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Quando si legge la storia della passione di Gesù, si è spesso tentati di prendere un particolare dal racconto di Matteo, uno da Marco, da Luca e da Giovanni, pensando così di poter avere tra le mani un quadro più completo dei fatti narrati.
Procedendo in questo modo, si ottiene un racconto più lungo, solo materialmente più ricco.
In realtà, ogni evangelista si è preoccupato più del significato religioso che della nuda materialità dei fatti.
Il messaggio ( il Vangelo ) offertoci da ognuno degli autori ispirati è a noi accessibile solo se teniamo presenti le loro diverse prospettive.
Nell'accostarci alla passione di Gesù, non resta pertanto che affidarci alla sapiente pedagogia della Chiesa, che da duemila anni ci invita a leggere il racconto della passione seguendo distintamente ognuna delle quattro redazioni evangeliche.
Giotto, L'ingresso a Gerusalemme
Proviamo a seguire il filo del racconto di Marco ( Mc 14,32-15,41 ).
Questo episodio può essere definito come "la passione interiore" del Messia, dove ci è rivelato ciò che egli ha provato nel suo animo.
La scena è di una intensità drammatica: Gesù è spaventato e disorientato, barcolla sfinito e cade più volte al suolo.
Mentre i racconti paralleli di Matteo e di Luca addolciscono la brutalità del momento, presentandoci Gesù in atteggiamento di adorazione, prostrato con la faccia a terra ( Mt 26,39 ) o in ginocchio ( Lc 22,41 ), Marco, con dure espressioni, accentua il contrasto del mistero di Cristo: Figlio di Dio, eppure abbandonato alla sofferenza.
L'ora è giunta: Gesù vorrebbe vederla passare senza dover assaporare il calice amaro del dolore, ma si rimette alla volontà del Padre.
Rivolgendosi a lui con estrema confidenza, lo chiama "Abbà", un termine che solo Marco, tra gli evangelisti, ci riporta nell'originale aramaico e che veniva usato nel linguaggio familiare da bambini e adulti per rivolgersi al padre terreno: "papà".
Abbandonato dai discepoli, in particolare da Simone, Gesù supera la prova e, con fiducia rinnovata nel suo Dio-Abbà, va incontro al traditore.
P. Gauguin, Cristo nell'Orto degli Ulivi
Anche in questo brano Marco ci presenta i fatti in modo scarno, con estrema sobrietà.
Dietro le frasi si sente quasi il ritmo incalzante degli eventi: "E subito arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni".
Giuda bacia Gesù: è il segnale. Gesù viene preso.
Non dice nulla a Giuda, come pure rimane per lo più silenzioso per tutta la vicenda.
Questo silenzio di Gesù è altrove esplicitamente rimarcato dall'evangelista ( Mc 14,61; Mc 15,5 ); nel resto del racconto Gesù parlerà solo tre volte: alle guardie, al sommo sacerdote, a Pilato ( Mc 14,48-49.62; Mc 15,2 ).
L'ultima parola sarà il grido al Padre ( Mc 15,34 ).
La narrazione dell'evangelista è attraversata da forti contrasti:
l'istruttoria, tesa a stabilire la colpevolezza dell'imputato, rivela la mancanza di obiettività nel processo;
Gesù viene giudicato e condannato, ma in realtà sarà lui a giudicare gli uomini nel regno di Dio;
mentre confessa coraggiosamente di essere il Messia, viene malmenato e trattato come un profeta da burla, e il più ardente dei discepoli lo rinnega.
Beato Angelico, Cristo deriso
Sotto l'amministrazione romana, il sinedrio, supremo tribunale giudaico, aveva il potere di trattare le cause capitali, ma non di eseguire la sentenza.
Solo il procuratore poteva farlo.
Finora a Gesù sono state mosse solo accuse di ordine religioso: opposizione al tempio, pretesa di rivestire il ruolo di giudice universale riservato solo a Dio.
Ora, davanti a Pilato, le autorità giudaiche presentano Gesù come il pretendente al titolo di re dei Giudei, cioè come uno dei tanti rivoluzionari che miravano a scatenare la lotta di liberazione dai romani.
Al centro del processo sta la regalità di Gesù.
Il "re dei Giudei", - un titolo che in Marco incontriamo soltanto qui e sulla croce ( Mc 15,26 ) - è rifiutato dalla folla, sobillata dai capi dei sacerdoti, che gli preferisce un omicida, mentre è trattato dai Romani come un re da commedia.
Ma per i credenti, che riconoscono nel Nazareno, percosso e schernito, il servo umile del Signore cantato da Isaia ( Is 50,6 ), è lui il vero re del mondo.
Il dramma della croce viene scandito in tre tempi, secondo le tre ore della preghiera giudaica: le nove, mezzogiorno, le tre del pomeriggio.
Anche sulla croce Gesù prega e invoca il Padre, ma tutto sembra accentuare l'impressione della sua solitudine: egli è nel più totale abbandono.
Le sue pretese risultano completamente smentite: come fa a dichiararsi capace di edificare un nuovo tempio e a presentarsi come Messia, se ora non riesce a salvare se stesso dalla morte imminente?
Le tenebre si fanno più dense; viene il giorno del Signore, annunciato dai profeti ( Am 8,9; Gl 2,10 ), ma non è il giorno della liberazione e della vittoria.
Per Gesù è l'ora della fine.
Ma proprio nel momento del buio più fitto si squarcia finalmente il mistero della sua straordinaria vicenda: dalle tenebre scaturisce la luce.
Quella che sembrava la disfatta più completa, si rivela come l'inizio di una storia nuova.
La testimoniano i due segni presentati dall'evangelista.
Il primo è quello del velo del tempio: si tratta della tenda del santuario, che segnava l'ultima barriera di fronte al "santo dei santi", la parte più intima del tempio, dove poteva entrare solo il sommo sacerdote una volta all'anno, nel giorno dell'Espiazione.
Questo velo è lacerato: ormai, con la morte di Gesù, l'accesso a Dio è aperto a tutti, anche ai pagani, come risulta dal secondo segno, quello della professione di fede del centurione romano.
L'ufficiale avrebbe avuto più di altri motivo di scandalizzarsi della morte di questo re dei Giudei; in realtà egli è il primo a riconoscere nel crocifisso il "Figlio di Dio", e questo proprio perché lo ha visto morire "in quel modo".
Proprio perché ha rifiutato di salvare se stesso, Gesù ha salvato tutti.
Con questa professione di fede siamo già orientati alla scoperta del mattino di Pasqua: la storia di Gesù non resta chiusa nel sepolcro scavato nella roccia, ma è aperta sulla nostra storia.
Perugino, Pietà
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