Attualità e significato profetico della Carità applicata … |
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( Stralci dalla conferenza di mons. Giuseppe Pollano del 10 settembre 1996 agli insegnanti della Casa della Carità )
I termini « Carità » e « Arti e Mestieri » non sono, intuitivamente, molto vicini.
Anzi, rappresentano come due mondi diversi.
Ma se la carità è la dimensione essenziale della vita, allora bisogna legarla in qualche modo al vasto e possente universo della tecnica, cioè alle arti e mestieri.
L'origine storica delle arti come componente sociale risale al milleduecento, quando si formarono le corporazioni di lavoratori, le « Arti » appunto, che costituirono il nuovo tessuto socio-economico di un'Europa che si stava lentamente formando.
Tali corporazioni erano intrise di religiosità: accanto ai mestieri c'era sempre una confraternita, cioè la corporazione era sempre ed anche un'organizzazione religiosa; insieme alla tecnica vi era la preoccupazione etica.
A partire dall'epoca moderna, però, l' « homo faber », che usa l'intelligenza per fabbricare, trionfa sull' « homo sapiens », l'intellettuale puro.
L' « homo faber » ha una drastica riduzione del suo orizzonte, che limita e finisce per escludere la religiosità, o anche solo la trascendenza.
Prandstraller, sociologo non credente, con la sua formula « l'intellettuale tecnico », afferma che l'unico uso utile, saggio, non dispersivo che l'uomo d'oggi può fare della propria intelligenza è quello di affrontare problemi risolvibili dal punto di vista tecnico.
Così diventa inutile porsi le domande « perché esisto? » e « dove vado? », nel presupposto che esse non abbiano risposta.
L'intellettuale pertanto non è più un metafisico: si applica a ciò che è risolvibile a livello pratico.
La tecnica, cioè l'intelligenza, non è più speculativa, ma diventa strumentale.
« Sotto questo profilo - dice Prandstraller - la tecnica rappresenta lo sbocco logico di una civiltà che ha dovuto ancorarsi, e rivalutare, la contingenza e farne il centro del proprio interesse vitale in difetto di altre acquisizioni stabili sufficientemente persuasive ».
La tecnica colma il vuoto lasciato dalla scomparsa della trascendenza.
Tra i giovani circolano queste idee.
Forse non idolatrano la tecnica, ma inconsciamente la ritengono, in sostanza, l'unica intelligenza.
Anche se poi non si rinuncia ad un respiro religioso, sconfinandosi spesso nell'occulto, nel paranormale, nello pseudo-religioso, in questo vasto mondo di nebulosa religiosa che oggi è molto diffuso e che, anche tra i giovani, va prendendo piede.
La seconda, più grave, perdita di innocenza da parte della tecnica è data dal perseguimento della volontà di potenza.
Infatti, anche se abbiamo perso il senso della trascendenza, desideriamo ancora vivere e affermarci e, in qualche modo, « giocare a fare il dio », sia pure con la « d » minuscola.
La volontà di potenza e di affermazione si serve della tecnica per i suoi successi.
Va al di là dell'utilità del prodotto, produce come se la produzione fosse il monumento della propria gloria.
Di fronte ad ogni possibilità di scoperta o di nuova realizzazione, lo scopritore o il tecnico dovrebbero considerare, oltre al problema pratico ( « è possibile? » ), quello che si chiama il principio etico, cioè chiedersi anche se l'invenzione sia lecita.
Einstein, per fare l'esempio più famoso, rifiutò per motivi etici di costruire la bomba atomica.
Oggi, invece, fra molti ricercatori e tecnici applicati, regna un'equivalenza molto pericolosa: « si può », dal punto di vista tecnico, dunque « si può », dal punto di vista etico.
Già questa equazione è disastrosa, ma ultimamente ne è comparsa una ancora più avanzata: « si può, dunque si deve ».
Cioè, se non si sente il dovere umano di realizzare tutto ciò che si sa, di provare tutto ciò che si può, si è considerati dei pusillanimi, degli uomini scientificamente vili!
In qualsiasi laboratorio o azienda dove si produca con questo criterio, al singolo non è permesso avere problemi di coscienza: « non si può bloccare la scienza per uno stupido scrupolo ».
E quello che si chiamo lo spirito prometeico dell'uomo, il bisogno di affermarsi a tutti i costi, il « tirare giù il cielo ».
Vediamo di fatto che « l'homo faber » non solo sfiora, ma entra in quella che possiamo chiamare la delittuosità della tecnica.
Un esempio eclatante: da un rapporto dell' UNICEF risulta che nelle guerre degli ultimi dieci anni, e sono più di cento, due milioni di bambini sono stati uccisi, e dai quattro ai cinque milioni sono stati mutilati, soprattutto a causa delle mine antiuomo.
Sono sepolte sulla faccia della Terra cinquecento milioni di mine, studiate e costruite per esplodere alla semplice pressione di un piede o di una mano, e non sono scoppiate tutte ( l'Italia è tra le nazioni che costruiscono mine antiuomo ).
