell'afflizione, che per qualche tempo si ritraeva davanti ai miei sforzi, ma per essere sospinto di nuovo dalla sua violenza.
Non erompeva in lacrime né alterava i tratti del viso, ma sapevo ben io cosa tenevo compresso nel cuore.
Il vivo disappunto, poi, che provavo di fronte al grande potere su me di questi avvenimenti umani, inevitabili nell'ordine naturale delle cose e nella condizione che abbiamo sortito, era un nuovo dolore, che mi addolorava per il mio dolore, cosicché mi consumavo d'una duplice tristezza.
Alla sepoltura del suo corpo andai e tornai senza piangere.
Nemmeno durante le preghiere che spandemmo innanzi a te mentre veniva offerto in suo suffragio il sacrificio del nostro riscatto, col cadavere già deposto vicino alla tomba, prima della sepoltura, come vuole l'usanza del luogo, ebbene, nemmeno durante quelle preghiere piansi.
Ma per tutta la giornata sentii una profonda mestizia nel segreto del cuore e ti pregai come potevo, con la mente sconvolta, di guarire il mio dolore.
Non mi esaudisti, per imprimere, credo, nella mia memoria almeno con quest'unica prova come sia forte il legame di qualsiasi abitudine anche per un'anima che già si nutre della parola non fallace.
Pensai di andare a prendere anche un bagno, avendo sentito dire che i bagni furono così chiamati perché i greci dicono balanion, in quanto espelle l'affanno dall'animo.
Ma ecco, confesso anche questo alla tua misericordia, Padre degli orfani: che dopo il bagno stavo come prima del bagno, poiché non avevo trasudato dal cuore l'amarezza dell'afflizione.
In seguito dormii. Al risveglio notai che il dolore si era non poco mitigato, Solo, nel mio letto, mi vennero alla mente i versi così veri del tuo Ambrogio:
tu sei proprio Dio creatore di tutto, reggitore del cielo, che adorni il dì di luce, e di sopor gradito la notte, sì che il sonno sciolga e ristori gli arti, ricrei le menti stanche, disperda ansie e dolori.
Poi tornai insensibilmente ai miei pensieri antichi sulla tua ancella, al suo atteggiamento pio nei tuoi riguardi, santamente sollecito e discreto nei nostri.
Privato di lei così, all'improvviso, mi prese il desiderio di piangere davanti ai tuoi occhi su di lei e per lei, su di me e per me; lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio, su cui trovò riposo.
Perché ad ascoltarle c'eri tu, non un qualsiasi uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio compianto.
Ora, Signore, ti confesso tutto ciò su queste pagine. Chi vorrà le leggerà, e le interpreti come vorrà.
Se troverà che ho peccato a piangere mia madre per piccola parte di un'ora, la mia madre frattanto morta ai miei occhi, che per tanti anni mi aveva pianto affinché vivessi ai tuoi, non mi derida.
Piuttosto, se ha grande carità, pianga anch'egli per i miei peccati davanti a te, Padre di tutti i fratelli del tuo Cristo.
Io per mio conto, ora che il cuore è guarito da quella ferita, ove si poteva condannare la presenza di un affetto carnale, spargo davanti a te, Dio nostro, per quella tua serva un ben altro genere di lacrime: sgorgano da uno spirito sconvolto dalla considerazione dei pericoli cui soggiace ogni anima morente in Adamo.
Certo, vivificata in Cristo prima ancora di essere sciolta dalla carne, mia madre visse procurando con la sua fede e i suoi costumi lodi al tuo nome; tuttavia non ardisco affermare che da quando la rigenerasti col battesimo, nemmeno una parola uscì dalla sua bocca contro il tuo precetto.
Dalla Verità, da tuo Figlio, fu proclamato: "Se qualcuno avrà detto a suo fratello "Sciocco", sarà soggetto al fuoco della geenna"; sventurata dunque la più lodevole delle vite umane, se la frughi accantonando la misericordia.
Ma no, tu non frughi le nostre malefatte con rigore; perciò noi speriamo con fiducia di ottenere un posto accanto a te.
Eppure chi aduna innanzi a te i suoi autentici meriti, che altro ti aduna, se non i tuoi doni?
Oh, se gli uomini si conoscessero quali uomini, e chi si gloria, si gloriasse nel Signore!
Perciò, mio vanto e mia vita, Dio del mio cuore, trascurando per un istante le sue buone opere, di cui a te rendo grazie con gioia, ora ti scongiuro per i peccati di mia madre.
Esaudiscimi in nome di Colui che è medico delle nostre ferite, che fu sospeso al legno della croce, e seduto alla tua destra intercede per noi presso di te.
So che fu misericordiosa in ogni suo atto, che rimise di cuore i debiti ai propri debitori: dunque rimetti anche tu a lei i propri debiti, se mai ne contrasse in tanti anni passati dopo ricevuta l'acqua risanatrice; rimettili, Signore, rimettili, t'imploro, non entrare in giudizio contro di lei.
La misericordia trionfi sulla giustizia.
Le tue parole sono veritiere, e tu hai promesso misericordia ai misericordiosi.
Furono tali in grazia tua, e tu avrai misericordia di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso.
36 Credo che tu abbia già fatto quanto ti chiedo.
Pure, gradisci, Signore, la volontaria offerta della mia bocca.
All'approssimarsi del giorno della sua liberazione, mia madre non si preoccupò che il suo corpo venisse composto in vesti suntuose o imbalsamato con aromi, non cercò un monumento eletto, non si curò di avere sepoltura in patria.
Non furono queste le disposizioni che ci lasciò.
Ci chiese soltanto di far menzione di lei davanti al tuo altare, cui aveva servito infallibilmente ogni giorno, conscia che di là si dispensa la vittima santa, grazie alla quale fu distrutto il documento che era contro di noi, e si trionfò sul nemico che, per quanto conteggi i nostri delitti e cerchi accuse da opporci, nulla trova in Colui, nel quale siamo vittoriosi.
A lui chi rifonderà il sangue innocente? chi gli ripagherà il prezzo con cui ci acquistò, per toglierci a lui?
Al mistero di questo prezzo del nostro riscatto la tua ancella legò la propria anima col vincolo della fede. Nessuno la strappi alla tua protezione, non si frapponga tra voi né con la forza né con l'astuzia il leone e dragone.
Ella non risponderà: "Nulla devo", per timore di essere confutata e assegnata a un inquisitore scaltro. Risponderà però che i suoi debiti le furono rimessi da Colui, cui nessuno potrà restituire quanto restituì per noi senza nulla dovere.
Sia dunque in pace col suo uomo, prima del quale e dopo il quale non fu sposa d'altri; che servì offrendoti il frutto della sua pazienza per guadagnare anche lui a te.
Ispira, Signore mio e Dio mio, ispira i servi tuoi, i fratelli miei i figli tuoi, i padroni miei, che servo col cuore e la voce e gli scritti, affinché quanti leggono queste parole si ricordino davanti al tuo altare di Monica, tua serva, e di Patrizio, già suo marito, mediante la cui carne mi introducesti in questa vita, non so come.
Si ricordino con sentimento pietoso di coloro che in questa luce passeggera furono miei genitori, e miei fratelli sotto di te, nostro Padre, dentro la Chiesa cattolica, nostra madre, e miei concittadini nella Gerusalemme eterna, cui sospira il tuo popolo durante il suo pellegrinaggio dalla partenza al ritorno.
Così l'estrema invocazione che mi rivolse mia madre sarà soddisfatta, con le orazioni0 di molti, più abbondantemente dalle mie confessioni che dalle mie orazioni.
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