Venite e vedrete |
CCC nn. 345-349; 2168-2195; 2426-2428 CdA nn. 1113-1119 CdG1 pp. 116-120; 141-144
Fino ad un tempo abbastanza recente, il lavoro era al centro degli interessi della persona, così che senza lavoro, sia pure faticoso, la vita perdeva di significato.
Spesso l'uscire dal lavoro, anche nella forma normale del pensionamento, era sperimentato come un uscire dalla vita.
La persona si organizzava nel circuito del lavorare, produrre e consumare.
All'opposto, le giovani generazioni non pensano in genere al lavoro produttivo come a un luogo di realizzazione.
A una cultura della centralità del lavoro e della professione, è subentrata una cultura dell'importanza del tempo cosiddetto di vita.
Sarebbe però illusorio pensare di rimuovere il lavoro produttivo e professionale, per mirare soltanto ad attività "creative".
Si pone piuttosto l'obiettivo, personale e sociale, di pensare e di vivere un nuovo rapporto tra lavoro e non lavoro.
F, poiché il lavoro cosiddetto produttivo diminuirà, occorre chiedersi quali contenuti dare e secondo quali criteri riempire il tempo libero o di non lavoro, perché l'uno e l'altro promuovano il bene personale e sociale.
Secondo il racconto del capitolo 2 della Genesi, l'uomo non è posto nel mondo come spettatore e il mondo non è stato creato come un tutto compiuto.
La terra era inerte e sterile prima della creazione dell'uomo: "Nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l'acqua dei canali per irrigare tutto il suolo" ( Gen 2,5-6 ).
Dio pone l'uomo nel "giardino" con il compito di coltivarlo e custodirlo.
Qui la Bibbia esplicitamente si riferisce al lavoro dei contadini, ma il suo pensiero riguarda ogni altro tipo di lavoro.
Il lavoro non è un castigo né il segno di una condizione di inferiorità.
Nel mondo greco il lavoro manuale era per lo più disprezzato, lasciato agli schiavi e alle classi inferiori: degna dell'uomo libero era l'attività intellettuale e politica.
Nella Bibbia, invece, il lavoro manuale riceve la sua dignità da un esplicito incarico di Dio ( Gen 2,15 ); per questo viene esaltato ed è condannata la pigrizia.
La Bibbia non esita neppure ad attribuire a Dio immagini desunte dal lavoro manuale: egli è paragonato all'agricoltore, al vasaio, al pastore.
"Coltivare" e "custodire" sono espressioni che indicano con molta chiarezza che il dominio dell'uomo sul mondo non è un potere arbitrario, dispotico, sfruttatore.
Il contadino non soltanto lavora la terra, ma anche la custodisce, la protegge.
Così l'uomo nel mondo.
L'uomo e la donna sono al centro dell'universo e di quanto esiste, ma essi stessi sono parte del mondo creato, sono creature.
Il comando di dominare la terra ( Gen 1,28 ) è per la tutela, la protezione della terra e di quanto contiene, non per usarla e sfruttarla a piacimento.
I cristiani non si sono resi sufficientemente conto d'aver spesso interpretato o, peggio ancora, vissuto il dato biblico in modo strumentale al dominio incontrollato dell'uomo sul mondo.
Occorre recuperare senso critico per comprendere che il "dominio" della terra non è riducibile alla logica del fare e del trasformare, tipica della cultura occidentale.
L'uomo e la donna sono chiamati a rispondere a Dio.
Il dominio dell'uomo e della donna sul creato non è privilegio, quasi che possano disporne incondizionatamente, ma servizio e responsabilità davanti al dominio assoluto di Dio.
Soprattutto nel contesto del grande racconto della creazione che proviene dalla tradizione sacerdotale ( Gen 1,1-4 ), si esprime la concezione biblica del lavoro: il lavoro dell'uomo è imitazione del lavoro creativo di Dio, un concetto esplicitamente ripreso anche nel decalogo ( Es 20,8-11 ).
Lavorando, l'uomo si inserisce nel gesto creatore, prolungandone lo slancio e conducendolo al suo fine.
Inteso così il lavoro può essere per l'uomo fonte di gioia.
Nasce infatti da un dinamismo interiore, soddisfa esigenze profonde e avvicina l'uomo al suo Signore.
Il motivo della gioia nel lavoro ricorre più volte nella Bibbia: la gioia del lavoro fecondo, del raccolto, dei frutti, della benedizione di Dio che lo accompagna.
Imitazione e prolungamento del gesto creatore, il lavoro umano deve muoversi nella linea del gesto di Dio: custodire e coltivare le opere del creato, non stravolgerle; ubbidire alle indicazioni racchiuse nelle cose, non soffocarle; essere a servizio dell'uomo, non contro di lui; costruire la libertà, non la schiavitù; promuovere l'uguaglianza fra gli uomini, non le disparità.
Nella realtà delle cose, come ora le viviamo, tutto è diventato più complesso.
È quanto appare dalla lettura del racconto del capitolo terzo della Genesi.
