Confessioni |
Giunsi a Cartagine, e dovunque intorno a me rombava la voragine degli amori peccaminosi.
Non amavo ancora, ma amavo di amare e con più profonda miseria mi odiavo perché non ero abbastanza misero.
Amoroso d'amore, cercavo un oggetto da amare e odiavo la sicurezza, la strada esente da tranelli.
Avevo dentro di me un appetito insensibile al cibo interiore, a te stesso, Dio mio, e quell'appetito non mi affamava, bensì ero senza desiderio di cibi incorruttibili, non già per esserne pieno; anzi, quanto più ne ero digiuno, tanto più ne ero nauseato.
Malattia della mia anima: coperta di piaghe, si gettava all'esterno con la bramosia di sfregarsi miserabilmente a contatto delle cose sensibili, che pure nessuno amerebbe, se non avessero un'anima.
Amare ed essere amato mi riusciva più dolce se anche del corpo della persona amata potevo godere.
Così inquinavo la polla dell'amicizia con le immondizie della concupiscenza, ne offuscavo il chiarore con il Tartaro della libidine.
Sgraziato, volgare, smaniavo tuttavia, nella mia straripante vanità, di essere elegante e raffinato.
Quindi mi gettai nelle reti dell'amore, bramoso di esservi preso.
Dio mio, misericordia mia, nella tua infinita bontà di quanto fiele non ne aspergesti la dolcezza!
Fui amato, raggiunsi di soppiatto il nodo del piacere e mi avvinsi giocondamente con i suoi dolorosi legami, ma per subire i colpi dei flagelli arroventati della gelosia, dei sospetti, dei timori, dei furori, dei litigi.
Mi attiravano gli spettacoli teatrali, colmi di raffigurazioni delle mie miserie e di esche del mio fuoco.
Come avviene che a teatro l'uomo cerca la sofferenza contemplando vicende luttuose e tragiche? e che, se pure non vorrebbe per conto suo patirle, quale spettatore cerca di patirne tutto il dolore, e proprio il dolore costituisce il suo piacere?
Strana follia, non altro, è questa.
A quei casi si commuove infatti di più chi è meno immune dalle passioni che agitano; eppure, mentre di solito si definisce miseria la propria sofferenza, le sofferenze per gli altri si definiscono misericordia.
Ma infine, dov'è la misericordia nella finzione delle scene?
Là non si è sollecitati a soccorrere, ma soltanto eccitati a soffrire, e si apprezza tanto più l'attore di quelle figurazioni, quanto più si soffre, e se la rappresentazione di sventure remote nel tempo oppure immaginarie non lo fa soffrire, lo spettatore si allontana disgustato e imprecando; se invece soffre, rimane attento e godendo piange.
Dunque amiamo anche la sofferenza.
Indubbiamente qualsiasi uomo vuole godere, e misero non piace esserlo a nessuno, però ci piace di essere pietosi: forse perché, non essendovi misericordia senza sofferenza, per ciò solo amiamo di soffrire?
Anche questo è un rivo che sgorga dall'amicizia, ma dove diretto? dove corre? perché sfocia in un fiume di pece bollente, in gorghi immani di oscuri piaceri, ove si muta e trasforma per proprio impeto, deviando e decadendo dalla sua limpidezza celeste?
Bisogna dunque ripudiare la misericordia? Niente affatto.
Amiamo talvolta la sofferenza, ma, anima mia, guardati dall'impurità tenendoti sotto la protezione del Dio mio, il Dio dei padri nostri, degno di lode ed esaltato per tutti i secoli.
Guardati dall'impurità. Ancora oggi infatti provo misericordia; ma allora, nei teatri, partecipavo alla gioia degli amanti allorché si godevano l'un l'altro immondamente, anche se ciò avveniva soltanto nell'illusione del gioco scenico, e viceversa, quasi misericordioso, mi contristavo allorché si lasciavano, in entrambi i casi provando diletto tuttavia.
Oggi invece provo maggior compassione di chi gode nell'immondezza, che non di chi si crede sventurato per la privazione di un piacere dannoso o la perdita di una triste felicità.
Qui si ha certamente una misericordia più vera; ma la sua sofferenza non produce diletto.
Se si loda chi soffre della miseria altrui perché compie un dovere di carità, tuttavia una misericordia genuina preferirebbe che mancassero i motivi di sofferenza.
