Il dono della perseveranza |
Ordunque, dato che adesso trattiamo del dono della perseveranza, per qual motivo a uno che sta per morire non battezzato si presta il soccorso di non morire senza battesimo e a un battezzato che deve cadere non si presta il soccorso di morire prima?
Vorremmo ancora una volta dar retta all'assurdità per cui si sostiene che non giova affatto ad alcuno di morire prima della caduta, perché sarà giudicato secondo quelle azioni che Dio antevedeva che egli avrebbe fatto se fosse vissuto?
Un pensiero così stravolto e tanto violentemente contrario all'integrità della fede, chi lo vorrà ascoltare pazientemente?
Chi lo vorrà sopportare? Eppure è costretto a dire ciò chi non ammette che la grazia di Dio non viene data secondo i nostri meriti.
Ma se uno non vuole sostenere una tesi irragionevole come questa: chiunque muore viene giudicato dalla prescienza divina secondo quello che egli avrebbe fatto se fosse vissuto, e se uno scorge quanto siano grandi e manifeste la falsità e l'assurdità di una simile convinzione, non c'è più motivo di ripetere quello che la Chiesa ha condannato nei pelagiani e ha fatto condannare da Pelagio stesso, cioè che la grazia viene data secondo i nostri meriti.
Infatti vedono che da questa vita alcuni bambini sono tolti non rigenerati, per passare alla morte eterna, altri rigenerati per passare alla vita eterna; e che di quelli stessi rigenerati, alcuni partono da questo mondo dopo aver perseverato fino alla fine, altri vi sono trattenuti finché non cadono.
Eppure non sarebbero certamente caduti, se avessero potuto partire di qui prima di cadere; e altri ancora dopo essere caduti non escono da questa vita finché non si ravvedono; e sarebbero periti, se fossero usciti prima di ravvedersi.
Da tutto ciò si dimostra abbastanza chiaramente che la grazia di Dio che ci fa sia iniziare sia perseverare fino alla fine, non viene data secondo i nostri meriti; anzi viene data secondo la volontà di Dio, segretissima, ma anche giustissima, sapientissima, generosissima, perché quelli che ha predestinato, li ha anche chiamati ( Rm 8,30 ) con quella chiamata di cui è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 )
Gli uomini non devono mai affermare con sicurezza che un individuo appartiene a quella chiamata, se non quando sia uscito da questa vita; ma in questa vita umana che sulla terra è una tentazione, ( Gb 7,1 ) chi crede di stare in piedi veda di non cadere. ( 1 Cor 10,12 )
Per ciò appunto ( come abbiamo detto sopra21 ), quelli che non sono destinati a perseverare sono mescolati dalla previdentissima volontà di Dio a quelli che sapranno perseverare, affinché apprendiamo a non presumere grandezze, ma a piegarci alle cose umili ( Rm 12,16 ) e con timore e tremore ci adoperiamo per la nostra salvezza: Dio infatti è quello che opera in noi il volere e l'operare secondo le sue intenzioni. ( Fil 2,12.13 )
Noi dunque vogliamo, ma è Dio che opera in noi il volere; noi dunque operiamo, ma è Dio che opera in noi l'operare, secondo il suo beneplacito.
Questo è utile a noi di credere e di sostenere, questo è pio, questo è vero, affinché la nostra confessione sia umile e sottomessa e sia rapportato tutto a Dio.
Pensando crediamo, pensando parliamo, pensando facciamo, qualunque cosa sia quello che facciamo, ma in quello che riguarda la via della pietà e il vero culto di Dio, non siamo capaci di pensare qualcosa da soli, come venisse proprio da noi, ma la nostra sufficienza proviene da Dio. ( 2 Cor 3,5 )
Infatti non sono in nostro potere i nostri cuori e i nostri pensieri,22 e lo stesso Ambrogio che si era espresso così, dice anche: Chi è tanto beato che nel suo cuore si elevi sempre verso Dio?
Ma come può avvenire ciò senza l'aiuto divino? In nessun modo, certo.
Anche precedentemente, egli continua, la medesima Scrittura dice: "Beato l'uomo il cui ausilio vienE da te, o Signore; l'elevazione è nel suo cuore". ( Sal 84,6 )
E se Ambrogio diceva ciò, di sicuro non solo lo leggeva nelle Sacre Scritture, ma lo sentiva anche nel suo cuore, cosa che trattandosi di un uomo simile non si può mettere in dubbio.
Dunque quello che si chiede nei sacri misteri ai fedeli, cioè che abbiano il cuore in alto verso Dio, si riconosce come un dono del Signore; e per questo dono il sacerdote dopo tale richiamo esorta, coloro ai quali l'ha rivolto, a rendere grazie al Signore Dio nostro; ed essi rispondono che ciò è degno e giusto.
Se infatti il nostro cuore non è in nostro potere, ma è sostenuto dall'aiuto divino, per elevarsi e per provare il gusto delle cose di lassù, dove è Cristo, assiso alla destra di Dio, non di quelle della terra, ( Col 3,1.2 ) a chi bisogna render grazie di una cosa tanto grande se non al Signore nostro Dio che la concede, che attraverso tale beneficio, liberandoci dalla bassezza di questo mondo, ci elesse e ci predestinò prima della creazione del mondo?