Il dramma del peccato si è installato nelle fibre profonde dell'uomo e nei suoi rapporti essenziali; fra questi c'è il rapporto tra l'uomo e la creazione, l'uomo e il lavoro ( Gen 3,17-19 ).
Il lavoro si scontra con la pesantezza della natura e la debolezza delle nostre facoltà, e perciò diviene lotta, noia, fatica.
È ancora gioia, ma solo a tratti.
Non sempre il lavoro ha successo: non poche volte, anzi, è sterile.
E se si maturano frutti, questi non sono mai conformi all'attesa e proporzionati alla fatica spesa.
Soprattutto, il lavoro è diventato anche luogo di tentazione, possibilità di peccato.
Eppure, era stato pensato da Dio come mezzo di edificazione personale e sociale.
Lavoro, attività e progresso possono distrarre l'uomo, facendogli dimenticare Dio, illudendolo di essere l'artefice di se stesso.
Il lavoro può divenire fine, anziché mezzo e servizio ( Dt 8,11-18 ).
Il lavoro, l'ambiente di lavoro, i rapporti creati dal lavoro si prestano all'egoismo, alla violenza, alla ribellione, sia dal punto di vista individuale sia sociale.
Per sua natura il lavoro crea legami e strutture che superano l'individuo e in essi l'individuo spesso si dibatte impotente e prigioniero.
Il lavoro può divenire strumento di oppressione e di ingiustizia, come spesso annotano i profeti di Israele.
Come l'uomo, anche la sua azione è decaduta.
Tuttavia resta sempre vero che il lavoro non è originato dal peccato, ma da un progetto di Dio.
Cristo ha redento e salvato il lavoro.
Anzitutto lo ha condiviso, passando gran parte della propria vita come un comune lavoratore, facendo il mestiere del carpentiere ( Mc 6,3 ).
Non ha fatto discorsi sul lavoro, ma ne ha rinnovato l'esperienza all'interno della novità di vita donata all'uomo nel mistero della sua Pasqua.
Anche per il lavoro, come per le altre dimensioni dell'esistenza umana, nulla è tolto alla nostra condizione, neppure la possibilità di peccato, ma tutto è trasformato dalla potenza di rigenerazione e di vita che viene dalla croce e dalla risurrezione di Gesù.
Alla luce di Cristo gli aspetti negativi del lavoro, cioè la sofferenza, la sterilità, la tentazione, non sono più soltanto conseguenze del peccato, ma diventano richiamo, segno di un messaggio e occasioni di salvezza.
Come sofferenza e noia, il lavoro fa toccare con mano che viviamo in un mondo che non corrisponde più al disegno di Dio, reso disarmonico dal peccato; questo ci induce ad aprirci al desiderio di una salvezza.
Come tentazione, il lavoro è un continuo richiamo alla vigilanza ed è palestra di superamento.
In quanto fatica, sofferenza, penitenza, il lavoro può essere imitazione e contributo alla redenzione di Cristo.
È il modo comune, alla portata di tutti, di far propria la croce di Gesù.
Importante è che l'uomo riempia il suo lavoro dei sentimenti di Cristo e ne faccia un atto di amore a Dio e al prossimo, come fu, appunto, il lavoro di Gesù.
Nella luce del vangelo, il lavoro diventa espressione di carità, il modo concreto, alla portata di tutti, di mettere in pratica il grande comandamento dell'amore.
Non soltanto perché per un cristiano il lavoro, come ogni cosa, si presta ad essere vivificato dall'amore, ma perché in se stesso ogni lavoro è aiuto, servizio a sé e agli altri; per sua natura è creatore di legami e di unità.
L'uomo e la donna delle società occidentali sono cultori dei sei giorni della creazione: del lavorare, del fare, del trasformare.
Rischiano però di dimenticare il "settimo giorno", il giorno in cui Dio riposa e gode della creazione.
Tra contemplare e agire non vi è alternativa o contrapposizione: queste due dimensioni vanno tra loro collegate così che l'una si armonizzi con l'altra.
La spiritualità del settimo giorno va recuperata in un duplice senso: perché fa vedere che il creato non trova il fine ultimo nell'uomo, ma l'uomo e il creato fanno riferimento a Dio; perché indica che soltanto colui che è capace di contemplazione, può essere capace di agire costruttivamente nel e sul creato.
L'uomo può essere costruttivamente creativo, solo se adora il Creatore di tutte le cose.
Soltanto chi sa dire grazie per il mondo, può trasformare saggiamente il mondo: userà la natura in maniera benefica per sé e per gli altri, solo se imparerà ad ammirare le opere di Dio e a rendere grazie a lui.
Il patrimonio spirituale di tutta la Chiesa, ma anche dell'intera cultura italiana ed europea, è erede del contributo di due grandi figure: san Benedetto da Norcia, fondatore del monachesimo occidentale, e san Francesco d'Assisi, iniziatore del ricco movimento spirituale fiorito attorno agli ordini mendicanti, non a caso venerati come patroni rispettivamente dell'Europa e dell'Italia.