Soltanto se esistesse una bontà maligna, che non può esistere, potrebbe anche, chi prova una misericordia vera e sincera, desiderare l'esistenza dei miseri per provarne misericordia.
Si può dunque approvare: il dolore in alcune circostanze, mai amarlo.
Tu, Signore Dio, che ami le anime, ne provi una misericordia infinitamente più pura e incorruttibile della nostra, perché nessun dolore ti ferisce. Ma chi è capace di tanto?
Io allora, misero, amavo soffrire e cercavo occasioni di sofferenza.
Nelle afflizioni altrui, e sia pure le afflizioni fittizie di un mimo, il gesto del commediante mi piaceva e attraeva tanto più violentemente, quante più lacrime mi strappava.
E che c'è di strano, se, pecora infelice, errabonda lontano dal tuo gregge e insofferente della tua sorveglianza, un'orrenda scabbia mi deturpava?
Di qui il mio amore per il dolore, non già tale da incidere troppo profondamente nel mio animo, perché non amavo patire le pene che amavo contemplare; ma da graffiarmi, per così dire, la pelle in superficie all'ascolto e alla vista di una finzione.
Senonché, come avviene al grattare delle unghie, ne seguivano gonfiori brucianti, e infezioni e un orrendo marciume. Ma quella vita era vita, Dio mio?
Pure, la tua misericordia mi aleggiava intorno fedele, di lontano.
In quante iniquità non mi sono corrotto fino alla putredine!
Ti lasciai per seguire una curiosità sacrilega, che doveva precipitarmi nell'abisso infido e nel culto ingannevole dei demòni, cui immolavo in sacrificio i miei misfatti.
E tu frattanto non cessavi di flagellarmi.
Non osai persino, nelle affollate cerimonie delle tue festività fra le pareti della tua chiesa concepire voglie impure e brigare per cogliere frutti mortali?
Perciò mi hai fustigato duramente.
Ma i tuoi castighi erano nulla rispetto alla mia colpa, o sconfinata misericordia mia, Dio mio, rifugio mio dai terribili pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa alta, staccandomi sempre più da te, invaghito delle mie, non delle tue strade, invaghito della mia libertà di evaso.
Anche gli studi nobili, com'erano chiamati, avevano il loro sbocco nel foro litigioso, cioè miravano a rendermi eccellente ove tanto più si è lodati, quanto più si è frodatori.
La cecità degli uomini è così grande, che persino della propria cecità si gloriano.
Ormai ero il primo alla scuola di retorica e ne provavo una gioia altera, mi gonfiavo di vento, sebbene fossi molto più quieto, Signore, tu lo sai, e rimanessi affatto estraneo ai disordini provocati dai "perturbatori dell'ordine", epiteto sinistro e diabolico che pure equivale a un'insegna di buona educazione, fra i quali vivevo.
Nella mia impudenza serbavo dunque un certo pudore, se non ero come loro.
Mi trovavo con loro, mi piaceva talvolta la loro compagnia, ma le loro imprese mi ripugnavano sempre, i disordini in cui perseguitavano spavaldamente la timidezza dei novellini e li atterrivano con le loro burle non ad altro intese, che a pascere la loro maligna festevolezza.
Nessun'altra è più somigliante alla condotta dei demòni, perciò non potevano ricevere appellativo più giustificato che quello di perturbatori dell'ordine, perturbati com'erano essi per primi e disturbati da spiriti beffardi, che occultamente li deridevano e seducevano proprio nell'atto di godere delle derisioni e delle beffe altrui.
Fu in tale compagnia che trascorsi quell'età ancora malferma, studiando i testi di eloquenza.
Qui bramavo distinguermi, per uno scopo deplorevole e frivolo quale quello di soddisfare la vanità umana; e fu appunto il corso normale degli studi che mi condusse al libro di un tal Cicerone, ammirato dai più per la lingua, non altrettanto per il cuore.
Quel suo libro contiene un incitamento alla filosofia e s'intitola Ortensio.
Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d'un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore.
Così cominciavo ad alzarmi per tornare a te.
Non usavo più per affilarmi la lingua, per il frutto cioè che apparentemente ottenevo con il denaro di mia madre: avevo allora diciotto anni e mio padre era morto da due; non per affilarmi la lingua dunque usavo quel libro, che mi aveva del resto conquistato non per il modo di esporre, ma per ciò che esponeva.
8 Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a te, pur ignorando cosa tu volessi fare di me.
