La dimensione contemplativa della vita |
La proposta di riflettere sulla dimensione contemplativa della vita intende provocare implicitamente il recupero di alcune certezze che nei confusi e pur fecondi anni appena trascorsi hanno patito qualche scolorimento o qualche eclissi.
Tali sono l'importanza religiosa del silenzio, il primato, nella persona umana, dell'essere sull'avere, sul dire, sul fare; il giusto rapporto persona-comunità.
Naturalmente, il recupero di questi valori non può significare abbandono o misconoscimento di quelli che il recente passato ha posto giustamente in rilievo, come la preghiera della comunità che coralmente canta e parla con Dio, la necessità che alla professione di fede e alla lode segua la coerenza della testimonianza e delle opere, l'importanza della dimensione ecclesiale in tutti gli ambiti dell'esistenza cristiana.
Ma pare venuto il momento di ricordare, in vista di una sequela di Cristo più intensa e armoniosa,
che l'abitudine alla contemplazione e al silenzio feconda e arricchisce la preghiera vocale e comunitaria;
che non si dà azione o impegno che non sgorghi dalla verità dell'essere profondo dell'uomo che in Cristo è stato rinnovato ed esaltato;
che proprio la coscienza e la libertà delle singole persone, con le loro convinzioni, le loro speranze e i loro propositi, costituiscono l'autenticità e il pregio di ogni esistenza associata nel nome del Signore.
Il silenzio.
Se in principio c'era la Parola e dalla Parola di Dio, venuta tra noi, è cominciata ad avverarsi la nostra redenzione, è chiaro che, da parte nostra, all'inizio della storia personale di salvezza ci deve essere il silenzio: il silenzio che ascolta, che accoglie, che si lascia animare.
Certo, alla Parola che si manifesta dovranno poi corrispondere le nostre parole di gratitudine, di adorazione, di supplica; ma prima c'è il silenzio.
Se, com'è avvenuto per Zaccaria, padre di Giovanni Battista, il secondo miracolo del Verbo di Dio è quello di far parlare i muti, cioè di sciogliere la lingua dell'uomo terrestre ricurvo su se stesso nel canto delle meraviglie del Signore, il primo è quello di far ammutolire l'uomo ciarliero e disperso ( cfr. Lc 1,20-22 ).
« La Parola zittì chiacchiere mie »: così Clemente Rebora, nobile spirito di poeta milanese moderno, descrive con rude chiarezza gli inizi della sua conversione.
Possiamo anzi dire che la capacità di vivere un po' del silenzio interiore connota il vero credente e lo stacca dal mondo dell'incredulità.
L'uomo che ha estromesso dai suoi pensieri, secondo i dettami della cultura dominante, il Dio vivo che di sé riempie ogni spazio, non può sopportare il silenzio.
Per lui, che ritiene di vivere ai margini del nulla, il silenzio è il segno terrificante del vuoto.
Ogni rumore, per quanto tormentoso e ossessivo, gli riesce più gradito; ogni parola, anche la più insipida, è liberatrice da un incubo; tutto è preferibile all'essere posti implacabilmente, quando ogni voce tace, davanti all'orrore del niente.
Ogni ciarla, ogni lagna, ogni stridore sono bene accetti, se in qualche modo e per qualche tempo riescono a distogliere la mente dalla consapevolezza spaventosa dell'universo deserto.
L'uomo « nuovo » – cui la fede ha dato un occhio penetrante che vede oltre la scena e la carità un cuore capace di amare l'Invisibile –
sa che il vuoto non c'è e che il niente è eternamente vinto dalla divina Infinità;
sa che l'universo è popolato di creature gioiose;
sa di essere spettatore e già in qualche modo partecipe dell'esultanza cosmica, riverberata dal mistero di luce, di amore, di felicità che sostanzia la vita inesauribile del Dio Trino.
Perciò l'uomo nuovo, come il Signore Gesù che all'alba saliva solitario sulle cime dei monti ( cfr. Mc 1,3; Lc 4,42; Lc 6,12; Lc 9,28 ), aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono alienante, dove sia possibile tendere l'orecchio e percepire qualcosa della festa eterna e della voce del Padre.
Nessuno fraintenda, però: l'uomo « vecchio », che ha paura del silenzio, e l'uomo « nuovo » solitamente convivono, con proporzioni diverse, in ciascuno di noi.
Ciascuno di noi è esteriormente aggredito da orde di parole, di suoni, di clamori, che assordano il nostro giorno e perfino la nostra notte; ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde.
In questo chiasso, l'uomo nuovo che è in noi deve lottare per assicurare al ciclo della sua anima quel prodigio di « un silenzio per circa mezz'ora » di cui parla l'Apocalisse ( Ap 8,1 ); che sia un silenzio vero, colmo della Presenza, risonante della Parola, teso all'ascolto, aperto alla comunione.
Preghiera ed essere dell'uomo.
Considerata nella sua natura profonda e nel suo momento originario, la preghiera non è attività che si giustappone estrinsecamente all'uomo: sgorga dall'essere, stilla e fluisce dalla realtà di ogni uomo.
Potremmo dire che la preghiera è, in qualche modo, l'essere stesso dell'uomo che si pone in trasparenza alla luce di Dio, si riconosce per quello che è e, riconoscendosi, riconosce la grandezza di Dio, la sua santità, il suo amore, la sua volontà di misericordia, insomma tutta la divina realtà e il divino disegno di salvezza come si sono rivelati nel Signore Gesù crocifisso e risorto.
