Auctorem fidei |
Della grazia, § 11.
XXI. La proposizione la quale asserisce che "il lume della grazia, quando sia solo, non serve che a farci conoscere l'infelicità del nostro stato e la gravezza del nostro male; che la grazia in tal caso produce lo stesso effetto che produceva la legge; quindi essere necessario che il Signore crei nel nostro cuore un santo amore e ispiri un santo piacere contrario all'amore che ci domina; che questo santo amore, questo santo piacere sono propriamente la grazia di Gesù Cristo: cioè l'ispirazione della carità, conosciuta la quale siamo nell'amore santo; che questa è la radice da cui germinano le opere buone; che questa è la grazia del nuovo Testamento, che ci libera dalla schiavitù del peccato e ci rende figli di Dio";
In quanto intenda che la grazia di Gesù Cristo sia la sola che crea nel cuore un santo amore e fa sì che operiamo, o anche che con essa l'uomo, liberato dalla schiavitù del peccato, viene costituito figlio di Dio, e non sia anche propriamente grazia di Gesù Cristo quella grazia con la quale il cuore dell'uomo viene toccato mediante l'illuminazione dello Spirito Santo ( Conc. Trid., sess. 6,cap. 5 ), né si dia vera grazia interiore di Cristo cui si resiste;
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Della Fede, § 1
XXII. La proposizione la quale dice che la Fede "dalla quale incomincia la concatenazione delle grazie, e per mezzo della quale come prima voce siamo chiamati alla salute ed alla Chiesa", è la stessa eccellente virtù della Fede, per la quale gli uomini si denominano e sono fedeli; quasi che non fosse precedente quella grazia, la quale "come previene la volontà, così previene anche la fede" ( S. Agostino, De dono perseverantiae, c. 16, n. 41 );
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Della Grazia, § 8.
XXIII. La dottrina del Sinodo del doppio amore della cupidigia dominante e della carità dominante, la quale afferma che l'uomo senza la grazia è sotto la schiavitù del peccato, e che egli in tale stato, per il generale influsso della cupidigia dominante, guasta tutte le proprie azioni e le corrompe;
In quanto insinua che nell'uomo, mentre è sotto la schiavitù, ossia nello stato del peccato, privo di quella grazia mediante la quale è liberato dalla schiavitù del peccato e viene costituito figlio di Dio, talmente domini la cupidigia in modo che per il generale influsso di questa tutte le sue azioni in se stesse siano infette e corrotte, o tutte le opere, che si fanno prima della giustificazione, in qualsivoglia maniera si facciano, siano peccati;
Quasi che in tutte le sue azioni il peccatore serva alla cupidigia dominante;
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Della Grazia, § 12.
XXIV. In quella parte, poi, in cui fra la cupidigia dominante e la carità dominante non si pongono affetti intermedi inseriti dalla natura stessa e di loro natura lodevoli, i quali insieme con l'amore della beatitudine e con la naturale propensione al bene "rimasero come gli estremi lineamenti e reliquie dell'immagine di Dio" ( S. Agostino, De Spir. et litt., cap. 28 );
Quasi che "fra l'amore divino che ci conduce al regno e l'amore umano illecito, che viene riprovato", non esistesse "l'amore umano lecito, che non si riprende" ( S. Agostino, Serm. 349, De Carit., dell'Ediz. Maur );
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Del timore servile.
Della Penitenza, § 3.
XXV. La dottrina la quale genericamente afferma che il timore delle pene "soltanto non possa dirsi cattivo se arriva almeno a frenare la mano";
Quasi lo stesso timore dell'inferno, che la Fede insegna doversi infliggere al peccato, non sia in sé buono e utile, come un dono soprannaturale e un movimento ispirato da Dio, che prepara all'amore della giustizia;
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Del Battesimo, § 3.