Della regola data da Benedetto ai suoi monaci è conosciuta da tutti, nella sua forma semplificata, l'indicazione "ora et labora", "prega e lavora".
Il ritmo della giornata del monastero è scandito dalla preghiera, nella celebrazione della liturgia delle ore, e il tempo è riempito dal lavoro.
Il lavoro è preghiera, partecipazione all'opera di Cristo che redime il mondo, obbedienza alla parola di Dio che questo mondo ha creato e salva.
La preghiera è lavoro, non fuga dal mondo e dalla fatica della vita, ma opera a servizio del mondo intero, perché Dio, unico Signore della storia, voglia trasformarlo nel suo regno, come Gesù ha promesso e ci ha insegnato a chiedere; opera di chi sa di essere "servo inutile" ( Lc 17,7-10 ), di chi sa di non poter aggiungere, per quanto si affanni, neppure un giorno alla propria vita ( Lc 12,22-31 ), ma che tutto può ottenere in dono dal "padrone" della messe e della vigna che ci ha chiamati a lavorare ( Mt 9,37-38; Mt 20,1-16 ).
La preghiera libera il lavoro dall'affanno e dalla presunzione; il lavoro è una prima risposta alla nostra stessa invocazione e converte la nostra preghiera da vuota ritualità a sollecitudine concreta e obbediente nella carità: "Perché mi chiamate: Signore, Signore, e poi non fate ciò che dico?" ( Lc 6,46 ).
Proprio per questo i monasteri ispirati alla regola di Benedetto furono, nella storia europea, il centro propulsore di nuove forme di vita organizzata, anima di quella nuova cultura da cui maturerà la consapevolezza della dignità del lavoro e della sua irriducibilità a opera servile, da schiavi.
Francesco d'Assisi, con la sua vita povera ma gioiosa, fra le tante intuizioni del suo genio spirituale, ha testimoniato la possibilità di un rapporto pacifico, non ostile, anzi colmo di gratitudine, con il creato: il conversare con gli uccelli sulla bontà di Dio; la mansuetudine che "converte" anche gli elementi ostili del creato, come può essere il lupo per l'uomo; l'esplosione, anche letteraria, di gratitudine ammirata nella lode al suo Signore "per tutte le sue creature", proprio mentre era attraversato nel suo corpo dal dolore della malattia.
Espressi in forma di "fioretti", di parabole, o registrati in documenti storici, questi atteggiamenti sono traduzioni della conversione profonda che il vangelo può operare su un uomo, collocandolo in un rapporto amichevole, né da sfruttatore né da sfruttato, con le creature di Dio.
La domenica è il "giorno del Signore", tempo donato a Dio e per questo sottratto all'affanno economico, che ci porterebbe a capitalizzare ogni minuto.
Ma è giorno del Signore soprattutto perché ricorda quel primo giorno della nuova creazione inaugurata dalla risurrezione di Gesù, con la quale Dio Padre lo ha costituito Signore del tempo e del creato ( Ef 1,22-23; Ap 11,15 ).
È il giorno che anticipa il fine ultimo della nostra vita: non il lavoro, ma il riposo gioioso ed eterno fra le braccia amichevoli di Dio, che risolleverà il nostro corpo affaticato, gli restituirà nella risurrezione la dignità conferitagli in quel giorno nel quale Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza" ( Gen 1,26 ) e ci introdurrà a quella festa senza fine nella quale passerà egli stesso a servirci ( Lc 12,35-40 ).
I cristiani celebrano questa fede e questa attesa nell'Eucaristia del giorno del Signore.
In essa prendiamo il pane, frutto della terra e del nostro lavoro, benediciamo il Signore, Dio dell'universo, per avercelo donato, lo offriamo a lui perché, spezzandolo e condividendolo con noi, lo renda sacramento, segno vivo della sua presenza.
L'Eucaristia è presenza di Cristo risorto laddove il frutto del lavoro dell'uomo e della benedizione di Dio è un pane spezzato e condiviso; non un guadagno avaro, tenuto per sé, ma un dono condiviso.
Non c'è Eucaristia piena finché qualcuno fra noi vive nell'indigenza, mentre altri hanno il superfluo ( 1 Cor 11,17-21 ).
La domenica ci chiama a convertire anche le nostre politiche del lavoro.
La parola di Dio, mentre ci invita a valorizzare il lavoro e ad impegnarci in esso, ci avverte di non cadere nella tentazione opposta, quella del troppo lavoro che porta a dimenticare Dio.
La necessità e l'importanza del lavoro non ci devono chiudere su un orizzonte terreno, come se la giornata lavorativa esaurisse il tempo dell'uomo; non devono sovvertire la gerarchia delle cose e trattenerci dal cercare "la parte migliore" ( Lc 10,38-42 ).
Sono necessari tempi di riflessione e di riposo, giorni festivi.
E questo non perché il lavoro sia marginale, estraneo all'uomo e al regno di Dio, ma proprio perché è importante: la festa e la contemplazione sono indispensabili per trovarne il vero senso, i suoi valori profondi, la sua giusta direzione.
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