Ma dicono che la dottrina della predestinazione è controproducente per l'efficacia della predicazione.
Come se fosse stata controproducente la predicazione dell'Apostolo!
Non è forse vero che quel grande, dottore delle genti nella fede e nella verità, ha insistito tante volte anche sulla predestinazione e non per questo cessò di predicare la parola di Dio?
Anche se diceva: Dio è infatti quello che opera in voi il volere e l'operare secondo le sue intenzioni, ( Fil 2,13 ) nel medesimo tempo egli stesso ci esortava, sia perché volessimo ciò che piace a Dio, sia perché lo mettessimo in pratica.
Diceva: Colui che ha iniziato in voi un'opera buona, la porterà a termine fino al giorno di Cristo Gesù, ( Fil 1,6 ) però consigliava anche gli uomini a iniziare e a perseverare fino alla fine.
Veramente il Signore stesso ha ordinato agli esseri umani di credere, dicendo: Credete in Dio e credete in me; ( Gv 14,1 ) eppure non per questo si tratta di una proposizione falsa o di una spiegazione vana quando dice: Nessuno viene a me, cioè nessuno crede in me, se non gli è stato dato dal Padre mio. ( Gv 6,66 )
E nemmeno potremo rovesciare l'ordine e dire che se è vera questa spiegazione, allora è vana quella prescrizione.
Per qual motivo dunque dovremmo pensare che per predicare, per insegnare, per prescrivere, per riprendere, tutte cose cui la Scrittura divina ricorre continuamente, sia inutile la dottrina della predestinazione, quando la Scrittura stessa v'insiste?
O forse qualcuno oserà dire che Dio non conosceva per prescienza coloro a cui avrebbe concesso di credere o coloro che avrebbe dato al Figlio suo, perché di essi non perdesse nessuno? ( Gv 18,9 )
Ma se aveva prescienza di queste cose, certo l'aveva anche dei suoi benefici con cui si degna di liberarci.
Questa è la predestinazione dei santi, nient'altro: cioè la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio, con i quali indubbiamente sono liberati tutti quelli che sono liberati.
E tutti gli altri dove sono lasciati dal giusto giudizio divino se non nella massa della perdizione?
Dove sono stati lasciati gli abitanti di Tiro e di Sidone, che pure avrebbero potuto credere, se avessero visto quelle prodigiose manifestazioni di Cristo?
Però a loro non era stato concesso di credere e quindi fu loro negato anche il mezzo di credere.
Da ciò si vede che certuni hanno per natura fra le loro qualità spirituali un dono divino d'intelligenza per cui si muoverebbero verso la fede, se udissero parole o vedessero miracoli proporzionati alla loro mentalità; eppure, se per il superiore giudizio di Dio la predestinazione della grazia non li ha differenziati dalla massa di perdizione, non sono impiegati per loro quelle parole e quei prodigi divini per mezzo dei quali potrebbero credere, udendoli e vedendoli personalmente.
Nella stessa massa di perdizione furono lasciati anche i Giudei, che non poterono credere ai miracoli tanto grandi e splendidi compiuti al loro cospetto.
Il Vangelo non tace sul motivo che impedì loro di credere, quando dice: Ma benché avesse fatto tanto grandi miracoli di fronte a loro, non credettero in lui perché si adempissero le parole dette dal profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?
E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?
E non potevano credere perché ancora aveva detto Isaia: Ha accecato i loro occhi e indurito il loro cuore perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore, né si convertano, né io li risani. ( Gv 12,37-40 )
Non erano accecati alla stessa maniera gli occhi né così indurito il cuore degli abitanti di Tiro e di Sidone, perché questi avrebbero creduto, se avessero veduto i miracoli come li videro costoro.
Però a loro non giovò il fatto che potevano credere, perché non erano stati predestinati da Colui del quale imperscrutabili sono i giudizi e impenetrabili le vie; né ai Giudei avrebbe creato ostacolo il fatto che non potevano credere, se fossero stati predestinati in modo che Dio illuminasse la loro cecità e volesse togliere ai loro petti induriti il cuore di pietra.
Quello che il Signore disse agli abitanti di Tiro e di Sidone forse si può intendere in un qualche altro modo,23 ma nessuno viene a Cristo se non quello a cui è stato dato, e viene dato a coloro che sono stati eletti in lui prima della creazione del mondo; questo senza dubbio confessa colui che ode la parola divina con l'orecchio della carne senza aver sordo il cuore.
