Venite e vedrete |
CCC nn. 1730-1748; 1776-1802 CdA nn. 846-851; 892-901 CdG1 pp. 206-214
Nella tradizione d'Israele, del Nuovo Testamento e della Chiesa la vita teologale del Cristiano si è Concretizzata in proposte e leggi, in precisi quadri di riferimento: i dieci Comandamenti, le beatitudini, le opere di misericordia, le virtù, le varie forme di vita spirituale.
Ma tutte queste indicazioni, anche quelle chiare e precise, non eliminano la fatica del discernimento.
Certo, Cristo è la norma vivente, il modello concreto di vita a cui dobbiamo ispirare tutto il nostro impegno.
Ma questo non significa che dalle parole e dagli eventi della sua vita si possano dedurre, in modo immediato e diretto, le concrete risposte per le situazioni sempre diverse e irripetibili, nelle quali siamo chiamati a scegliere e ad agire.
Qual è il discrimine preciso tra il bene e il male nella situazione particolare in cui mi trovo?
Che cosa vuole Dio da me qui e ora?
Quali atteggiamenti interiori, comportamenti, scelte e azioni particolari esprimono oppure rinnegano, in concreto, la necessaria coerenza tra la mia vita e la mia fede?
Tutto si riassume certamente nel comandamento dell'amore, il primo e il più grande di tutti ( Mt 22,38 ), ma qual è la migliore traduzione dell'amore evangelico nella mia particolare situazione?
Domande come queste risuonano spesso dentro ciascuno di noi.
E la risposta non è sempre facile.
La fede non ci mette al riparo dall'incertezza e dal dubbio, dalla fatica di cercare dentro il groviglio delle circostanze mutevoli della vita il bene concreto da compiere e il male da evitare; ci dà però la fiducia che è possibile conoscere e compiere il bene, poiché non siamo soli, soltanto con le nostre capacità umane.
Quest'opera di discernimento sul bene e sul male, l'interrogativo circa ciò che dobbiamo fare e la valutazione di ciò che abbiamo fatto, si svolge nell'intimo di noi stessi, in un luogo che non è soltanto una facoltà psicologica, ma lo spazio sacro dell'incontro personale con la parola e la grazia di Dio: la coscienza.
Per coscienza morale si intende sia la percezione interiore della verità del bene e delle sue esigenze pratiche, sia la capacità di discernere nel concreto della situazione la soluzione più giusta delle possibili alternative morali che essa presenta, sia l'appello interiore al bene che risuona dentro di noi e dà al discernimento morale un carattere particolare e misterioso di imperatività.
Troviamo un'autorevole descrizione della coscienza in un testo del Concilio Vaticano II: "La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria.
Tramite la coscienza, si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo" ( Gaudium et spes, 16 ).
La verità morale non si offre sempre al primo sguardo.
Spesso è necessaria una ricerca che comporta riflessione, confronto, calcolo.
Alcune scelte, particolarmente decisive, chiedono all'intelligenza umana di impegnarsi con tutte le sue risorse nella ricerca, leale e disinteressata, della volontà di Dio, in una particolare situazione.
Attingiamo anche alle nostre capacità di amare e alla buona volontà di mettere in pratica ciò che abbiamo scelto.
Deve trattarsi di un'intelligenza piena di amore, perché la verità morale si lascia trovare solo se amata e spesso domanda di essere realizzata anche con coraggio e sacrificio.
Di fronte alla verità morale la coscienza non è legislatrice né padrona.
Non inventa la verità, ma la ricerca con diligenza e, quando la trova, la riconosce con umiltà e la serve con rettitudine.
La coscienza è anzitutto luogo di ascolto di Dio.
Egli, che è "più intimo a noi di noi stessi" ( Sant'Agostino, Confessioni, III, 6, 11 ), vuole il nostro bene e ci conosce più di quanto noi ci conosciamo.
Questo atteggiamento umile di ascolto non esclude che la coscienza, nella ricerca di ciò che è bene, assuma anche compiti creativi.
Fare il bene non si limita mai a una semplice applicazione della legge generale al caso particolare.
Al credente non basta aver soltanto evitato il male o aver fatto il minimo necessario di bene.
Adempiere la legge dell'amore è ben più che osservare un precetto.
Per questo il credente attinge, nella propria coscienza, anche a una sorta di creatività simile a quella dell'artista, che fa della sua opera qualcosa di unico e di originale.
La coscienza non è infallibile nel discernimento morale.
