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CCC nn. 2402-2414; 2426-2442 CdA nn. 1120-1138 CdG1 pp. 121-125; 145-147
Il lavoro umano va compreso nel mutato contesto tecnico e culturale del nostro tempo.
L'applicazione delle tecnologie nel lavoro, agricolo e industriale, accresce la produttività, ma diminuisce il tempo necessario per la produzione.
Non è difficile prevedere nel prossimo futuro la difficoltà di assicurare lavoro a tempo pieno a tutti, a meno di aumentare indefinitamente la produzione, cosa né materialmente né socialmente desiderabile, a causa dello spreco e del culto della merce che ciò comporterebbe.
Superato un certo limite, non è più vero che consumare di più permette di vivere meglio.
Il progresso in termini di produttività riduce lo spazio lavorativo e questo si traduce spesso in disoccupazione.
D'altra parte la disoccupazione non può essere in nessuna maniera giustificata: è un male sociale e morale.
Il disoccupato, capace e desideroso di lavorare, si sente escluso e mortificato, tagliato fuori dal suo ambiente normale.
Se è giovane, sperimenta l'impossibilità di entrare nella società e sarà facilmente tentato di orientarsi verso la marginalità.
A fronte di questi cambiamenti strutturali nel mondo della produzione, anche il significato del lavoro sta rapidamente mutando nella cultura occidentale, soprattutto in mezzo alle nuove generazioni, che sovente si trovano sole e smarrite ad affrontare una questione così decisiva per la loro esistenza.
Il lavoro umano, afferma Giovanni Paolo II, "è non solo un bene "utile" o "da fruire", ma un bene "degno", cioè corrispondente alla dignità dell'uomo [ … ] – è un bene della sua umanità –, perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, "diventa più uomo"" ( Laborem exercens, 9 ).
Come ci ha indicato la parola di Dio e come è testimoniato dalla nostra stessa esperienza, il mondo del lavoro resta il luogo privilegiato per l'attuazione della giustizia e della solidarietà fraterna.
"Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità" ( Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 20 ).
Al credente si impone perciò anzitutto l'impegno di un comportamento personale improntato al rispetto della giustizia e alla carità, e quello di un'azione sociale volta a rendere giusta e fraterna la realtà economica e il mondo del lavoro.
I beni della terra sono stati da Dio affidati all'intera famiglia umana a beneficio di tutti i suoi membri.
Essi devono perciò restare al servizio di tutti gli uomini.
L'attuale ordinamento sociale della realtà economica dà luogo a forme di sperequazioni intollerabili nella distribuzione di questi beni.
L'economia largamente dominante nel nostro mondo, caratterizzata dalla ricerca esclusiva del profitto individuale senza preoccupazioni morali, è causa di gravi ingiustizie sociali, di sprechi delle risorse umane e naturali, di sfruttamento e di oppressione.
Essa spesso si rivela quindi come un'economia contro l'uomo.
Sul credente, come su ogni altro uomo di buona volontà, pesa in maniera ineludibile la responsabilità di rendere umana la realtà economica in cui vive.
I problemi dell'economia e del lavoro hanno assunto una dimensione mondiale.
La nuda applicazione dei principi della concorrenza e delle leggi del mercato in tutti i paesi del mondo ha creato e va sempre più aggravando condizioni di disparità drammatiche e profondamente ingiuste.
Lasciata a se stessa, l'economia di mercato tende a trasferire sempre più potere e ricchezza presso i popoli ricchi, aumentando a dismisura la dipendenza e l'indigenza dei paesi economicamente più deboli.
"Di fatto, oggi molti uomini, forse la grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono di entrare in modo effettivo ed umanamente degno all'interno di un sistema d'impresa, nel quale il lavoro occupa una posizione davvero centrale" ( Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 33 ).
L'insegnamento sociale della Chiesa fa appello agli sforzi di tutti i credenti e di tutti gli uomini di buona volontà perché si realizzino interventi a favore dei popoli in via di sviluppo.
Esso proclama inoltre la necessità e il dovere collettivo di progettare e realizzare un diverso e più giusto ordine economico internazionale, che renda possibile lo sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini su tutta quanta la terra.
Il presupposto etico di un simile ordinamento economico mondiale è costituito dalla formazione ad atteggiamenti di austerità, di semplicità di vita, di capacità di rinuncia e di disponibilità generosa al dono e al servizio verso tutti.
In questo cammino di profondo cambiamento, di vera conversione, il cristiano non deve stare ai margini, ma porsi al centro.
Vi è una stretta connessione tra persona e lavoro: la dignità della persona qualifica la dignità del lavoro e viceversa.
La dignità dell'essere umano, uomo e donna, esige anzitutto che sia riconosciuto il diritto al lavoro e a un lavoro degno della persona.
La disoccupazione forzata costituisce un'ingiustizia, un dramma sociale, psicologico e morale.
In modo particolare i giovani sono privati di un importante spazio di equilibrio e di gioia senza l'esperienza di sentirsi collaboratori nella costruzione della società e di mostrarsi soggetti responsabili.
La prima forma di solidarietà è perciò tra chi lavora e chi non lavora.