E tuttavia questa predestinazione, che viene spiegata abbastanza apertamente dalle stesse parole del Vangelo, non impedisce che il Signore anche per l'inizio dica quello che ho ricordato poco sopra: Credete in Dio e credete in me, ( Gv 14,1 ) e per la perseveranza: Bisogna sempre pregare e non venire mai meno. ( Lc 18,1 )
Ascoltano queste parole e le applicano quelli ai quali è stato dato; ma non le applicano, sia che le odano, sia che non le odano, quelli ai quali non è stato dato, perché a voi, dice, è stato dato di conoscere il mistero del regno dei cieli; a loro invece non è stato dato. ( Mt 13,11 )
E la prima cosa appartiene alla misericordia, l'altra al giudizio di Colui a cui dice l'anima nostra: Canterò a te, Signore, la [ tua ] misericordia e il [ tuo ] giudizio. ( Sal 101,1 )
Dunque predicare la predestinazione non deve impedire di predicare la fede che persevera e progredisce, così che odano quello che devono udire coloro ai quali è stata concessa l'obbedienza; infatti: Come potranno udire senza uno che predichi? ( Rm 10,14 )
Ma viceversa predicare la fede che progredisce e persevera fino alla fine non deve impedire di predicare la predestinazione, affinché chi vive con fede e obbedienza non si inorgoglisca di questa obbedienza come di un bene suo, non ricevuto, ma chi si gloria, si glori nel Signore. ( 1 Cor 1,31 )
In nulla dobbiamo gloriarci, dal momento che nulla ci appartiene.24
Questo appunto vide con fede piena Cipriano e con piena sicurezza espresse, dichiarando in queste parole la perfetta certezza della predestinazione.
Infatti se in niente dobbiamo gloriarci, dal momento che niente ci appartiene, allora non bisogna gloriarsi nemmeno della più perseverante obbedienza, e non bisogna neppure chiamarla nostra, come se non ci fosse donata dall'alto.
Anch'essa è dono di Dio e Dio, come professa ogni cristiano, seppe in prescienza che l'avrebbe donata ai chiamati con quella vocazione di cui si è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 )
Questa è dunque la predestinazione che con fede e umiltà predichiamo.
E quell'uomo che sapeva insegnare ed agire, come credette in Cristo e visse perseverando pienamente nella santa obbedienza fino al martirio per Cristo, non per questo cessò di predicare il Vangelo, di esortare alla fede, alla condotta pia e alla stessa perseveranza fino alla fine.
Tuttavia con l'espressione: In niente dobbiamo gloriarci, dal momento che niente ci appartiene, senza alcuna ambiguità ha indicato qual è la grazia di Dio autentica: essa cioè è quella che non viene data secondo i nostri meriti; ma poiché Dio aveva prescienza che l'avrebbe data, in queste parole di Cipriano senza dubbio è affermata la predestinazione; e se questo non impedì a Cipriano di predicare l'obbedienza, non deve certo impedirlo neppure a noi.
Dunque benché diciamo che l'obbedienza è un dono di Dio, tuttavia esortiamo gli uomini ad essa.
Ma a quelli che ascoltano con obbedienza l'esortazione proveniente dalla verità è appunto stato dato un dono di Dio, cioè di ascoltare con obbedienza; a quelli che non ascoltano con questo atteggiamento, il dono non è stato dato.
Infatti non è stato uno qualunque, ma Cristo, a dire: Nessuno viene a me se non gli è stato dato dal Padre mio; ( Gv 6,66 ) e: A voi è stato dato di conoscere il mistero del regno dei cieli; a loro invece non è stato dato. ( Mt 13,11 )
Inoltre sulla continenza ha affermato: Non tutti capiscono questa parola, ma quelli ai quali è stato dato. ( Mt 19,11 )
E quando l'Apostolo esorta gli sposi alla pudicizia coniugale dice: Vorrei che tutti gli uomini fossero come me stesso; ma ciascuno ha un proprio dono da Dio, uno in un modo, uno in un altro. ( 1 Cor 7,7 )
Con queste parole dimostra chiaramente che non solo la continenza è un dono di Dio, ma anche la castità dei coniugati.
Ora, benché tutto ciò sia vero, noi esortiamo lo stesso a queste virtù, per quanto è concesso alle possibilità di ciascuno di noi, perché anche questo è dono di Colui in mano del quale siamo noi e i nostri discorsi. ( Sap 7,16 )
Per cui l'Apostolo dice: Secondo la grazia che mi è stata data, come un sapiente architetto ho posto le fondamenta. ( 1 Cor 3,10 )
E in un altro passo: A ciascuno come il Signore ha dato; io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma Dio dette la crescita.
Pertanto né chi pianta è qualcosa né chi irriga, ma Dio che dà la crescita. ( 1 Cor 3,5-7 )
E perciò esorta e predica rettamente solo colui che ne ha ricevuto il dono e solo colui che ne ha ricevuto il dono ascolta con obbedienza quella retta esortazione e quella retta predicazione.
Ecco il motivo per cui il Signore, parlando a coloro che tengono aperte le orecchie della carne, diceva: Chi ha orecchie da intendere, intenda; ( Lc 8,8 ) Egli sapeva senza dubbio che non tutti hanno orecchie da intendere.
Ma il Signore stesso mostra da chi le hanno avute tutti quelli che le hanno, quando dice: Darò loro un cuore per conoscermi e orecchie per ascoltarmi. ( Bar 2,31 )
Dunque avere orecchie da intendere è appunto il dono dell'obbedienza, affinché quelli che lo hanno vengano a Colui al quale nessuno viene se non gli è stato dato dal Padre suo.
