Dialogo della Divina Provvidenza |
- El contrario fa il miserabile disobbediente, che sta nella navicella de l’ordine con tanta pena a sé e ad altrui, che in questa vita gusta l’arra de l’inferno.
Egli sta sempre in tristizia, confusione e stimolo di conscienzia, con dispiacimento de l’ordine e del prelato suo; incomportabile è a se medesimo.
Or che è a vedere, figliuola mia, quello che ha presa la chiave de l’obbedienzia de l’ordine con la disobbedienzia, alla quale egli s’è facto schiavo, e la disobbedienzia ha facta donna, con la compagna della inpazienzia, nutricata dalla superbia col proprio piacere.
La quale superbia decto è che esce dall’amore proprio di sé.
Tucto si rivolle in contrario ad quello che decto t’ho della vera obbedienzia; e come può questo misero stare altro che in pena, che è privato della caritá?
Conviengli chinare il capo della volontá sua per forza; e la superbia gli li tiene ritto.
Tucte le sue volontá si discordano dalla volontá de l’ordine.
Egli li comanda l’obbedienzia, ed egli ama la disobbedienzia; la povertá volontaria, ed egli la fugge, possedendo e desiderando la ricchezza; vuole continenzia e puritá, ed egli inmondizia.
Trapassando questi tre voti, figliuola mia, il religioso cade in ruina e in tanti miserabili difecti, che l’aspecto suo non pare religioso, ma uno dimonio incarnato, sí come in un altro luogo Io ti narrai piú distesamente.
Non lassarò però che alcuna cosa non te ne conti dello inganno loro e del fructo che traggono della disobbedienzia, a comendazione ed exaltazione de l’obbedienzia.
Questo misero è ingannato dal proprio amore, perché l’occhio de l’intellecto suo s’è posto, con fede morta, nel piacere della propria volontá e nelle cose del mondo.
Ha saltato il mondo col corpo e rimastovi con l’affecto.
E perché gli pare fadiga l’obbedienzia, vuole disobbedire per fuggire fadiga; e egli cade in maxima fadiga, ché pure obbedire gli conviene o per forza o per amore.
Meglio gli era, e meno fadiga, a fare l’obbedienzia per amore che senza amore.
Oh! come è ingannato!
E neuno è che lo inganni, se non egli medesimo.
Volendo piacersi, egli si dispiace, dispiacendoli le sue operazioni stesse, che fará per l’obbedienzia che gli è posta.
Volendo stare in grande dilecto e farsi vita etterna in questa vita, e l’ordine vuole che egli sia perregrino, e continuamente glil dimostra, ché, quando egli s’è posto in uno luogo a sedere, dove vorrebbe stare per piacere e dilecto che egli vi truova, egli è mutato.
Nella mutazione ha pena, perché la volontá sua era viva a non volere.
E, se egli non obbedisce, e egli è suggecto a convenirli portare la disciplina e fadiga de l’ordine; e cosí sta in continuo tormento.
Vedi dunque che s’inganna: volendo fuggire le pene, cade intro le pene, perché la ciechitá sua non el lassa cognoscere la via della vera obbedienzia, che è una via di veritá, fondata ne l’obbediente Agnello, unigenito mio Figliuolo, che gli tolle la pena.
E però va per la via della bugia, credendovi trovare dilecto, e egli vi truova pena e amaritudine.
Chi vel guida? L’amore, che egli ha, per la propria passione, al disobbedire.
Questi, come stolto, vuole navicare in questo mare tempestoso sopra le braccia sue, fidandosi nel suo misero sapere; e non vuole navigare sopra le braccia de l’ordine e del prelato suo.
Questi sta bene nella navicella de l’ordine corporalmente, ma non mentalmente: anco n’è escito per desiderio, non observando l’ordinazioni né i costumi de l’ordine né i tre voti promessi, che egli promisse, nella sua professione, d’observare.
Egli sta nel mare della tempesta percosso dai venti molto contrari alla navicella.
Sta actaccato solo per li panni, portando l’abito in sul corpo, ma non in cuore.
Questo non è frate, ma uno uomo vestito: uomo in forma, ma in effecto e nel vivere suo è peggio che animale.
E non vede egli che piú fadiga gli è a navicare con le sue braccia che con l’altrui?
E non vede egli ch’egli sta a pericolo di morte etternale, come il panno si staccasse dalla navicella, che, subbito che fusse staccato col mezzo della morte, non avarebbe piú rimedio?
No, che egli nol vede: perché con la nuvila de l’amore proprio, unde gli è venuta la disobbedienzia, s’è privato del lume che non el lassa vedere e’ guai suoi.
Adunque miserabilemente s’inganna.
Che fructo produce l’arbore di questo misero?
Fructo di morte, perché ha piantata la radice de l’affecto suo nella superbia, che egli ha tracta del piacere e amore proprio di sé.
E però ogni cosa n’esce corrocto.
E’ fiori, le foglie e il fructo e i rami de l’arbore tucti sono guasti.
