10 gennaio 1987
Eccellenze, Signore, Signori,
1. Gli auguri appena espressi a nome vostro dal vostro decano, sua eccellenza il signor ambasciatore Joseph Amichia, costituiscono una testimonianza commovente e sempre graditissima di un diplomatico attento agli sforzi della Santa Sede, e con essa impegnata nella ricerca di migliori soluzioni ai grandi problemi del mondo.
Lo ringrazio vivamente, e ringrazio tutti i membri del corpo diplomatico che hanno voluto prender parte a questa riunione.
Sono felice di incontrarvi nuovamente all'inizio di un nuovo anno, per il quale anch'io desidero rivolgervi i miei auguri più cordiali, per ognuno di voi, per le vostre famiglie, per i paesi che rappresentate.
Ho visitato alcuni di questi paesi, che mi sono così divenuti più familiari, ma tutti possono essere certi di trovare qui la medesima considerazione.
Ognuna delle vostre nazioni sta a cuore alla Santa Sede, non soltanto a motivo della loro cultura ancestrale, dei loro progressi o delle loro capacità, ma soprattutto perché formano una comunità umana a cui auguro la piena espansione e sviluppo, con un posto ben riconosciuto in seno alla grande famiglia dei popoli.
Mi auguro che anche i membri del corpo diplomatico accreditato presso quell'istanza spirituale che è la sede apostolica, manifestino tra di loro una reciproca accoglienza nel rispetto e nella solidarietà, e partecipino per quanto è loro possibile alla ricerca del bene comune a tutti: la pace.
Rivolgo un saluto particolare agli ambasciatori che partecipano per la prima volta a questo scambio di auguri, soprattutto se inaugurano la rappresentanza del loro paese presso la Santa Sede.
E sono felice anche di salutare i vostri congiunti e i membri delle vostre ambasciate, che sono qui presenti.
Il vostro portavoce, dopo aver ricordato con simpatia qualche attività importante del mio pontificato nel corso dell'anno passato, ha giustamente sottolineato alcuni punti nevralgici della vita del mondo attuale che richiedono urgentemente una soluzione e uno sforzo concertato dei popoli:
l'ingiustizia della discriminazione razziale,
la pericolosa situazione che si è creata con l'accumulo e il commercio degli armamenti,
l'indebitamento di molti paesi poveri,
il flagello della droga,
il terrorismo,
problemi questi che stanno a cuore, fra gli altri, a ogni uomo saggio, che anela alla pace, e che anche la Santa Sede fa suoi, cercando di portare, a sua volta, la sua testimonianza e il suo contributo.
I vostri governi, e voi stessi in quanto diplomatici, svolgete un'azione la cui ragion d'essere e il cui compito consistono
nello stringere legami di pace tra le nazioni,
nel far valere e difendere ciò che vi sembra giusto per il vostro paese,
nell'ascoltare e comprendere le esigenze degli altri,
nel far convergere i punti di vista,
nel lottare insieme contro ciò che minaccia e degrada le relazioni umane e la dignità della vita.
Debbo forse dirvi, eccellenze, che la Santa Sede, quale membro della comunità internazionale e avendo stabilito con i vostri paesi dei rapporti diplomatici, è sempre pronta ad assumersi la propria responsabilità in questo contesto, a interessarsi ai vostri sforzi, ad incoraggiarli, partecipandovi e a volte stimolandoli?
a voi sapete anche che la Santa Sede è innanzitutto e essenzialmente un'istituzione religiosa, chiamata ad affrontare i problemi della pace nella loro dimensione spirituale ed etica.
In questo spirito, ho preso l'iniziativa di riunire i capi religiosi invitandoli ad Assisi il 27 ottobre scorso.
Sua eccellenza il signor decano ha d'altronde sottolineato questo avvenimento come il momento più saliente dell'anno passato.