Esortiamo dunque e predichiamo; quelli che hanno orecchie da intendere, ci ascoltano con obbedienza; ma per coloro che non le hanno si verifica quello che è scritto: affinché intendendo non intendano; ( Mt 13,13 ) cioè: pur intendendo con il senso del corpo, non intenderanno con l'assenso del cuore.
Ma perché alcuni hanno orecchie da intendere ed altri no, cioè perché ad alcuni è stato concesso dal Padre di venire al Figlio e ad altri no?
In quanto a questo chi comprese il pensiero del Signore o chi ne fu il suo consigliere? ( Rm 11,34 )
Oppure si può rispondere: Chi sei tu, o uomo, per rispondere a Dio? ( Rm 9,20 )
Forse bisognerà negare quello che è manifesto perché non si può capire quello che è occulto?
Forse, dico io, quando scorgiamo che una cosa è in un determinato modo, sosterremo il contrario per il fatto che non possiamo scoprire perché è in quel modo?
Ma dicono, come voi scrivete: "Nessuno si può incitare con il pungolo del rimprovero, se si dirà nelle riunioni della Chiesa di fronte a molti ascoltatori: Così sta la sentenza decretata dalla divina volontà sulla predestinazione; alcuni di voi, ricevuta la volontà di obbedire, dalla mancanza di fede verranno alla fede, oppure ricevuta la perseveranza, nella fede rimarranno; ma voi altri tutti che indugiate nei piaceri del peccato, è per questo che non ve ne siete ancora rialzati, perché l'aiuto della grazia misericordiosa non vi ha fino a questo momento sollevato.
Ma se voi siete di quelli non ancora chiamati, che però il Signore nella sua grazia ha predestinato all'elezione, riceverete quella grazia dalla quale vorrete essere eletti e lo sarete; se siete di quelli che obbediscono, ma predestinati ad essere respinti, vi saranno sottratte le forze dell'obbedienza perché cessiate di obbedire".25
Anche se si dice tutto ciò, pure tutto questo non ci deve distogliere dal confessare la vera grazia di Dio, cioè quella che non viene data secondo i nostri meriti, e dal confessare contemporaneamente secondo questa grazia la predestinazione dei santi.
Così pure non siamo distolti dal confessare la prescienza di Dio, anche se di essa qualcuno parla al popolo in questa maniera: "Sia che voi viviate ora rettamente, sia che no, in seguito sarete quelli che Dio sapeva nella sua prescienza che sareste stati, buoni se vi previde buoni, cattivi se vi previde cattivi".
Allora, se dopo aver udito ciò alcuni si rivolgono all'indolenza e all'apatia e da un atteggiamento solerte precipitano dietro le loro concupiscenze nella dissolutezza, forse per questo bisognerà pensare che è falso quanto è stato detto sulla prescienza di Dio?
Non è forse vero che se Dio ha avuto prescienza che essi sarebbero stati buoni, essi saranno buoni, per quanto grande sia la cattiveria in cui si trovino ora, e che se invece Dio ha previsto che sarebbero stati cattivi, cattivi saranno, per quanto grande sia la bontà in cui li possiamo vedere al presente?
Ci fu un tale nel nostro monastero che quando i confratelli lo biasimavano perché faceva cose che non doveva fare, dava questa risposta: "Comunque io sia ora, sarò quello che Dio ha previsto che sarei stato".
E senz'altro diceva la verità, ma per questo non progrediva nel bene; anzi arrivò a tal punto nel male che, abbandonata la comunità monastica divenne come un cane che ritorna sul suo vomito; eppure a tutt'oggi è incerto cosa sia destinato a diventare.
Dunque forse per anime come questa bisogna negare o tacere le verità che si affermano nella prescienza di Dio, e proprio allora tacerle, quando a tacerle si incorre in altri errori?
Ci sono anche quelli che per questo motivo non pregano o pregano con freddezza, perché sanno, per averlo detto il Signore, che Dio conosce ciò che è necessario per noi prima che noi glielo chiediamo. ( Mt 6,8 )
E allora per simili individui penseremo che bisogna tralasciare la verità di questa affermazione o che bisogna cancellarla dal Vangelo?
Al contrario: come risulta, Dio ha preparato alcuni doni che farà anche a chi non li implora, come l'inizio della fede, altri che farà solo a chi li implora, come la perseveranza fino alla fine; allora colui che pensa di poter avere da se stesso questa virtù, non pregherà per ottenerla.
Dunque bisogna guardarsi dal pericolo di lasciare estinguere la preghiera e divampare l'orgoglio per paura di diminuire il fervore dell'esortazione.
Si dica allora la verità, specialmente quando qualche problema spinge a dirla; e lasciamo che quelli che ne sono capaci comprendano; altrimenti, se si tace per quelli che non possono capire, non solo sono defraudati della verità, ma sono addirittura conquistati dal falso quelli che potrebbero conquistare il vero e con esso mettersi al riparo dalla falsità.