XXVI. La dottrina che rigetta come una favola Pelagiana quel luogo dell'Inferno ( che i fedeli comunemente chiamano Limbo dei fanciulli ) nel quale le anime di coloro che muoiono con la sola colpa originale sono puniti con la pena di danno, senza la pena del fuoco;
Quasi che coloro i quali escludono la pena del fuoco, per questo stesso introducessero quel luogo e quello stato di mezzo privo di colpa e di pena fra il Regno di Dio e la dannazione eterna, come favoleggiavano i Pelagiani;
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Del Battesimo, § 12.
XXVII. La deliberazione del Sinodo, con la quale sotto pretesto di attenersi agli antichi canoni dichiara la sua intenzione di non voler far menzione di formula condizionale nel caso di Battesimo dubbio.
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Della Eucaristia, § 6.
XXVIII. La proposizione del Sinodo con la quale, dopo aver stabilito "che una parte essenziale al Sacrificio è la partecipazione alla Vittima", soggiunge che "non condanna però come illecite quelle Messe nelle quali gli astanti non si comunicano sacramentalmente, atteso che essi partecipano sebbene in modo meno perfetto a questa Vittima, ricevendola con lo spirito";
In quanto insinua che manca qualche cosa all'essenza del Sacrificio che viene offerto senza assistenti, o essendovi presenti coloro che non partecipano né sacramentalmente, né spiritualmente della vittima: e quasi si dovessero condannare come illecite quelle Messe in cui il solo sacerdote si comunica, mentre nessun altro si comunica o sacramentalmente, o spiritualmente,
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Dell'Eucaristia, § 2.
XXIX. La dottrina del Sinodo in quella parte nella quale, cominciando ad esporre la dottrina della Fede circa il rito della Consacrazione, rimosse le questioni scolastiche sul modo in cui Gesù Cristo è nell'Eucaristia ( dalle quali esorta i parroci che hanno l'incarico d'insegnare a volersene astenere ), propone soltanto queste due cose:
1. Che Gesù Cristo dopo la consacrazione è veramente, realmente, sostanzialmente sotto le specie;
2. Che allora cessi tutta la sostanza del pane del vino rimanendovi le sole specie, ma omette completamente di menzionare la transustanziazione, ossia la conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo, e di tutta la sostanza del vino nel Sangue, quale il Concilio di Trento ha definito come articolo di Fede, e come si racchiude nella solenne professione di Fede;
Poiché per questa sconsiderata e sospetta omissione si sottrae la notizia di un articolo appartenente alla Fede, e anche di un vocabolo consacrato dalla Chiesa per conservare la professione di quell'articolo contro le eresie, e perciò tende ad indurre la dimenticanza di esso, come se si trattasse di una questione meramente scolastica;
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Dell'Eucaristia, § 8.
XXX. La dottrina del Sinodo con la quale mentre professa "di credere che l'offerta del Sacrificio si estenda a tutti, in maniera tale però che nella liturgia possa farsi speciale commemorazione di alcuni tanto vivi che defunti, pregando Iddio per essi in modo particolare", subito dopo soggiunge "non già che noi crediamo essere in arbitrio del sacerdote l'applicare i frutti del Sacrificio a chi egli vuole, anzi condanniamo questo errore come offensivo grandemente dei diritti di Dio, il quale solo distribuisce i frutti del Sacrificio a chi egli vuole, e secondo la misura che a lui piace" conseguentemente considera come "falsa l'opinione introdotta nel popolo secondo la quale coloro che fanno un'elemosina al sacerdote a condizione che egli celebri una Messa, ne ricevono un frutto speciale";
Intesa nel senso che l'oblazione speciale o l'applicazione del Sacrificio, fatta dal sacerdote, oltre la commemorazione particolare e la preghiera non servirebbe, a parità delle altre condizioni, più a quelli per cui è applicata che a tutti gli altri, come se nessun frutto speciale provenisse dall'applicazione speciale, raccomandata o ordinata dalla Chiesa per persone determinate o categorie determinate di persone, specialmente per i fedeli da parte dei loro pastori: il che dal Concilio di Trento è stato chiaramente espresso come derivante da precetto divino ( Sess. 23, cap. I, De Reformatione; Bened. XIV nella costituz. Cum semper oblatas, § 2);
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