Vorrei oggi soffermarmi soprattutto su questo avvenimento, per meditare con voi quanta importanza esso rivesta, non soltanto ai fini di un dialogo fra le religioni, ma per la realizzazione in profondità della giustizia e della pace che è vostro dovere di promuovere.
Certamente la riunione ad Assisi dei responsabili e dei rappresentanti delle Chiese o delle comunità ecclesiali cristiane e delle religioni del mondo ha avuto un carattere fondamentalmente ed esclusivamente religioso.
Non si trattava di discutere né di prendere delle iniziative concrete o di decidere dei piani d'azione che potrebbero sembrare utili o necessari al consolidamento della pace.
E ripeto che questa scelta deliberata di limitarsi alla preghiera non diminuisce assolutamente l'importanza di tutti gli sforzi intrapresi dagli uomini politici e dai capi di Stato per migliorare le relazioni internazionali.
Ma dall'iniziativa di Assisi dovrebbe essere esclusa ogni possibilità di sfruttamento a favore di un progetto politico determinato.
In definitiva, la Chiesa cattolica, le altre Chiese e comunità ecclesiali e le religioni non cristiane, nel rispondere a loro volta alla decisione dell'ONU di designare il 1986 come "Anno della pace", hanno voluto farlo parlando la loro propria lingua, affrontando la causa della pace nella dimensione che è per loro essenziale: la dimensione spirituale.
E più precisamente attraverso la preghiera accompagnata dal digiuno e dal pellegrinaggio.
Da parte dei rappresentanti delle grandi religioni non si trattava più di negoziare delle convinzioni di fede per giungere a un consenso religioso sincretista.
Ma di guardare, insieme nello stesso momento, in modo disinteressato, all'obiettivo cruciale della pace tra gli uomini e tra i popoli, o piuttosto di rivolgerci tutti a Dio per implorare da lui questo dono.
La preghiera è il primo dovere degli uomini religiosi, la loro espressione tipica.
Così facendo, i rappresentanti di queste religioni hanno mostrato a loro volta la loro sollecitudine nei confronti del bene primario degli uomini.
Essi hanno manifestato il posto insostituibile che il senso religioso occupa nel cuore degli uomini d'oggi.
Anche se, purtroppo, la religione è stata a volte causa di divisioni, l'incontro di Assisi ha manifestato una certa aspirazione comune, la chiamata di tutti a camminare verso un solo fine ultimo, Dio; le personalità che ivi erano presenti hanno affermato la loro intenzione di rivestire ora un ruolo decisivo nella costruzione della pace mondiale.
Alcuni diplomatici si chiederanno forse: come può la preghiera per la pace promuovere la pace?
Il fatto è che la pace è innanzitutto un dono di Dio.
È Dio che la costruisce, poiché è lui che dona all'umanità tutto il creato perché essa lo gestisca e lo faccia progredire nella solidarietà.
È lui che inscrive nella coscienza dell'uomo le leggi che lo obbligano a rispettare la vita e il suo prossimo; egli non cessa di chiamare l'uomo alla pace ed è lui il garante dei suoi diritti.
Egli vuole una coesistenza degli uomini che sia l'espressione dei rapporti reciproci fondati sulla giustizia, sul rispetto e sulla solidarietà.
Egli li aiuta anche intimamente a realizzare la pace o a ritrovarla attraverso lo Spirito Santo.
Da parte dell'uomo, la pace è anche un bene d'ordine umano, di natura razionale e morale.
Essa è il frutto di volontà libere, guidate dalla ragione verso il bene comune da raggiungere.
In questo senso, essa sembra alla portata dell'uomo saggio e maturo, che riflette nel modo di vivere - nella verità, nella giustizia e nell'amore - un'ampia solidarietà, che contrasta con la "legge della giungla", la legge del più forte.
Ma non si vede come quest'ordine morale potrebbe prescindere da Dio, sorgente primaria dell'essere, verità essenziale e bene supremo.