Ogni discriminazione tra uomo e donna in fatto di diritto al lavoro è ingiusta.
La giustizia esige che si rimuova ogni forma di discriminazione nei confronti dei lavoratori stranieri.
Ugualmente le persone disabili hanno diritto ad un lavoro proporzionato alle loro forze e capacità.
Una società si misura nel suo grado di civiltà soprattutto dallo spazio che sa offrire ai più deboli e ai meno abili, integrando il loro prezioso apporto all'umanizzazione della convivenza.
Ogni persona ha il diritto-dovere non soltanto di sopravvivere, ma di vivere in modo degno.
Pertanto ha il diritto a un lavoro il più umanizzante possibile.
Il lavoro è dimensione propria dell'esistenza, non una condanna né un'espiazione.
Le condizioni in cui si svolge, queste sì sono talvolta una condanna.
Può darsi che il dovere di sopravvivere talvolta prevalga sul dovere di vivere umanamente e quindi sia comprensibile l'accettazione di un qualsiasi lavoro; ma l'esigenza etica di un lavoro che sia umano per sé e per gli altri non può venire archiviata.
A volte può verificarsi, per il singolo, il dovere di rifiutare un lavoro disumanizzante, anche se questo si traduce immediatamente in svantaggio economico.
Al lavoro disumano e degradante si deve obiettare in coscienza.
L'impegno per la qualità del lavoro proprio e altrui non può prescindere dall'organizzazione dell'economia di cui il lavoro è parte integrante.
Il collettivismo socialista ha già mostrato, nel fallimento storico, il suo limite radicale.
Esso, infatti, non teneva in debito conto la centralità della persona e le sue esigenze inalienabili.
Ma anche nel sistema liberista, viziato dalla supremazia del capitale sul lavoro, si va incontro alla alienazione e alla mercificazione dell'attività umana.
Finché domina il criterio del profitto ad ogni costo e i rapporti di lavoro sono inseriti in una struttura rigidamente gerarchica dell'impresa, è difficile pensare che l'esigenza etica del primato del lavoro umano possa essere tradotta nella prassi.
Non si tratta di mettere in discussione un'economia moderna, efficiente, produttiva di beni e servizi; si devono invece mettere in questione certi luoghi comuni, che fanno acriticamente appello all'assolutezza delle leggi economiche, all'efficienza e al profitto come se fossero idoli a cui sacrificare tutto.
In teoria e in pratica bisogna riconoscere che il lavoratore, al pari del datore del lavoro, è soggetto e non oggetto, e quindi ha diritto, tra l'altro, di partecipare alle scelte della comune impresa.
"Scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in modo diverso, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società" ( Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 35 ).
Il credente si sforza di superare quegli interessi puramente egoistici, che una società, ispirata a vantaggi corporativi, tende a privilegiare.
Certamente la realizzazione di sé è uno dei significati della professione, ma il credente non può vedere la propria realizzazione unicamente in termini di reddito, prestigio sociale, esercizio del potere, e neppure nell'esercizio appagante della creatività, della responsabilità, del genio, nell'espansione armoniosa e quasi giocosa delle proprie qualità umane.
Occorre vedere nel lavoro un servizio sociale e una forma di solidarietà.
E occorre capire e proclamare che ogni lavoro ha la stessa dignità dell'altro, perché è l'uomo a conferirgliela.
Questo non significa, naturalmente, l'esclusione dal lavoro di ogni aspetto positivo di appagamento, di creatività e di crescita personale; si tratta piuttosto di non erigere questi aspetti positivi a finalità da perseguire ad ogni costo, rifiutando sistematicamente di assumere su di sé una giusta parte della penosità del lavoro umano, per scaricarla unicamente sui più deboli.
Ogni uomo dovrebbe avere la possibilità di scegliere la professione che più gli è congeniale, che meglio lo esprime e corrisponde alle sue capacità.
Ciò, tuttavia, non è sempre possibile.
È però possibile evitare di scegliere la professione unicamente, o quasi, in base alle possibilità di guadagno.
Nella scelta della professione non deve essere assente il criterio del servizio e dei bisogni altrui.
Fa parte dei doveri professionali la preparazione seria e specifica ad assumersi le proprie responsabilità nel campo del lavoro professionale.
Questa preparazione, che generalmente si identifica col periodo giovanile dello studio, richiede lo stesso serio impegno di chi già esercita il lavoro.
Essa costituisce, in un certo senso, il lavoro del giovane e il servizio che egli già presta alla società.
In questa luce, trovano posto e senso nel progetto di vita del giovane anche esperienze di servizio al di fuori dello studio e della professione vera e propria, che lo avvicinano alla serietà dei drammi e dei problemi dell'esistenza.
Sono quelle attività di volontariato, che rappresentano una tradizione costante dei cattolici, ma che sono aperte ai giovani di ogni ispirazione.
Alla luce della fede, nelle possibilità positive che gli vengono offerte dalla professione e dal lavoro, come anche nelle inevitabili tentazioni connesse alla scelta e all'esercizio di una professione, il credente riconosce una chiamata personale di Dio.
In questa luce il lavoro non è soltanto un impegno, ma una vocazione, una strada per realizzare il disegno di Dio su noi e su gli altri.
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