Convegno ecclesiale di Verona |
17 ottobre 2006
In un contesto così importante e solenne come quello odierno - il 4° Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa cattolica - che si svolge ogni dieci anni, memore ancora del Convegno di Palermo cui partecipai su invito del Card. Carlo Maria Martini, è per me, certo, fonte di emozione essere presente oggi di nuovo qui, per portarvi il mio saluto amichevole anche a nome dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia, che ho l'onore di presiedere; ma è anche per me motivo di una qualche difficoltà, stante il titolo di questo Convegno, incentrato sulla figura di Gesù, che appartiene sì per nascita, per educazione e, almeno in parte, per la sua predicazione, al popolo di Israele, ma la cui figura è divenuta nel corso dei secoli motivo e simbolo di divisione, di contrapposizione e di odio fra di noi.
Il titolo, però, del Convegno si completa e si apre verso anche un altro elemento di riflessione: quello della speranza.
Permettetemi, al riguardo, di leggere con voi un verso di Geremia ( Ger 29,11 ), applicando però a esso un taglio esegetico di tipo midrashico, che non tiene, cioè, rigorosamente conto del contesto in cui è inserito e a cui fa riferimento.
Ecco il verso: « Poiché io sono consapevole dei pensieri che nutro per voi - dice l'Eterno: pensieri di pace e non di sventura, per potervi dare un futuro di speranza ».
Credo, anzi sento, che questo futuro di speranza, che ci viene annunciato e che accompagna ebrei e cristiani in un percorso comune non chiaro, non convergente, contraddittorio e misterioso, diventerà sempre di più una condizione che ci consentirà e, talvolta, ci spingerà a vivere vicini, ad agire insieme, a stare insieme, superando il senso di contraddizione con la consapevolezza ( indotta, appunto, dalla speranza, che, in questo caso, finisce per identificarsi con la fede ) che ci troviamo al centro di un disegno provvidenziale, che ci coinvolge e ci comprende entrambi.
Vorrei concludere con un altro verso dei Profeti, questa volta di Zaccaria ( Zc 9,12 ), quello Zaccaria che, con le sue visioni, si proietta sull'Acharith ha-Yamim cioè molto oltre il presente, guardando lontano negli anfratti più profondi e nascosti del futuro, ove ciò che è per noi oggi « storto » potrà divenire « diritto », ove il cuore dei padri si rincontrerà con quello dei figli e viceversa, e ciò al di là e nonostante le previsioni contrarie dell'oggi.
Eccone le parole: « Tornate al vostro rifugio, o prigionieri della speranza: un altro lieto annuncio sto per darvi ».
Si colgono nel verso di Zaccaria due espressioni importanti: prigionieri della speranza e un altro lieto annuncio sto per darvi.
Consentitemi di attualizzarle e di interpretarle come riferite anche a noi e voi insieme, ebrei e cristiani, talmente prigionieri, avvinti e dipendenti dalla speranza, da non potersene più liberare, qualunque cosa accada.
È la nostra condizione, una condizione di « prigionia », vissuta, però, non con senso di angoscia, di dolore e di limitazione, ma con sentimento di sollievo, di serenità, di arricchimento spirituale, di speranza, appunto.
Il mio augurio sincero che, nel corso dei vostri lavori e anche oltre, possiate continuare ad avvertire questa condizione di « prigionia », che rende liberi.
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