È facile, anzi anche utile, tacere qualche verità a causa dei poco dotati.
Infatti per questo è stato detto dal Signore: Ho ancora molte cose da dirvi, ma per il momento non siete ancora in grado di portarle, ( Gv 16,12 ) e dall'Apostolo: Non potei parlare a voi come a uomini spirituali, ma come a uomini carnali; come a bambini in Cristo vi diedi a bere latte, non cibo solido; infatti non eravate ancora in grado di riceverlo e ancora non lo siete. ( 1 Cor 3,1-2 )
Per quanto, usando un certo modo di esprimersi, può avvenire che ciò che si dice sia latte per i bambini e cibo solido per gli adulti; così se diciamo: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio, ( Gv 1,1 ) quale cristiano può tacere queste verità?
Ma quale cristiano può comprenderle? E che cosa di più elevato si può ritrovare nella sana dottrina?
Eppure questo non viene taciuto né ai bambini né ai grandi, né i grandi lo tengono nascosto ai bambini.
Ma è un conto quando c'è una ragione per tacere una verità, e un altro conto quando c'è una necessità per dirla.
Sarebbe lungo ricercare e riferire qui tutte le cause per tacere la verità; ma tuttavia una è anche questa: non rendere peggiori quelli che non comprendono per voler rendere più dotti quelli che comprendono, quando questi ultimi senza diventare più dotti, con il nostro silenzio non diventano nemmeno peggiori.
Ma se una verità è di tal fatta che, quando noi gliela riveliamo, chi non può capire diventa peggiore, e quando invece manteniamo il silenzio, diventa peggiore chi può capire, in tal caso che dovremo fare?
Non bisognerà forse dire la verità affinché chi può comprendere comprenda, piuttosto che tacere?
Tacendo non solo nessuno dei due comprende, ma chi è più intelligente, personalmente peggiora.
Al contrario, se quest'ultimo sentisse e capisse, per mezzo di lui anche parecchi altri apprenderebbero.
Infatti quanto più uno è capace di apprendere, tanto più è adatto ad insegnare agli altri.
Il nemico della grazia c'incalza e ci forza in tutte le maniere per farci credere che essa è data secondo i nostri meriti, in modo da non essere più grazia; ( Rm 11,6 ) e noi non vorremo dire tutto quello che possiamo in base all'autorità della Scrittura?
Temiamo che dalle nostre parole sia offeso chi non può capire la verità; e non dovremmo temere che con il nostro silenzio chi è in grado di capirla cada vittima del falso?
Allora bisogna predicare la predestinazione nel modo evidente in cui la santa Scrittura ne parla, e dire che nei predestinati i doni e la chiamata del Signore sono senza ripensamenti, oppure confessare che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, come intendono i pelagiani, per quanto, come abbiamo detto già più volte, negli Atti dei vescovi orientali leggiamo che questa tesi fu condannata per bocca dello stesso Pelagio.26
Ma questi ai quali è rivolta la nostra attenzione sono molto lontani dall'aberrante eresia pelagiana; benché non vogliano ancora riconoscere come predestinati coloro che attraverso la grazia di Dio divengano e permangano obbedienti, tuttavia già ammettono che questa grazia previene la volontà di coloro ai quali è data.
Questa ammissione evidentemente è fatta perché si creda che la grazia viene data gratuitamente, come sostiene la verità, e non per merito della volontà che l'ha preceduta, come pretende contro la verità l'eresia pelagiana.
Dunque la grazia previene anche la fede; altrimenti, se è la fede che previene la grazia, senza dubbio la previene anche la volontà, perché la fede senza la volontà non può esistere.
Se invece la grazia previene la fede, poiché previene la volontà, certo previene ogni forma di obbedienza; previene anche la carità, che è l'unica virtù con la quale si obbedisce a Dio in maniera autentica e dolce; e tutte queste qualità è la grazia che le previene e le opera in colui al quale è concessa.
17.41 - Fra questi beni resta la perseveranza fino alla fine, che invano si richiederebbe a Dio ogni giorno, se Dio stesso, prestando orecchio a colui che prega, non l'operasse in lui attraverso la sua grazia.
Ormai vi accorgerete quanto sia alieno dalla verità negare che sia un dono di Dio la perseveranza fino alla fine della vita terrena, dal momento che Dio stesso mette fine a questa vita quando vuole, e se vi mette fine prima di una caduta imminente, fa perseverare l'uomo fino alla fine.
Ma più mirabile e per i fedeli più evidente è la sovrabbondanza della bontà divina, perché questa grazia è data anche ai bambini, in un'età in cui non può essere donata l'obbedienza.
Dunque tutti questi doni Dio li può fare a chi vuole, ma in ogni caso ha previsto certamente che li farà e li ha preparati nella sua prescienza.
Quelli che ha predestinato, li ha anche chiamati, ( Rm 8,30 ) di quella chiamata della quale, non mi stanco mai di ricordarlo, è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 )
Infatti nella sua prescienza che non può ingannarsi né cambiare, predestinare è per Dio disporre le sue opere future: questo esattamente e nient'altro.