Prima ancora che parola, prima ancora che pensiero formulato, la preghiera è percezione della realtà che immediatamente fiorisce nella lode, nell'adorazione, nel ringraziamento, nella domanda di pietà a Colui che è la fonte dell'essere.
Emergono e si configurano come contenuti fondamentali, in questa esperienza globale, sintetica, spiritualmente concreta:
– la percezione della vanità delle cose divelte dal progetto di Dio, che si tramuta in supplica ad essere noi stessi salvati dall'insidia dell'insignificanza e della vuotezza;
– la percezione della presenza di Colui che è pienezza e non è mai assente e lontano là dove c'è qualcosa che veramente esiste;
– la percezione del Cristo vivo nel quale tutto il progetto divino è riassunto e personalizzato ( « Ubi Christus, ibi regnum », dice sant'Ambrogio ), che fonda il riconoscimento e l'inveramento del rapporto di comunione con Colui che unico è Signore e Salvatore;
– la percezione, in Cristo, della volontà del Padre come norma assoluta di vita, sicché l'orazione non è più il tentativo di piegare la divina volontà alla nostra, ma il tentativo sempre rinnovato di conformare il nostro volere a quello del Padre ( cfr. Mt 6,10; Mt 26,39-42 );
– la percezione della realtà dello Spirito, sorgente di tutta la vita ecclesiale, che prega in noi ( cfr. Rm 8,19-27 ), così che il pregare diventa anelito a uscire dalla solitudine e dalla chiusura dell'individualismo e richiesta ad aprirci sempre più al regno di Dio che si va instaurando nei cuori e fra gli uomini, cioè alla Chiesa;
– la percezione della croce come vittoria sul male che è in noi e fuori di noi, che fa della preghiera attitudine di contestazione del peccato, dell'ingiustizia, del « mondo », e nostalgia della Gerusalemme celeste dove tutto è santo.
La persona, protagonista di ogni preghiera.
È senza dubbio giusto e doveroso sottolineare la vocazione sociale che è inscritta in ogni atto dell'uomo e l'indole ecclesiale dell'intera vita cristiana.
Ma non bisogna mai dimenticare che alla sorgente di tutto sta il mistero della persona, mistero sempre singolare e singolarmente inedito, non sommabile, non raffrontabile.
Anche se costituito in una condizione e in una natura che egli riceve per generazione e condivide con tutti i suoi simili, l'uomo trova la ragione prima della sua grandezza nel fatto di provenire, secondo il nucleo originario e inconfondibile del suo essere, immediatamente dal Dio creatore, che dall'eternità lo ha chiamato per nome; e nel fatto di dover tornare a Colui che è al tempo stesso il suo principio e il suo destino, con una decisione ( o, meglio, con una serie di decisioni ) di cui egli porta la responsabilità totale, perché non è condizionabile in modo determinante da nessuna creatura diversa da sé.
Pur generato e nutrito in una comunione universale di vita che è la Chiesa, il cristiano ha un pregio inestimabile perché
è stato amato personalmente dal Padre, che lo ha voluto suo figlio;
è stato personalmente raggiunto dall'azione redentrice di Cristo, che per lui ha versato il suo sangue;
è guidato dallo Spirito nella positiva risposta personale alla divina chiamata alla salvezza.
Dal « noi » e sul « noi » della Chiesa emerge e si definisce l'« io » del credente, il quale si apre al « tutto » della cattolicità.
Così la preghiera – anche quando è vocale, liturgica o, comunque, associata – riceve verità e valore solo se trova la sua costante ispirazione nel mistero personale e concreto dell'adesione di fede, di speranza, di carità che alimenta e caratterizza la vita rinnovata.
Davanti al Padre, che è la sorgente della mia vita e il mio traguardo, davanti al dramma di un destino che è giocato una volta per tutte, davanti ai sì e ai no che decidono della mia sorte eterna, ci sto io, non il gruppo, la classe, la comunità.
Non sono solo perché lo Spirito domanda in me e per me ciò che io non so chiedere e il mio Salvatore mi sta accanto, mi avvince a sé, mi partecipa i suoi sentimenti filiali.
Ma nessuno può sostituirmi in questa impresa.
Anche se vivo, decido, prego in una comunità di fratelli che mi sostiene, mi rianima e spiritualmente mi dilata, resto sempre io in definitiva a vivere, a correre il rischio della decisione, ad affrontare l'avventura difficile ed inebriante della vita di preghiera.
Fermarci a considerare l'orazione proprio all'atto in cui sgorga silenziosamente e segretamente dal cuore dell'uomo significa dunque meditare sul mistero stesso di ogni orazione cristiana.
Sia che si mantenga tacita e solitaria, sia che si rivesta di parole esteriormente e anche pubblicamente proferite, sia che raggiunga la dignità di preghiera liturgica e diventi il canto e l'implorazione della Chiesa, ogni sincera invocazione a Dio trova sempre nell'essere personale, che antecede e fonda ogni estrinseca comunicazione, la sua scaturigine prima, e possiede nella vita personale di fede, di speranza e di carità la sua anima necessaria e non surrogabile.
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