La preghiera è il modo di riconoscere umilmente questa sorgente e di sottomettervisi.
Ben lungi dal soffocare la responsabilità dell'uomo, essa piuttosto la ridesta.
L'esperienza dimostra che laddove l'uomo ha creduto di potersi liberare da Dio, egli può conservare per un certo tempo gli ideali di verità e di giustizia, propri della sua natura razionale, ma rischia di fallire nell'interpretarli in vista dei suoi interessi immediati, dei suoi desideri, delle sue passioni.
Sì, la storia dimostra che gli uomini lasciati a se stessi tendono a seguire i propri istinti irrazionali ed egoistici.
Essi sperimentano quanto la pace superi le forme umane.
Poiché essa ha bisogno di un sostegno di luce e di forza, una liberazione dalle passioni aggressive, un impegno continuo a costruire insieme una società, a guardare a una comunità mondiale fondata sul bene comune a tutti e a ciascuno.
Il riferimento alla verità di Dio dona all'uomo l'ideale e le energie necessarie per superare le situazioni di ingiustizia, per liberarsi da ideologie di potere e di odio, per intraprendere un cammino di autentica fratellanza universale.
L'atteggiamento religioso libera l'uomo mettendolo in contatto con il trascendente.
E a coloro che credono in un Dio personale, onnipotente, amico dell'uomo e sorgente di pace, la preghiera appare veramente necessaria per implorare da lui la pace che essi non possono raggiungere da soli: la pace tra gli uomini, che nasce nella coscienza degli uomini.
La preghiera autentica cambia già il cuore dell'uomo.
Dio sa bene di che cosa abbiamo bisogno.
Se egli ci invita a chiedere la pace, è perché questo umile atto trasforma misteriosamente le persone che pregano e le mette sul cammino della riconciliazione, della fratellanza.
Infatti, colui che prega Dio sinceramente, come abbiamo cercato di fare ad Assisi, contempla l'armonia voluta da Dio creatore, l'amore che è in Dio, l'ideale di pace tra gli uomini, questo ideale che san Francesco ha incarnato in modo incomparabile.
Di tutto questo egli rende grazie a Dio.
Egli sa che la famiglia umana è una nella sua origine e nel suo fine, che essa viene da Dio e ritorna a Dio.
Egli sa che ogni uomo, ogni donna, portano in sé l'immagine di Dio, nonostante i limiti e le sconfitte dello spirito umano tentato dallo spirito del male.
Colui che accoglie la rivelazione cristiana va ancora più oltre in questa contemplazione: egli sa che Cristo si è unito in qualche modo a tutti gli uomini, li ha redenti, che li ha resi fratelli e raccoglie in sé i figli di Dio dispersi.
L'uomo che prega si sente dunque in unione profonda con tutti coloro che ricercano nella religione dei valori spirituali trascendenti in risposta ai grandi interrogativi del cuore umano.
Inoltre, nell'analizzare se stesso, egli riconosce i suoi pregiudizi, le sue mancanze, le sue sconfitte; egli vede con chiarezza come l'egoismo, la gelosia, l'aggressività in se stesso e negli altri siano i veri ostacoli alla pace.
Per questo egli chiede perdono a Dio e ai suoi fratelli, egli digiuna, fa penitenza, cerca la purificazione.
E comprende finalmente che non può implorare la pace restando inattivo.
La preghiera vuole esprimere la volontà di adoperarsi per superare questi ostacoli prendendo un impegno deciso per ottenere la pace.
Sono questi i benefici che la preghiera porta con sé.
Non è forse questo che hanno cercato di esprimere tutte le preghiere di Assisi?
Nessuna giustificazione di sé, nessuna difesa di un'ideologia, nessuna accettazione della violenza hanno distolto queste preghiere dal loro obiettivo: la ricerca della pace così come Dio la vuole.
Gli uomini che pregano in questo modo rimangono o diventano artefici di pace.