Se Dio ha prescienza che uno sarà casto, quest'individuo, benché di ciò egli non abbia certezza, si adopera per essere casto; così quello che ha predestinato ad essere casto, benché anch'egli non ne possa essere certo, non cessa di adoperarsi allo stesso scopo, quando sente che quello che diventerà lo diventerà per dono di Dio.
Al contrario il suo sentimento di carità ne gioisce, ed egli non prova orgoglio, ( 1 Cor 13,4; 1 Cor 4,6 ) come se quello che ha non lo avesse ricevuto.
Non solo dunque se si predica la predestinazione costui non viene impedito dal praticare la castità, ma anzi riceve aiuto affinché chi si gloria si glori nel Signore. ( 1 Cor 1,31 )
Ma quello che ho detto della castità si può ripetere come verissimo anche della fede, della pietà, della carità, della perseveranza e, per non continuare a citarle una per una, di ogni forma di obbedienza con la quale ci si sottomette a Dio.
Questi nostri fratelli lasciano in nostro potere solo l'inizio della fede e la perseveranza fino alla fine; essi non credono che queste due virtù siano doni di Dio e quindi escludono che per ottenerle e conservarle sia Dio ad operare i nostri pensieri e le nostre volontà; ogni altra cosa però ammettono che sia lui a concederla e che il credente la ottenga da lui attraverso la fede.
Ma allora perché, quando si tratta di raccomandare e predicare tutte queste altre virtù, non temono anche in questo caso che la dottrina della predestinazione possa costituire un ostacolo?
Forse sosterranno che nemmeno queste sono predestinate?
Di conseguenza, o esse non sono date da Dio, oppure Egli non sapeva che le avrebbe date.
Ma se sono date da Dio ed Egli aveva prescienza che le avrebbe concesse, allora è sicuro che le ha predestinate.
Essi stessi esortano alla castità, alla carità, alla pietà e a tutte le altre virtù che confessano essere doni di Dio; non possono d'altronde negare che Egli ha avuto prescienza di questi doni e che quindi essi sono stati predestinati.
Infine non dicono nemmeno che queste loro esortazioni subiscono un impedimento se si predica la predestinazione divina, cioè se si predica che Dio ebbe prescienza di questi suoi doni futuri.
Allora alla stessa maniera si avvedano che non vengono ostacolate le loro esortazioni né alla fede né alla perseveranza, se riconoscono che anche queste, come è vero, sono doni di Dio, che Egli ne ebbe prescienza e che perciò la loro largizione fu predestinata.
Piuttosto comprendano che ad essere ostacolato e sovvertito, quando si predica la predestinazione, è solo quell'errore assolutamente rovinoso per cui si dice che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, con la conseguenza che chi si gloria, non si gloria nel Signore, ma in se stesso.
Quelli che possiedono il dono di volare avanti con il loro ingegno, sopportino che io mi soffermi a spiegare tutto ciò più chiaramente a coloro che sono un po' tardi.
Dice l'apostolo Giacomo: Se qualcuno di voi manca della sapienza, la chieda a Dio che concede a tutti a profusione e non rimprovera, e gli sarà data. ( Gc 1,5 )
È scritto anche nei Proverbi di Salomone: Il Signore dà la sapienza. ( Pr 2,6 )
L'autorità del libro della Sapienza è stata utilizzata da grandi e dotti uomini che commentarono le Scritture divine prima di noi, e riguardo alla continenza vi si legge: Sapendo che nessuno può essere continente se non lo concede Dio; e questo stesso apparteneva alla sapienza, sapere di chi era questo dono. ( Sap 8,21 )
Ecco dunque due doni di Dio: sapienza e continenza, per non parlare degli altri.
Anche per questi nostri fratelli ciò è pacifico; infatti non sono pelagiani che lottino contro questa trasparente verità con la dura aberrazione degli eretici, ha principio da noi ad ottenere che ci siano date da Dio queste virtù"; di questa fede essi pretendono che appartenga a noi cominciare ad averla e permanervi fino alla fine, come se non la ricevessimo da Dio.
Ma con questa pretesa senza dubbio si contraddicono le parole dell'Apostolo: Cosa possiedi infatti che tu non abbia ricevuto? ( 1 Cor 4,7 )
E viene contraddetto anche il martire Cipriano, quando raccomanda: Non dobbiamo gloriarci in nulla perché nulla ci appartiene.27
Ma noi abbiamo un bel ripetere tutte queste cose e molte altre ancora fino alla noia; abbiamo dimostrato che sia l'inizio della fede sia la perseveranza fino alla fine sono doni di Dio, che Dio non poteva non avere prescienza di tutti i suoi futuri doni, quali sarebbero stati e a chi li avrebbe dati, e che perciò quelli che Egli libera e incorona sono oggetto della sua predestinazione.
Dopo tutto ciò essi pensano ancora di dover obiettare: "La dottrina della predestinazione è contraria a una predicazione efficace, perché dopo averla ascoltata nessuno può più essere stimolato con il pungolo del rimprovero".