La sapienza sta presso di te, ma amore di sapienza ha un nome greco, filosofia.
Del suo fuoco mi accendevo in quella lettura.
Taluno seduce il prossimo mediante la filosofia, colorando e truccando con quel nome grande, fascinoso e onesto i propri errori.
Ebbene, quasi tutti coloro che sia al suo tempo, sia prima agirono in tal modo, vengono bollati e denunciati in quel libro.
Così vi è illustrato l'ammonimento salutare che ci diede il tuo spirito per bocca del tuo servitore buono e pio: Attenti che nessuno v'inganni mediante la filosofia e la vana seduzione propria della tradizione umana, propria dei principi di questo mondo, ma non propria di Cristo, perché in Cristo sussiste tutta la pienezza della divinità corporeamente.
A quel tempo, lo sai tu, lume della mia mente, io ignoravo ancora queste parole dell'Apostolo; pure, una cosa sola bastava a incantarmi in quell'incitamento alla filosofia: le sue parole mi stimolavano, mi accendevano, m'infiammavano ad amare, a cercare, a seguire, a raggiungere, ad abbracciare vigorosamente non già l'una o l'altra setta filosofica, ma la sapienza in sé e per sé là dov'era.
Così una sola circostanza mi mortificava, entro un incendio tanto grande: l'assenza fra quelle pagine del nome di Cristo.
Quel nome per tua misericordia, Signore, quel nome del salvatore mio, del Figlio tuo, nel latte stesso della madre, tenero ancora il mio cuore aveva devotamente succhiato e conservava nel suo profondo.
Così qualsiasi opera ne mancasse, fosse pure dotta e forbita e veritiera, non poteva conquistarmi totalmente.
Perciò mi proposi di rivolgere la mia attenzione alle Sacre Scritture, per vedere come fossero.
Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di mistero.
Io non ero, capace di superare l'ingresso o piegare il collo, ai suoi passi.
Infatti i miei sentimenti, allorché le affrontai, non furono quali ora che parlo.
Ebbi piuttosto l'impressione di un'opera indegna del paragone con la maestà tulliana.
Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, la mia vista non penetrava i suoi recessi.
Quell'opera è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande.
Cosi finii tra uomini orgogliosi e farneticanti, carnali e ciarlieri all'eccesso.
Nella loro bocca si celavano i lacciuoli del diavolo e un vischio confezionato mescolando le sillabe del tuo nome con quelle del Signore Gesù Cristo e del Paracleto, lo Spirito Santo nostro Consolatore.
Questi nomi erano sempre sulle loro labbra, ma soltanto come suoni e strepito della lingua; per il resto il loro cuore era vuoto di verità.
Ripetevano verità, verità, e ne facevano un gran parlare con me, eppure mai la possedevano, e dicevano il falso non su te soltanto, che sei davvero la Verità, ma altresì su questi principi di questo mondo, che da te sono creati, un argomento su cui avrei dovuto superare i filosofi anche quando dicevano il vero, in nome del tuo amore, Padre mio sommamente buono, bellezza di ogni bellezza.
O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi.
Nei vassoi che si offrivano alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti.
Ma io neppure delle tue prime creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e sete.
Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti.
Non sarebbe stato meglio rivolgere senz'altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito?
Eppure io le ingoiavo perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore.
Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono.
Ma i cibi che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato.
Erano fantasmi corporei, corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo, con gli occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi.
Ma tu, Amore mio, su cui mi piego, per essere forte, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure, tra i sommi nel tuo ordinamento.
Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà!
Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi, che pure tu non sei.
Ma tu non sei neppure l'anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più alta e reale dei corpi.
Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell'anima mia
11 Dov'eri dunque allora, e quanto lontano da me?
Io lontano da te vagavo escluso persino dalle ghiande dei porci che di ghiande pascevo.
Quanto sono preferibili le favolette dei maestri di scuola e dei poeti, che quelle trappole!
I versi, la poesia, Medea che vola, sono certo più utili dei cinque elementi variamente trasformati per le cinque caverne delle tenebre, mere invenzioni, che però uccidono, chi vi crede.
Dai versi, dalla poesia posso anche trarre reale alimento.
Se allora declamavo la storia di Medea che vola, non la davo per vera, come non vi credevo io stesso sentendola declamare.