Un particolare agghiacciante: un metodo: in un recente conflitto per sgombrare il territorio dalle mine era quello di mandare avanti ondate di ragazzi.
E chiaro che in questo caso l' « Homo faber » è delittuoso.
Certo, è possibile individuare ragioni pratiche e politiche per costruire questi ordigni, ma sono queste ragioni?
Ecco perché le Arti e Mestieri, anche vissuti in modo corretto ed ineccepibile, hanno perduto la loro innocenza.
Rendersene conto serenamente, vedere il bene ma cogliere le minacce e sottolinearle con i giovani, è il meno che si possa fare come docenti ed educatori.
Mons. Pollano parla agli insegnanti della Casa di Carità
Se intendiamo la carità da correlare con la tecnica come elemosina, essa non ha alcuna rilevanza, pur senza sottovalutare la dignità ed il valore dell'elemosina come soccorso a chi è nel bisogno.
Se il significato attribuito a carità è quello di buon rapporto fra persone, il riflesso sul piano della tecnica, e perciò nell'apprendimento e nella formazione professionale, è parimenti nullo, o per lo meno insufficiente.
Certo l'ambiente gioca un ruolo di rilievo nell'approccio e nell'impostazione dei problemi della ricerca, del progresso e della tecnologia, ma non coglie il nocciolo della questione.
Viceversa se consideriamo la carità come volontà di dare un'anima culturale di benevolenza concreta ai nostri progetti civili, allora essa riveste un ruolo determinante.
Rileviamo come nella volontà di dare un'anima culturale di benevolenza, non sia solo più l'individuo a preoccuparsi di essere uomo o donna caritatevole, ma emerga un'esigenza intrinseca alla cultura per interpellarci all'impegno.
L'aspetto poi che riguardi progetti civili significa che occorre pensare la carità in grande, e con delle categorie di carattere storico.
Questa è la sfida di oggi per i cristiani.
Dalla nostra testimonianza e dal nostro impegno dipende se la storia potrà di nuovo avere un'anima, diversamente da come avviene oggi.
Gesù Cristo ha impostato la carità come un nuovo rapporto con l'altro: un rapporto di benevolenza, che esclude non solo il malanimo, ma anche l'indifferenza.
Non basta non odiare nessuno.
E non basta preoccuparsi del proprio piccolo mondo vitale, egoisticamente fatto delle quattro o cinque o dieci persone a cui si vuole bene.
La benevolenza è soltanto attiva, e non va mai confusa con la sentimentalità: tutti sono capaci ad avere dei buoni sentimenti.
Ricordiamo qui la celeberrima parabola del « samaritano » ( Lc 10,30-37 ), per desumere alcune osservazioni.
In essa non vi è un esplicito riferimento a Dio, e neanche al Regno.
Gesù si tiene fermo sulla domanda: « chi è il mio prossimo? », e la capovolge: « sei tu il prossimo degli altri ».
Da questo insegnamento possiamo ricavare che la carità è per se stessa annuncio e ricerca di Dio.
Da parte laica abbiamo testimonianze molto vicine.
Così Pintor, il fondatore del Manifesto, dice: « non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi ».
Egli ha sempre creduto in una dimensione sociale dell'esistenza; la sua conclusione dunque non è privatistica ed è scoperta di un gesto essenziale: la carità.
La grande domanda è: Può un sistema simile diventare un sistema sociale?
L'insegnante, come colui che passa una mentalità, deve dire ai giovani un no esplosivo e forte a quella che abbiamo chiamato ragione strumentale: l'intelligenza non va applicata soltanto alla ricerca di prodotti sempre migliori, a tutti i costi; è un discorso di coerenza.
Ma il docente deve dire un sì altrettanto esplosivo ad una tecnica intesa non soltanto come scientifica, ma « umanizzante »; dire sì ad un'azione sociale che liberi il lavoro non più solo dal metodo anti-umano, ma ormai anche dal prodotto anti-umano.
Questa è una rivoluzione della carità.
Bisogna aiutare i giovani a mettere insieme tecnica e uomo, tecnica ed umanesimo, tecnica ed etica, non solo tecnica e benessere.
Gesù non ha mai prodotto denaro, non ha mai reso nessuno più ricco con la sua onnipotenza.
Dunque è possibile imbrigliare il potere con un potere più grande che è il potere della carità.
L'impegno degli insegnanti è dentro questo orizzonte.
E bello sapere che esistono degli uomini che pensano queste cose, che hanno la capacità di comunicarle e che sanno come ricreare un'anima in mezzo a giovani sovente spaesati e condizionati.
Se questi uomini portano avanti questo impegno, aiutando i giovani, la carità si rimotiva, diventa antropologica, umana, storica.
È la sfida a cui dobbiamo rispondere.
E la Casa di Carità Arti e Mestieri ha un suo contributo specifico da apportare in questa missione, per la proposta che scaturisce dalla sua ragion d'essere, sin dalla stessa denominazione.
Giuseppe Pollano
( Stralci dal testo ricavato dalla conferenza, non rivisto dall'Autore )