Essi non possono più accettare né adottare atteggiamenti di ingiustizia e di odio nei confronti dei loro simili senza flagrante contraddizione.
Certamente, questa contraddizione può sempre nascere, poiché le tentazioni rimangono.
È per questo che a Casablanca ho implorato Dio: "Non permettere che invocando il tuo nome, noi arriviamo a giustificare i disordini umani".
Questo starebbe ad indicare che la preghiera non è stata sufficientemente profonda, sufficientemente autentica, sufficientemente prolungata, che il fanatismo l'ha snaturata e l'ha strumentalizzata.
Ma in sé l'atto autentico della preghiera mette sul cammino della vera pace, poiché essa porta alla conversione del cuore.
Nel dimostrare che la pace e la religione camminano assieme, l'avvenimento di Assisi ha sottolineato inoltre che la pace è fondamentalmente di natura etica.
Io lo ricordavo allora ai miei fratelli e sorelle di tutte le religioni: "Nel grande impegno per la pace, l'umanità, nella sua stessa diversità, deve attingere dalle sue più profonde e vivificanti risorse, in cui si forma la propria coscienza e su cui si fonda l'azione di ogni popolo" ( Ioannis Pauli PP. II, Allocutio ad repraesentantes omnium religionum in urbe Assisiensi congregatos habita, 2, die 27 oct. 1986 ).
Un elemento comune a tutte le religioni, oltre alla convinzione fondamentale che la pace supera gli sforzi umani e deve essere ricercata nella realtà che è al di là di noi tutti, è in effetti "un comune rispetto e obbedienza alla coscienza, la quale insegna a noi tutti a cercare la verità, ad amare e servire tutti gli individui e tutti i popoli"; a rispettare, proteggere e promuovere la vita umana, a superare l'egoismo, l'avidità, lo spirito di vendetta ( Eiusdem, Allocutio finalis in urbe Assisiensi habita, 2 et 4, die 27 oct. 1986 ).
È dire che la Chiesa cattolica riconosce i valori spirituali, sociali e morali propri delle religioni.
Nel corso del mio viaggio in India, ho sottolineato il valore dell'insegnamento del Mahatma Gandhi circa la "supremazia dello spirito e la verità-forza ( "satyagraha") che vince senza la violenza, grazie al dinamismo intrinseco all'azione giusta" ( Eiusdem, Allocutio Delii, prope monumentum Gandhi vulgo « Raj Ghat » cognominatum, habita, 2, die 1 febr. 1986 ).
Davanti ai giovani musulmani a Casablanca, ho ricordato che invocando Dio, "dobbiamo anche rispettare, amare e aiutare ogni essere umano, poiché è una creatura di Dio e, in un certo senso, sua immagine e suo rappresentante" (Eiusdem, Allocutio in urbe vulgo « Casablanca » dicta, in Marochio, ad iuvenes muslimos habita, 5, die 19 aug. 1985 ).
Alla sinagoga di Roma, ho sottolineato che "Ebrei e cristiani sono depositari e testimoni di un'etica segnata dai dieci comandamenti, nella cui osservanza l'uomo trova la sua verità e libertà" notando che "Gesù ha portato fino alle estreme conseguenze l'amore domandato dalla Torah" (Ioannis Pauli PP. II, Allocutio in templo seu synagoga Iudaeorum Urbis habita, 7, die 13 apr. 1986 ).
Le religioni degne di questo nome, le religioni aperte di cui parlava Bergson - che non sono delle semplici proiezioni dei desideri dell'uomo, ma un'apertura e una sottomissione alla volontà trascendente di Dio che s'impone a tutte le coscienze -, permettono di costruire la pace.
E allo stesso modo le filosofie che riconoscono che la pace è un fatto d'ordine morale: esse mostrano la necessità di superare gli istinti, affermano l'uguaglianza radicale di tutti i membri della famiglia umana, la dignità sacra della vita, della persona, della coscienza, l'unità della famiglia umana che esige una autentica solidarietà.