Invece alle altre ho creduto, per mia sventura; lungo quei gradini fui tratto sino agli abissi infernali, febbricitante, tormentato dall'arsura della verità, mentre, Dio mio, lo riconosco davanti a te, che avesti misericordia di me quando ancora non ti riconoscevo, mentre cercavo te non già con la facoltà conoscitiva della mente, per la quale volesti distinguermi dalle belve, ma col senso della carne.
E tu eri più dentro in me della mia parte più interna e più alto della mia parte più alta.
M'imbattei in quella donna avventata e sprovvista di saggezza, che nell'indovinello di Salomone sta sulla porta, seduta sopra una seggiola, e dice: "Assaporate i pani riposti e gustate l'acqua rubata, così dolce".
Costei mi sedusse poiché mi trovò fuori, insediato nell'occhio della mia carne e intento a ruminare fra me le cose che per quella via avevo ingerito.
Ignaro infatti dell'altra realtà, la vera, ero indotto ad approvare quelle che sembravano acute obiezioni dei miei stolti seduttori, quando mi chiedevano quale fosse l'origine del male, se Dio fosse circoscritto da una forma corporea e avesse capelli e unghie, se si dovesse stimare giusto chi teneva contemporaneamente più mogli, uccideva uomini e sacrificava animali.
Io, ignorante in materia, ne rimanevo scosso.
Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei, senza sapere che il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto.
Dove, per altro, avrei potuto vedere la verità, se i miei occhi non vedevano oltre i corpi, l'intelletto oltre i fantasmi?
E non sapevo che Dio è spirito, non un essere dotato di membra estese in lunghezza e larghezza, e di massa: perché le parti di una massa sono ciascuna minore dell'insieme, e se pure la massa sia infinita, è minore nelle parti definite entro un certo spazio che nell'insieme infinito, né una massa è tutta intiera dovunque, come lo spirito, come Dio.
Cosa poi vi sia in noi che ci fa essere e ci fa dire giustamente nella Scrittura fatti a immagine di Dio, lo ignoravo totalmente.
Non conoscevo nemmeno la giustizia vera, interiore, che non giudica in base alle usanze, ma in base alla legge rettissima di Dio onnipotente; cui si devono informare i costumi dei paesi e dei tempi, paese per paese, tempo per tempo, mentre essa non muta in ogni paese e in ogni tempo, non è diversa in luoghi diversi, né diversamente stabilita in circostanze diverse; secondo la quale furono giusti Abramo e Isacco e Giacobbe e Mosè e Davide e tutti gli altri uomini lodati dalla bocca di Dio, mentre sono giudicati disonesti dagli ignoranti, che giudicano secondo la giornata umana e misurano i costumi del genere umano lungo tutta la sua storia sulla base dei propri costumi parziali e particolari.
Così farebbe un tale, che, inesperto di armature, non conoscendo le membra per cui ogni pezzo fu predisposto, volesse coprire con un gambale la testa e calzare ai piedi l'elmo, brontolando perché non si accomodano; oppure chi, in un giorno dichiarato festivo al pomeriggio, si adirasse perché non gli concedono di esporre in vendita qualche merce, mentre era concesso al mattino; oppure, vedendo che nella stessa casa un servo maneggia un oggetto che al coppiere non si permette di toccare, o dietro la stalla si compiono certe faccende, che davanti alla mensa sono vietate, s'indignasse perché, unica essendo l'abitazione e unico il servizio, non dappertutto e non tutti hanno le medesime attribuzioni.
Non diversi sono costoro, che s'indignano all'udire come in quell'antica età erano lecite ai giusti certe azioni, che in questa non sono lecite ai giusti; e come Dio desse precetti diversi a quegli uomini e a questi per motivi contingenti, mentre sia gli uni che gli altri ubbidiscono alla medesima giustizia.
Non vedono dunque come nella stessa persona nella stessa giornata nello stesso edificio ad ognuna delle membra conviene una certa cosa, alle altre un'altra; e come una cosa lecita da gran tempo non lo è più dopo un'ora, un atto permesso o comandato in quel certo angolo, in quest'altro pur cosi vicino è vietato o punito?
Diremo che la giustizia è varia e mutevole? No, ma è il tempo da essa regolato che non procede sempre col medesimo passo: non per nulla è il tempo.