Dicendo ciò, non vogliono che si predichi agli uomini che giungere alla fede e permanervi sono doni di Dio, perché non sembri che invece di esortarli li si induca alla disperazione; infatti ascoltando rifletterebbero che per l'ignoranza umana resta incerto a chi Dio largisca questi doni e a chi no.
E allora perché anche loro predicano in accordo con noi che sono doni di Dio la sapienza e la continenza?
Essi affermano che queste due virtù sono doni di Dio, ma secondo loro in questo caso non viene ostacolata l'esortazione che rivolgiamo agli uomini ad essere sapienti e continenti.
Dunque per quale motivo sostengono che noi non possiamo più esortare gli uomini a venire alla fede e a rimanervi fino alla fine, se diciamo che anche questi ultimi sono doni di Dio, come pure è comprovato dalla testimonianza delle sue Scritture?
Ecco, tacciamo della continenza e trattiamo ora della sola sapienza; l'apostolo Giacomo, che abbiamo già citato, dice: La sapienza che viene dall'alto in primo luogo è pudica, poi pacifica, moderata, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza simulazione. ( Gc 3,17 )
Vi vorrete accorgere allora, ve ne scongiuro, di quanti e quanto grandi beni sia ricolma la sapienza che discende dal Padre della luce?
Ogni concessione ottima, dice ancora l'Apostolo, e ogni dono perfetto viene dall'alto, discendendo dal Padre della luce. ( Gc 1,17 )
Perché dunque, per tralasciare il resto, rimproveriamo gli impudichi e i litigiosi, se predichiamo loro che la sapienza pudica e pacifica è un dono di Dio?
E perché non abbiamo timore che essi, non potendo conoscere la volontà divina, trovino in questa predicazione maggior motivo per disperarsi che per lasciarsi esortare?
Potrebbero anche essere stimolati dal pungolo del rimprovero non contro se stessi, ma piuttosto contro di noi, perché li biasimiamo di non avere ciò che proprio noi sosteniamo non essere procurato dalla volontà umana, ma donato dalla generosità divina.
Perché la predicazione di questa grazia non ha distolto lo stesso apostolo Giacomo dal rimproverare i turbolenti?
Infatti egli dice: Se avete invidia amara e ci sono discordie nei vostri cuori, non ve ne gloriate e non siate mendaci contro la verità; questa non è la sapienza che discende dall'alto, anzi è terrena, carnale, diabolica; dove infatti c'è invidia e discordia, lì c'è disordine ed ogni opera cattiva. ( Gc 3,14-16 )
Dunque bisogna rimproverare i turbolenti secondo le testimonianze della Parola divina e secondo le regole di condotta che questi fratelli hanno in comune con noi; e non resta impedito il rimprovero, se predichiamo che la sapienza pacifica, in base alla quale si correggono i litigiosi e si risanano, è un dono di Dio.
A questo stesso modo bisogna riprendere quelli che non hanno fede o quelli che non permangono nella fede, e la predicazione della grazia di Dio, che insiste nel presentare la fede e la perseveranza nella fede come doni di Dio, non impedisce questa riprensione.
Infatti è vero che dalla fede si ottiene la sapienza, come dice l'apostolo Giacomo: Se qualcuno di voi manca della sapienza, la chieda a Dio che concede a tutti a profusione e non rimprovera, e gli sarà data; e poi aggiunge: La chieda con fede senza affatto esitare. ( Gc 1,5-6 )
Ora, anche se la fede è data prima che la chieda colui che la riceve, non si dovrà dire che non è un dono di Dio, ma che proviene da noi, perché ci è stata data senza che noi l'avessimo chiesta.
L'Apostolo infatti dice chiarissimamente: Pace ai fratelli e carità con la fede da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo. ( Ef 6,23 )
Dunque da chi concede la pace e la carità proviene anche la fede, per cui chiediamo a lui non solo che essa sia accresciuta a chi la possiede, ma anche che sia concessa a chi non la possiede.
Ma questi ai quali rivolgiamo la nostra trattazione, vanno proclamando, è vero, che predicare la predestinazione e la grazia impedisce di esortare, però poi non esortano solo a quei doni che sostengono non dati da Dio, ma provenienti da noi stessi, come sono l'inizio della fede e la perseveranza in essa fino alla fine; eppure questo esclusivamente dovrebbero fare: solo esortare i non credenti alla fede e i credenti a rimanere nella fede.
Ma ci sono anche le virtù che essi riconoscono insieme con noi come doni di Dio per demolire in accordo con le nostre tesi l'errore dei Pelagiani, e queste sono la pudicizia, la continenza, la pazienza e le altre qualità per mezzo delle quali si vive rettamente e che si ottengono dal Signore con la fede; ora riguardo ad esse dovrebbero mostrare che bisogna invocarle, ma limitarsi solo a questo: ad invocarle o per se stessi o per gli altri, senza esortare nessuno ad imprenderle e a mantenerle.
Invece esortando con ogni loro energia anche alle virtù di questo genere e sostenendo che gli uomini di queste esortazioni hanno bisogno, dimostrano a sufficienza che non vengono impedite con tale predicazione nemmeno le esortazioni alla fede e alla perseveranza fino alla fine, se predichiamo che queste sono doni di Dio e che non provengono a nessuno da se stesso, ma sono dispensate dal Signore.