Senza il rispetto assoluto dell'uomo fondato su una visione spirituale dell'essere umano, non c'è pace.
Ecco la testimonianza di Assisi.
Essa ha offerto un sostegno attraverso i rappresentanti delle religioni, di fronte a tutto il mondo, affinché il mondo vi trovi una luce.
Spero che questa convinzione ispiri anche la vostra attività di diplomatici.
In concreto, il rispetto dell'uomo passa attraverso il rispetto dei suoi diritti fondamentali.
Alla domanda cruciale: "come mantenere la pace?", si deve rispondere: "nell'ambito della giustizia tra le persone e tra i popoli".
Oggi noi abbiamo l'opportunità di vedere i diritti dell'uomo sempre più definiti e sempre più fermamente rivendicati:
il diritto alla vita in tutti gli stadi del suo sviluppo;
il diritto alla considerazione a prescindere dalla razza, dal sesso e dalla religione;
il diritto ai beni materiali necessari alla vita;
il diritto al lavoro e all'equa ripartizione dei frutti del lavoro;
il diritto alla cultura;
il diritto alla libertà dello spirito, della creatività;
il diritto al rispetto della coscienza, e in particolar modo alla libertà del rapporto con Dio.
Non bisogna inoltre dimenticare i diritti delle nazioni a conservare e a difendere la loro indipendenza, la loro identità culturale, la possibilità di organizzarsi socialmente, di gestire i propri affari, e di decidere liberamente del proprio destino, senza essere alla mercé, direttamente o indirettamente, di potenze straniere.
Voi conoscete come me i casi in cui questo diritto è palesemente violato.
Questi diritti sono l'espressione delle esigenze della dignità dell'uomo.
Espressi soprattutto in Occidente da coscienze che erano state formate dal cristianesimo, essi sono divenuti patrimonio di tutta l'umanità, e sono rivendicati in tutte le latitudini.
Ma, oltre che una rivendicazione, essi costituiscono per le persone e per gli stati il dovere di creare le condizioni che ne assicurino l'esercizio.
I paesi che vogliono sottrarsi a questi doveri, sotto vari pretesti - concezione totalitarista del potere, ossessione della sicurezza, volontà di mantenere dei privilegi per alcune categorie, ideologie, timori di ogni sorta - offendono la pace.
Essi vivono una pseudo-pace che può rischiare di provocare risvegli dolorosi.
Quando questi paesi escono dalla dittatura senza preparazione alla vita democratica - come si è visto per qualche paese lo scorso anno -, il cammino è difficile e lento.
Ciascuno deve allora prendere coscienza delle esigenze del bene comune, evitando gli eccessi individualistici della libertà.
Ma questi paesi meritano di essere incoraggiati su questo cammino della pace, il solo che abbia valore.
L'imperativo etico della pace e della giustizia di cui ho appena parlato si impone come un diritto e un dovere dapprima a livello della retta coscienza, negli uomini di buona volontà, nelle comunità che si preoccupano di ricercare sinceramente la pace e di educare ad essa nella verità.
Esso contribuisce allora a caratterizzare l'opinione pubblica.
Ma deve trovare anche un'espressione, un sostegno, una garanzia negli strumenti giuridici adeguati della società civile, nelle dichiarazioni o, meglio, nei trattati, negli accordi, nelle istituzioni, a livello nazionale, regionale, continentale, della comunità mondiale, al fine di evitare, per quanto possibile, ai più deboli di essere vittime della cattiva volontà, della forza o della manipolazione degli altri.
Il progresso della civiltà consiste nel trovare i mezzi per proteggere, difendere, promuovere, a livello delle strutture, ciò che è giusto e buono per la coscienza.
La stessa diplomazia, trova il suo campo di azione in questa mediazione tra la coscienza e la vita concreta.