E’ tre rami, che ha questo arbore, sonno guasti, cioè il ramo de l’obbedienzia, povertá e continenzia, che sonno tre rami che si contengono nel pedone de l’affecto, el quale è male piantato, come decto è.
Le foglie che produce questo arbore, che sono le parole, sonno corrocte per sí facto modo che nella bocca d’uno ribaldo secolare non starebbero.
E, s’egli avará ad anunziare la parola mia, egli la gitta con parlare polito, none schiecto ch’egli actenda a pásciare l’anime di questo seme della mia parola, ma parlare molto politamente.
Se tu raguardi e’ fiori di questo arbore, essi gittano puzza: ciò sonno le varie e diverse cogitazioni, le quali voluntariamente riceve con dilecto e piacimento, non fuggendo el luogo né le vie che vel fanno venire; anco le cerca per potere venire a compimento del peccato, el quale è uno fructo che l’uccide, tollegli la vita della grazia e dágli morte etternale.
E che puzza gitta questo fructo generato col fiore de l’arbore?
Gitta puzza di disobbedienzia; col pensiero del cuore vuole investigare e giudicare in male la volontá del prelato suo: gitta inmondizia, dilectandosi con molte conversazioni col miserabile vocabolo delle divote.
O misero, tu non t’avedi che, socto il colore della devozione, riescirai con la brigata de’ figliuoli!
Questo ti dá la disobbedienzia tua.
Non hai presi e’ figliuoli delle virtú, sí come fa il vero obbediente.
Egli cerca d’ingannare il prelato suo, quando vede che gli diniega quello che la perversa sua volontá vorrebbe, usando le foglie delle parole lusinghevoli o aspre, parlando inreverentemente e con rimproverio.
Egli non conporta il fratello suo, né può sostenere una piccola parola né riprensione che gli fusse facta; ma subbito traie fuore il fructo avelenato della inpazienzia, ira e odio verso il fratello suo, giudicando in suo male quello che egli ha facto in suo bene; e, cosí scandalizzato, vive in pena l’anima e ’l corpo.
Perché è dispiaciuto al fratello suo?
Perché piacque a sé sensitivamente.
Egli fugge la cella come fusse uno veleno, perché egli è escito della cella del cognoscimento di sé, per la qual cosa egli venne a disobbedienzia: però non può stare nella cella actuale.
Nel refectorio non vuole apparire, se non come a suo nemico, mentre che egli ha che spendere: non avendo che, la necessitá vel mena.
Bene fecero dunque gli obbedienti, che volsero observare il voto della povertá per non avere che spendere, acciò che non gli traesse della soave mensa del refectorio, dove l’obbediente notrica in pace e in quiete l’anima e ’l corpo.
Non ha pensiere d’apparechiare né provedersi come il misero; el quale misero, al gusto suo, il visitare il refectorio gli pare amaro, e però il fugge.
Al coro sempre vuole essere l’ultimo a intrare e il primo che n’esca.
Con le labbra sue s’appressima a me, e col cuore se ne dilunga.
Il capitolo, per timore della penitenzia, il fugge volontieri quando egli può: lo starvi fa come se fusse suo nemico mortale, con vergogna e confusione nella mente sua ( quello che nel commectere le colpe non ebbe, non vergognandosi di commectere la colpa de’ peccati mortali ).
Chi ne gli è cagione? La disobbedienzia.
Egli, non vigilia né orazione, e non tanto l’orazione mentale, ma spesse volte l’officio, ad che egli è obligato, non il dirá; non caritá fraterna, ché egli non ama altro che sé, non d’amore ragionevole, ma d’amore bestiale.
Tanti sonno e’ mali che gli caggiono in capo al disobbediente, tanti sono i dolorosi fructi suoi, che la lingua tua non gli potrebbe narrare!
Oh disobbedienzia, che spogli l’anima d’ogni virtú e vestila d’ogni vizio!
Oh disobbedienzia, che privi l’anima del lume de l’obbedienzia, tollile la pace e da’le la guerra, tollile la vita e da’le la morte, traendola della navicella de l’observanzie de l’ordine, affoghila nel mare, facendola notare sopra le braccia sue e non sopra quelle de l’ordine.
Tu la vesti d’ogni miseria, fa’la morire di fame, tollendole il cibo del merito de l’obbedienzia.
Tu le dái continua amaritudine, e privila d’ogni dilecto di dolcezza e d’ogni bene, e fa’la stare in ogni male.
In questa vita le fai portare l’arra de’ crociati tormenti; e, se egli non si corregge inanzi ch’e’ panni si stacchino dalla navicella col mezzo della morte, tu, disobbedienzia, conduci l’anima a l’etterna danpnazione con le demonia, che caddero di cielo perché furono ribelli a me e andarono nel profondo.
Cosí tu, disobbediente, perché se’ stato ribello a l’obbedienzia; e questa chiave, con che dovevi aprire la porta del cielo, tu l’hai gittata da te, e con la chiave della disobbedienzia hai aperto lo ’nferno.
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