Ora, gli uomini, la cui vita è breve sulla terra, incapaci di rapportare col discernimento i motivi validi nei secoli precedenti e fra gli altri popoli di cui non hanno esperienza, a quelli di cui hanno esperienza; capaci invece di vedere prontamente in un corpo o una giornata o una casa ciò che conviene a un certo membro, a un certo momento, a un certo luogo o persona, nel primo caso si disgustano, nel secondo subiscono.
14 Io stesso ignoravo allora queste verità e non le percepivo.
Esse dardeggiavano da ogni lato i miei occhi e non le vedevo.
Nel declamare una poesia non mi era lecito collocare un piede qualsiasi in un punto qualsiasi, bensì dovevo usare diversi piedi secondo i diversi metri, ed anche nel medesimo verso non sempre il medesimo piede; ciò nonostante l'arte stessa che regolava la mia declamazione non seguiva principi diversi nei diversi punti, ma costituiva un sistema unitario.
Non scorgevo però che la giustizia, cui ubbidivano uomini dabbene e santi, costituiva essa pure un sistema unitario di precetti in una sfera ben più eccellente e sublime; che, immutabile in ogni sua parte, non li assegna né impone tutti simultaneamente a tempi diversi, ma quelli soltanto che sono appropriati a ciascuno; e nella mia cecità rimproveravo ai pii patriarchi non soltanto di aver agito secondo i comandi e le ispirazioni di Dio nel presente, ma di avere anche preannunziato il futuro, secondo le rivelazioni avute da lui.
C'è forse un tempo o un luogo in cui sia ingiusto amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, e amare il prossimo come te stesso?
Dunque si devono detestare e punire dappertutto e sempre i vizi contrari alla natura, per esempio i vizi dei sodomiti, che se pure tutti i popoli, della terra li praticassero, la legge divina li coinvolgerebbe in una medesima condanna per il loro misfatto, poiché non ha creato gli uomini per un tale uso di se stessi.
È infatti una violazione del vincolo che deve sussistere tra noi e Dio la contaminazione della natura medesima, di cui egli è l'autore, per una passione perversa.
Quanto alle azioni che sono viziose perché contravvengono alle usanze umane, si devono evitare, uniformandosi alla diversità delle usanze stesse, per non violare con la brama capricciosa del singolo, cittadino o straniero, il patto stabilito dalla consuetudine o dalla legge fra gli abitanti di una medesima città o nazione: la discordanza infatti di qualsiasi parte col tutto è una deformità.
Ma quando è Dio stesso a dare un ordine contrario a un'usanza o a un patto qualsiasi, bisogna metterlo in pratica, anche se in quel luogo non fu mai praticato; e se fu trascurato, bisogna restaurarlo, se non fu stabilito, bisogna stabilirlo.
A un re è lecito impartire nella città di cui ha il regno un ordine mai impartito da nessuno prima di lui né da lui stesso prima di allora.
L'ubbidirvi, poi, non è un atto contrario alla convenzione su cui si regge la città; sarebbe anzi contrario alla convenzione il non ubbidirvi, dal momento che la convenzione su cui si regge ogni umana società è l'ubbidienza al proprio re.
Quanto più dunque si dovrà servire senza esitazione Dio, re di tutto il creato, in ciò che comanda!
Come fra i poteri della società umana il maggiore precede il minore quanto all'ubbidienza dovuta, così Dio precede tutti.
16 Le stesse considerazioni valgono per le offese al prossimo, ove opera la brama di nuocere con ingiuria o con danno, e in entrambi i casi o per vendicarsi, come avviene tra nemici; o per ottenere un bene altrui, come avviene al ladrone che assale un viandante; o per evitare un danno, come avviene per l'uomo che è temuto; oppure per invidia, come avviene al più povero verso chi e più fortunato, o a chi ebbe successo in qualcosa e teme o teme di avere un uguale; oppure per il semplice gusto del male altrui, come avviene agli spettatori degli incontri gladiatori o a chi deride e si beffa del prossimo.
Queste le tre fonti dell'ingiustizia. Esse rampollano dalla libidine del potere, della curiosità e del senso, ora da una sola, ora da due, ora da tutte tre insieme.
Allora si vive male, contro i primi tre e gli altri sette comandamenti, lo strumento a dieci corde, il tuo decalogo, Dio altissimo e dolcissimo.
Quali vizi possono toccare te, invece, che non sei soggetto a corruzione, quali delitti offendere te, cui nessuno può nuocere?
Tu punisci le colpe che gli uomini commettono a proprio danno.