Se questi sforzi vengono a mancare, a livello della coscienza delle persone e a livello delle strutture, l'autentica pace non è più garantita.
Essa è fragile e fittizia.
Essa rischia di ridursi allora all'assenza provvisoria di guerra, alla tolleranza, anche di fronte agli abusi che feriscono l'uomo, all'opportunismo; essa cede
davanti all'ansia di mantenere ad ogni costo i vantaggi particolari chiudendosi in sé,
e soprattutto davanti agli istinti di aggressività o di xenofobia,
davanti all'efficacia scontata della lotta di classe,
davanti alla tentazione di riporre la sua forza nella sola superiorità degli armamenti che intimidiscono l'avversario,
davanti alla legge del più forte,
davanti al terrorismo o ai metodi di certe guerriglie pronte ad adottare tutti i mezzi di violenza, anche sugli innocenti,
o ancora davanti agli abili tentativi di destabilizzazione degli altri paesi,
davanti alle manipolazioni,
davanti alla falsa propaganda,
e tutto questo sotto l'apparente ricerca del bene o della giustizia.
Quando si vedono le assurde devastazioni delle guerre e il pericolo maggiore delle distruzioni estese e profonde che comporta l'uso degli armamenti di cui dispongono alcuni paesi, si può ritenere che la situazione del mondo esiga un rifiuto, il più radicale possibile, della guerra come metodo di risoluzione dei conflitti.
È in questa prospettiva che, per il 27 ottobre, avevo invitato tutti coloro che erano impegnati in azioni di guerra a una tregua dei combattimenti, almeno per quel giorno.
La proposta è stata largamente accolta, e di ciò io mi rallegro.
È stato un gesto significativo che si è associato alla nostra supplica religiosa per la pace, e io credo all'efficacia spirituale dei segni.
Si trattava anche di
una causa che permetteva di risparmiare delle vite umane, che sono tutte preziose;
un'occasione data a ciascuno di meditare sulla vanità e sulla disumanità della guerra per risolvere le tensioni e i conflitti che i mezzi offerti dal diritto potrebbero regolare;
un invito a rinunciare, in nome del bene, alla violenza delle armi.
Certamente ciò non significa accantonare il principio secondo il quale ciascun popolo, ciascun governo ha il diritto e il dovere di proteggere, secondo i propri mezzi, la propria esistenza e la propria libertà contro un ingiusto aggressore.
Ma la guerra appare sempre più come il metodo più incivile e più inefficace di risolvere i conflitti tra due paesi o di conquistare il potere nel proprio paese.
Si deve fare di tutto per adottare strumenti di dialogo, di negoziato, avvalendosi, in caso di bisogno, dell'arbitrato imparziale di terzi, o di un'autorità internazionale con sufficienti poteri.
In ogni caso, una minaccia fondamentale deriva dalla crescita degli armamenti di ogni tipo allo scopo di assicurare il dominio sugli altri o a spese degli altri.
Non si dovrebbero ridurre le armi a un livello compatibile con la legittima difesa, rinunciando a quelle che non possono in alcun modo rientrare in questa categoria?
È necessario ripetere ancora una volta che una tale corsa agli armamenti è pericolosa, distruttiva e scandalosa agli occhi dei paesi che non hanno la possibilità di assicurare ai propri cittadini i mezzi di sopravvivenza alimentare o sanitaria?
È questa una delle chiavi del problema delle relazioni Nord-Sud che sembra, da un punto di vista etico, ancor più fondamentale di quella delle relazioni Est-Ovest.
Un altro punto cruciale è quello del debito estero e dell'equilibrio degli scambi, che la Santa Sede segue con particolare attenzione.
Poiché, in definitiva, ciò che conta è lo sviluppo solidale dei popoli.
La solidarietà è di natura etica ed è una chiave fondamentale per la pace.