"Ma ciascuno abbandona la fede per colpa sua, quando cede e consente alla tentazione che lo induce ad abbandonarla".
E chi lo nega? Ma non per questo bisognerà dire che la perseveranza nella fede non è un dono di Dio.
È questo che ogni giorno chiede chi dice: Non spingerci in tentazione, ( Mt 6,13 ) e se è esaudito la riceve; ma se chiede ogni giorno di perseverare, evidentemente non spera di trovare la sua perseveranza in se stesso, ma in Dio.
Ora io non voglio sovraccaricare la mia dimostrazione di troppe parole, ma piuttosto lascio loro da riflettere, perché scorgano dove vada a parare l'idea di cui sono persuasi: "predicando la predestinazione si insinua in chi ascolta più la disperazione che l'esortazione".
Questo equivale a dire che l'uomo dispera della sua salvezza proprio quando ha appreso a non riporla in se stesso ma in Dio, mentre invece il Profeta grida: Maledetto chiunque ha speranza nell'uomo. ( Ger 17,5 )
Questi sono dunque doni di Dio, che vengono dati agli eletti chiamati secondo il decreto, e fra questi doni c'è sia l'incominciare a credere sia il perseverare nella fede fino al termine di questa vita, come abbiamo provato con testimonianze tanto motivate e autorevoli; questi doni di Dio, dico, se non esiste la predestinazione che noi sosteniamo, non sono oggetto della prescienza divina, e invece lo sono; questa allora è la predestinazione che difendiamo.
18.47 - Per questo talvolta si indica questa predestinazione con il nome di prescienza, come dice l'Apostolo: Dio non ripudiò il suo popolo che conobbe in precedenza. ( Rm 11,2 )
Qui l'espressione: conobbe in precedenza s'intende rettamente solo con "predestinò", come dimostra il contesto del brano.
Infatti parlava del residuo di Giudei che furono salvati, mentre tutti gli altri perivano.
Più sopra aveva ricordato come il Profeta parlava ad Israele: Tutto il giorno tesi le mie mani ad un popolo disobbediente e ribelle ( Rm 10,21 ); e come se gli venisse replicato: "Dove sono finite le promesse di Dio ad Israele?", l'Apostolo subito prosegue: Dico dunque forse che Dio ha ripudiato il suo popolo?
Neppure lontanamente: infatti anch'io sono israelita della stirpe di Abramo, della tribù di Beniamino ( Rm 11,1 ); e vuole dire: Infatti anch'io sono di questo popolo.
Poi aggiunge la frase che ora esaminiamo: Dio non ripudiò il suo popolo, che conobbe in precedenza.
E per dimostrare che il residuo fu riservato per grazia di Dio, non per i meriti delle loro opere, aggiunge: Non conoscete che cosa dice la Scrittura dove parla di Elia, in qual modo egli si lamenta con Dio contro Israele? ( Rm 11,2 ) con quello che segue.
Ma qual è la risposta divina a lui? Ho riservato per me settemila uomini, che non curvarono il ginocchio davanti a Baal. ( Rm 11,4 )
Non dice: sono stati riservati a me, oppure: si sono riservati a me, ma: Ho riservato per me.
Così, dice, anche al tempo presente c'è un residuo per elezione della grazia.
Ma se è per la grazia, non è per le opere; altrimenti la grazia non è più grazia. ( Rm 11,5-6 )
E ricollegando tutto quello che ho già riferito sopra, esclama: E allora?
E a questa interrogazione risponde: Quello che Israele cercava, non l'ha ottenuto; ma la parte eletta l'ha ottenuto; gli altri sono stati accecati. ( Rm 11,7 )
Dunque vuol far capire che questa parte eletta e questo residuo che fu creato per elezione della grazia è il popolo che Dio non ha ripudiato perché lo conobbe in precedenza.
Questa è l'elezione con la quale Egli elesse in Cristo prima della creazione del mondo quelli che volle, perché fossero santi e immacolati al suo cospetto in carità, predestinandoli ad essere figli d'adozione. ( Ef 1,4-5 )
A nessuno dunque che comprenda queste espressioni è permesso di negare o dubitare che le parole dell'Apostolo: Dio non ripudiò il suo popolo, che conobbe in precedenza, vogliano significare la predestinazione. Il Signore conobbe in precedenza il residuo che Egli stesso avrebbe creato per elezione della grazia.
Questo significa dunque che lo predestinò; infatti se lo predestinò, senza dubbio lo conobbe in precedenza; ma predestinare per Dio è conoscere in precedenza quello che Egli stesso farà.
Indice |
21 | 8,19 |
22 | Agostino, De fuga saec. 1, 2 |
23 | 10,24 |
24 | Cipriano, Ad Quir. 3, 4 |
25 | Ilario, Ep. 226, 2. 5 [tra le agostiniane] |
26 | Agostino, De gestis Pel. 14, 30-37 |
27 | Cipriano, Ad Quir. 3, 4 |