Ciononostante quando in essa si esprime la sincera, disinteressata ricerca del bene e una coerente disponibilità alla verità, obbedire all'imperativo della coscienza è obbedire a Dio.
Nessuno può sostituire la mia coscienza.
Nessuno può vivere e decidere per me.
Tuttavia la coscienza non va abbandonata a se stessa.
Proprio perché essa è chiamata a riconoscere la verità, non a piegarla ai propri interessi, ha bisogno di lasciarsi guidare dalla parola di Dio, dall'insegnamento vivo della Chiesa e anche dalle norme più autentiche di saggezza morale umana.
"Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale" ( Gaudium et spes, 16 ).
Se è vero che alla coscienza spetta comunque l'ultima parola, della quale risponderà davanti a Dio, resta anche vero che nulla la potrà esimere da un confronto, umanamente onesto e pieno di fede, con tutte le forme del magistero morale.
La retta coscienza si lascia sempre interpellare.
Come l'intelligenza, come la volontà, come il corpo stesso, anche la coscienza, perché maturi nella rettitudine e affini le proprie capacità di discernimento, è necessario che sia educata e allenata.
Cristiani maturi non si diventa per anzianità, ma per fedeltà operosa a se stessi e alla parola di Dio.
Come un artista ascolta spesso della buona musica se vuol essere musicista, studia le opere dei grandi maestri del pennello se vuol essere pittore, così il credente si confronta frequentemente con la parola di Dio, con l'insegnamento della Chiesa e con i fratelli nella comunità se vuol crescere come discepolo di Gesù.
Può farsi aiutare da una guida spirituale, che lo accompagni nel discernere e nell'affinare le proprie capacità di giudizio.
Infine, ma non da meno, non perderà occasione per praticare il bene intuito.
Ogni volta che ci comportiamo secondo carità, secondo il vangelo, rendiamo più facile e più spontaneo comportarci secondo carità la volta successiva.
La tradizione cristiana parla di "virtù", cioè di un orientamento costante, uno stile nell'agire che diventa perfino un tratto della personalità.
Le virtù sono forze vivaci della nostra coscienza.
C'è modo e modo di intendere la libertà.
La coscienza cristiana è libera di quella libertà per la quale "Cristo ci ha liberati" ( Gal 5,1 ).
La libertà evangelica conduce ben oltre una libertà intesa come esaltazione dell'istinto, dell'immediato, proprio perché fa appello all'uomo intero, che vive di emozioni, ma anche di intelligenza e volontà, capace di orientare se stesso.
Per il vangelo, la libertà non si realizza abbandonandosi a ciò che è istintivo, ma nemmeno pretendendo di essere completamente padroni di sé e della propria vita.
Il vangelo ci insegna il paradosso per il quale l'uomo trova la propria libertà "consegnandosi", non lasciandosi andare; facendo della propria vita un dono, non un possesso.
Gesù dice: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" ( Gv 8,32 ).
Nel linguaggio biblico "conoscere e molto più del semplice sapere.
Conoscere la verità significa accoglierla dentro di sé, radicarla nella propria persona, sperimentarla e farla.
La verità non è solo da conoscere ma da fare ( Gv 3,21 ).
La libertà è il frutto o, meglio, il dono di un'appassionata accoglienza della verità: un'accoglienza nella vita, non nelle sole idee o nelle sole parole.
La verità di Dio su di noi libera da tutte le idolatrie; da quanti vorrebbero essere signori della nostra vita, mentre uno solo è il Signore e Maestro, il Cristo ( Mt 23,10 ); dai falsi: "Tu devi…", che le mode o le opinioni comuni tentano di imporre.
Nell'esperienza stessa di Gesù scorgiamo al vivo la tensione fra obbedienza e libertà ( Mt 26,39 ).
Facendo la volontà del Padre, Gesù manifesta di essere il Figlio.
In lui anche noi siamo stati resi figli ( Ef 1,5 ) e saremo pienamente noi stessi solo vivendo da figli.
Questa è la verità sull'uomo che Gesù ha rivelato.
Noi siamo stati creati a immagine del Figlio di Dio.
Ogni vita diversa dalla vita di figlio di Dio sfugge a questa verità e perde la propria libertà: "Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" ( Gaudium et spes, 22 ).
L'apostolo Paolo spiega alla comunità di Roma che l'uomo non è al di sopra del bene e del male.
La vita è comunque obbedienza: o al bene, per crescere nella libertà dell'amore, oppure al male, per restarne imprigionati; o è obbedienza di figli, oppure è obbedienza di schiavi ( Rm 6,15-23 ).
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