Essi anche quando peccano contro di te agiscono spietatamente contro la propria anima, e la loro iniquità s'inganna, guastando e pervertendo la propria natura creata e ordinata da te; facendo un uso smoderato del lecito, oppure bramando ardentemente l'illecito per farne un uso contrario alla natura.
Sono anche rei in cuor loro quando imprecano contro di te e scalciano al tuo pungolo, oppure godono di aver infranto audacemente le barriere della società umana con private consorterie e rapine secondo i propri gusti e le proprie avversioni.
Ciò avviene quando ti si abbandona, fonte della vita, unico, vero, creatore e regolatore dell'universo, amandone per orgoglio individuale una parziale falsa unità.
E così si ritorna in te con la pietà umile, e tu ci purifichi dalla cattiva abitudine, indulgente verso i peccati che si confessano, incline ad ascoltare i gemiti di chi è inceppato ai piedi, ci sciogli dai lacci che ci siamo da noi stessi applicati, affinché non leviamo più contro di te le corna di una falsa libertà per ingordigia di possedere dell'altro e col pericolo di perdere tutto per colpa di un amore più grande verso il nostro bene particolare che verso te, bene universale.
Ma accanto ai vizi personali, ai misfatti e alle molte offese recate al prossimo, esistono i peccati di chi procede sulla retta via, biasimati dai buoni giudici secondo la legge della perfezione, ma pure apprezzati per la speranza del frutto futuro, come è apprezzata l'erba per il grano.
Esistono poi certe azioni che assomigliano a vizi o a misfatti e tuttavia non sono peccati, poiché non offendono né te, Signore Dio nostro, né il consorzio umano.
È il caso di chi si procura qualche bene per usarne nella vita a tempo opportuno, ma forse agisce per il gusto di possedere; o di chi, avendone legittimamente la potestà, punisce un reo per correggerlo, ma forse agisce per il gusto di nuocere.
Esistono dunque molte azioni che sembrano riprovevoli agli uomini, mentre le approva la tua testimonianza, e molte che gli uomini lodano, e tu con la tua testimonianza condanni.
Spesso sono diversi l'aspetto di un'azione e le intenzioni di chi agisce, come pure il groviglio delle circostanze, a noi ignote.
Ma se tu imponi all'improvviso un'azione inusitata e imprevista, addirittura vietata da te stesso in precedenza, chi dubiterà dell'obbligo di compierla, anche se non riveli al momento la causa della tua imposizione e se contrasta col patto sociale di un gruppo di uomini?
Unica giusta società umana è infatti quella che serve a te; ma beati quanti comprendono che da te viene l'ordine, perché ogni atto dei tuoi servitori o realizza quanto richiede il presente o preannunzia quale sarà il futuro.
Ignaro di tutto ciò, io deridevo i tuoi santi servi e profeti; e cosa ottenevo con la mia derisione se non la tua derisione?
Poco alla volta, ma percettibilmente, mi ero lasciato indurre a credere scempiaggini come queste: che il fico, quando viene colto, si mette a piangere lacrime di latte, e così pure sua madre la pianta; se però mangia il fico, da altri naturalmente, e non da lui, delittuosamente colto, un santone, da quel fico egli impasta nelle viscere e fra i gemiti dell'orazione erutta degli angeli, che dico, delle particelle addirittura di Dio, particelle del sommo e vero Dio, che sarebbero rimaste prigioniere nel frutto, se il dente e il ventre dell'eletto santone non le avessero liberate.
Ed io, misero, ho creduto doveroso usare maggior misericordia verso i frutti della terra, che verso gli uomini, a cui sono destinati.
Se un affamato non manicheo avesse chiesto di che sfamarsi, un boccone a lui offerto sembrava sufficiente per essere condannati al supplizio capitale.
Ma tu stendesti la tua mano dall'alto e traesti la mia anima da un tale abisso di tenebre, mentre per amor mio piangeva innanzi a te mia madre, tua fedele, versando più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli.
Grazie alla fede e allo spirito ricevuto da te essa vedeva la mia morte; e tu l'esaudisti, Signore.
L'esaudisti, non spregiasti le sue lacrime, che rigavano a fiotti la terra sotto i suoi occhi dovunque pregava.
Tu l'esaudisti: perché, da chi le venne il sogno consolatore, per il quale accettò di vivere con me e avere con me in casa la medesima mensa, che da principio aveva rifiutata per avversione e disgusto del mio traviamento blasfemo?