Essa presuppone che si consideri il punto di vista del popolo che è nel bisogno e che si ricerchi ciò che è bene per lui, considerandolo come un agente attivo del proprio sviluppo.
Essa si fonda sulla consapevolezza che noi formiamo un'unica famiglia umana.
Tale è l'oggetto del messaggio per la Giornata mondiale della pace che vi ho affidato quest'anno.
Considerando lo sviluppo dei popoli nel loro insieme, si dovrebbero trovare i mezzi per aiutare i gruppi più ristretti che sono abbandonati a se stessi, in una miseria e in una minaccia indegne dell'umanità.
Sono innumerevoli.
Per fare un esempio, penso a coloro che sono vittime della carestia in Etiopia o nel Sudan; e penso al destino drammatico di tanti rifugiati.
Alcune ammirevoli iniziative private se ne occupano; ma che potranno fare se i governi e la comunità internazionale non daranno il loro contributo?
Dal messaggio della pace di quest'anno ( Ioannis Pauli PP. II, Nuntius ob XX diem ad pacem fovendam dicatum, 7, die 8 dec. 1986 ), riprendo solo questa frase a conclusione di questo incontro: "Se la solidarietà ci dà la base etica per un'azione appropriata, allora lo sviluppo diventa l'offerta che il fratello fa al fratello, in modo che entrambi possano vivere più pienamente in tutta la diversità e complementarietà che sono come i marchi di garanzia della civiltà umana".
Molto spesso, parlando dei diritti dell'uomo, noi consideriamo solamente l'uguaglianza fra gli uomini e la loro libertà.
L'uguaglianza degli uomini nella dignità deve essere garantita sempre e ovunque; essa non esige necessariamente l'uguaglianza di tutte le situazioni, che rischia di essere un'illusione e di provocare incessantemente conflitti.
Ciò che è fondamentale è la fratellanza.
Essa appare come la chiave di volta dell'edificio sempre fragile della democrazia, come l'obiettivo del cammino sempre difficile verso la pace, come la sua ispirazione decisiva.
Essa elimina la contraddizione che sorge tanto spesso fra uguaglianza e libertà.
Essa trascende la mera giustizia.
Essa è mossa dall'amore.
I padri del Concilio Vaticano II hanno sottolineato questo aspetto: "La pace è frutto anche dell'amore, il quale va oltre quanto è in grado di assicurare la semplice giustizia" ( Gaudium et Spes, 78 ).
Questo amore è al centro del Vangelo di Gesù Cristo, che lo ha fatto conoscere al mondo, in maniera incomparabile, invitando tutti gli uomini a farsi suo prossimo, come a un fratello.
Questo amore comporta un superamento di sé, che favorisce l'atteggiamento religioso, ma che è assolutamente necessario alla vita nella società.
Un mondo senza amore fraterno non conoscerà che una pace frammentaria, fragile, minacciata.
E, in caso di guerra, i paesi belligeranti saranno incapaci di rinunciare alla volontà di dominare, anche a prezzo di una tragica ecatombe o di un'assurda distruzione, perché lo riterrebbero umiliante.
Solo lo spirito di fratellanza porterà ad accettare e ad offrire una tregua o piuttosto una pace che non sia umiliante per l'altro.
Eccellenze, signore, signori, non è mia competenza proporre soluzioni tecniche più precise ai gravi problemi della pace e dello sviluppo che abbiamo ricordato.
Ma ho ritenuto opportuno meditare con voi sullo spirito che apre la porta a soluzioni durature: l'umiltà, il dialogo, il rispetto, la giustizia, la fratellanza.
L'esperienza di Assisi, a livello dei rappresentanti delle religioni, ha messo in rilievo questo spirito.
Possiate voi trovarvi una luce per la vostra nobile missione di ambasciatori!
E possa il mondo attingere alla medesima sorgente, per conoscere la pace a cui Dio lo ha destinato!