Le sembrò, dunque, di essere ritta sopra un regolo di legno, ove un giovane radioso e ilare le andava incontro sorridendole, mentre era afflitta, accasciata dall'afflizione.
Il giovane le chiedeva i motivi della sua mestizia e delle lacrime che versava ogni giorno, più con l'intento di ammaestrarla, come suole accadere, che d'imparare; ed ella rispondeva di piangere sulla mia perdizione.
Allora l'altro la invitava, per tranquillizzarla, e la esortava a guardarsi attorno: non vedeva che là dov'era lei ero anch'io?
Ella guardò e mi vide ritto al suo fianco sul medesimo regolo.
Quale origine del sogno, se non il tuo orecchiare al suo cuore, o bontà onnipotente, che ti prendi cura di ciascuno di noi come se avessi solo lui da curare, e di tutti come di ciascuno?
20 E quale l'origine di quest'altro fatto: che dopo avermi narrato il suo sogno, appunto, e mentre io m'ingegnavo a trarlo a questo significato: che era lei piuttosto a non dover disperare di essere un giorno come me; ebbene, subito, senza un attimo di esitazione, esclamò: "No, non mi fu detto: là dov'è lui sarai anche tu; ma: là dove sei tu sarà anche lui".
Ti confesso, Signore, questo mio ricordo, in quanto mi rammento, né mai ne feci mistero, che ancor più del sogno in sé mi scosse questa tua risposta per bocca di mia madre sveglia.
Essa non si smarrì di fronte a una così sottile, ma falsa interpretazione e vide così presto ciò che si doveva vedere e io certo non avevo veduto prima delle sue parole.
Così proprio in quel sogno e molto tempo prima del vero fu predetto alla pia il gaudio che avrebbe provato in un futuro lontano, per consolarla dell'ansia che la struggeva al presente.
Passarono in seguito nove anni, durante i quali io mi avvoltolai in quel fango d'abisso e tenebre d'errore ove ad ognuno dei molti tentativi che feci per risollevarmi, più pesantemente mi abbattevo; eppure quella vedova casta, pia e sobria, quali tu le ami, dalla speranza, certo, resa ormai più alacre, ma al pianto e ai gemiti non meno pronta, persisteva a far lamento per me davanti a te in tutte le ore delle sue orazioni.
Le sue preghiere penetravano sino al tuo sguardo, e nondimeno tu mi lasciavi ancora aggirare e raggirare nella caligine.
Ricordo un secondo responso che desti nel frattempo, e tralascio molti altri episodi per la fretta di giungere a quelli che più mi urgono perché li confessi, senza dire che molti li ho dimenticati.
Dunque ci fu un secondo responso, che desti per bocca di un tuo sacerdote, certo vescovo nutrito nella chiesa ed esperto nei tuoi libri.
Pregato da quella donna che si degnasse di trattenersi con me per confutare i miei errori, dissuadermi dai principi errati e persuadermi dei giusti, come del resto era solita fare quando per caso trovava una persona adatta, si rifiutò, saggiamente invero, come più tardi capii.
Le rispose infatti che ero ancora indocile perché gonfiato dal contatto recente con quella tale eresia e perché avevo già confuso molte persone impreparate mediante certe polemichette, come aveva saputo da lei.
"Ma, soggiunse, lascialo, stare dov'è. Prega soltanto il Signore per lui.
Scoprirà da se stesso, leggendo, dove sia il suo errore e quanto sia grande la sua empietà".
Contemporaneamente le narrò come egli pure, fanciulletto, fosse stato affidato dalla madre, da loro lusingata, ai manichei e avesse non soltanto letto, ma altresì copiato via via quasi tutti i loro libri.
Così aveva scoperto da solo, senza bisogno delle discussioni e delle persuasioni di nessuno, quanto si debba fuggire dalla loro setta, da cui infatti fuggì.
Queste parole non bastarono ad acquietare mia madre.
Essa anzi insisteva ancor più con implorazioni e lacrime copiose, perché acconsentisse a vedermi, a discutere con me; finché il vescovo, un po' stizzito e un po' annoiato, esclamò: "Vattene: possa tu vivere come non può essere che il figlio di tante lacrime perisca".
Queste parole ella accolse, come ricordava poi spesso nei nostri colloqui, quasi fossero risuonate dal cielo.
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