Regola pastorale |
Poiché abbiamo indicato come deve essere il Pastore, ora intendiamo dimostrare quale debba essere il suo insegnamento.
Infatti, come insegnò molti anni prima di noi Gregorio di Nazianzo di venerabile memoria, non a tutti si adatta un unico e medesimo genere di esortazione poiché sono diversi la natura e il comportamento di ciascuno, e spesso ciò che giova agli uni nuoce agli altri.
Così accade non di rado che certe erbe adatte a nutrire alcuni animali ne uccidono altri o che un leggero fischio che acquieta i cavalli eccita i cagnolini; e una medicina che fa passare una malattia ne aggrava un’altra; e il pane che rinvigorisce le persone forti uccide i bambini piccoli.
Dunque, il discorso di chi insegna deve essere fatto tenendo conto del genere degli ascoltatori per essere adeguato a quella che è la condizione propria dei singoli e tuttavia non decadere dal suo proprio genere che è di servire alla comune edificazione.
Infatti che cosa sono le menti degli ascoltatori se non, per così dire, corde ben tese di una cetra che l’artista tocca con diversa intensità per produrre un’armonia che si accordi col canto?
E le corde danno un’armonia ben modulata, perché sono toccate da un unico plettro ma con vibrazioni diverse.
Perciò il maestro per edificare tutti nell’unica virtù della carità deve toccare il cuore degli ascoltatori con una sola dottrina ma con un diverso genere di esortazione.
Infatti deve essere diverso il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le donne.
Diversa l’ammonizione per i giovani e per i vecchi;
per i poveri e per i ricchi;
per gli allegri e per i tristi;
per i sudditi e per i prelati;
per i servi e per i padroni;
per i sapienti di questo mondo e per gli incolti;
per gli sfrontati e per i timidi;
i presuntuosi e i pusillanimi;
gli impazienti e i pazienti;
i benevoli e gli invidiosi;
i semplici e gli insinceri;
i sani e i malati;
coloro che temono i castighi e perciò conducono una vita innocente e quelli tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono;
i taciturni e i chiacchieroni;
i pigri e i precipitosi;
i mansueti e gli iracondi;
gli umili e gli orgogliosi;
gli ostinati e gli incostanti;
i golosi e i temperanti;
quelli che distribuiscono per misericordia i propri beni, e coloro che fanno di tutto per rapire quelli degli altri;
quelli che né rapiscono i beni altrui né elargiscono i propri, e coloro che distribuiscono ciò che hanno e tuttavia non desistono dal rapire i beni altrui;
i litigiosi e i pacifici;
i seminatori di discordia e gli operatori di pace;
coloro che non intendono rettamente le parole della legge divina, e coloro che, invece, le intendono certo rettamente ma non ne parlano umilmente;
coloro che sono in grado di predicare degnamente ma temono di farlo per eccessiva umiltà e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo;
quelli che prosperano in tutto quel che desiderano nei beni temporali, e quelli che, pur accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa;
quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale;
quelli che hanno esperienza di unione carnale, e quelli che non l’hanno;
quelli che piangono peccati di opere, e quelli che piangono peccati di pensiero;
quelli che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono;
quelli che addirittura lodano le azioni illecite che compiono, e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano;
quelli che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e quelli che restano prigionieri della colpa con deliberazione;
quelli che commettono frequentemente peccati, sia pure minimi, e quelli che si custodiscono dai piccoli ma talvolta affondano nei più gravi;
quelli che non incominciano neppure a fare il bene, e quelli che dopo averlo incominciato non lo portano a termine;
coloro che fanno il male di nascosto e il bene in pubblico, e quelli che nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi male di loro per certe loro azioni pubbliche.
Ma non ci sarebbe alcuna utilità a passare in rassegna in una breve enumerazione tutte queste situazioni se non esponessimo anche, con la maggiore brevità possibile, i modi dell’ammonizione adatti a ciascuna di esse.
Dunque deve essere diverso il modo di ammonire gli uomini e le donne poiché agli uni bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri li rendano sempre operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna imporre pesi più leggeri che le convertano come accarezzandole.
Diverso deve essere il modo di ammonire i giovani e i vecchi poiché è la severità dell’ammonizione che per lo più guida i primi nel loro progresso mentre è un’amorevole preghiera che dispone i secondi a un agire migliore.
Poiché è scritto: Non sgridare un anziano ma pregalo come un padre ( 1 Tm 5,1 ).
Diverso è il modo di ammonire i poveri e i ricchi poiché agli uni dobbiamo offrire il sollievo della consolazione di fronte alla tribolazione, agli altri invece il timore di fronte all’esaltazione.
Al povero, il Signore dice, per mezzo del profeta: Non temere perché non sarai confuso.
E non molto tempo dopo dice con dolcezza: Poverina, sbattuta dalla tempesta ( Is 48,10 ).
E ancora la consola dicendo: Ti ho scelto nel crogiolo della povertà ( Is 54,4.11 ).
Paolo, al contrario, a proposito dei ricchi dice al discepolo: Ai ricchi di questo secolo ordina di non essere superbi e di non sperare nelle loro incerte ricchezze ( 1 Tm 6,17 ); dove occorre notare che il maestro dell’umiltà non dice: prega ma ordina, perché quantunque si debba usare misericordia alla debolezza, non si deve onore all’orgoglio.
Dunque, ciò che è giusto dire a tali persone viene loro tanto più giustamente comandato quanto più esse si gonfiano nell’esaltazione del loro pensiero riguardo a realtà che passano.
Di costoro il Signore dice nell’Evangelo: Guai a voi, ricchi, che avete la vostra consolazione ( Lc 6,24 ).
Poiché infatti essi ignorano in che cosa consistono le gioie eterne e si consolano con la ricchezza della vita presente.
Bisogna allora offrire consolazione a coloro che ardono nel crogiolo della povertà, mentre agli altri, che si esaltano nella consolazione della gloria mondana, occorre insinuare il timore; affinché i poveri apprendano che possiedono ricchezze che non vedono e i ricchi sappiano che non possono conservare le ricchezze che vedono.
Spesso tuttavia la qualità dei costumi inverte l’ordine delle persone, per cui il ricco è umile e il povero orgoglioso.
Subito allora la parola del predicatore deve adattarsi alla vita di chi ascolta così da colpire con tanto maggior rigore l’orgoglio nel povero in quanto neppure la povertà che gli è stata imposta riesce a piegarlo; e con tanta più dolcezza accarezzi l’umiltà dei ricchi in quanto neppure la ricchezza che inorgoglisce li esalta.
Tuttavia non di rado anche il ricco superbo deve essere placato con dolce esortazione, perché spesso dure ferite si alleviano con medicamenti leggeri e la furia dei pazzi è ricondotta al senno da un medico amorevole, così che quando si viene loro incontro con dolcezza si mitiga la malattia, dell’insania.
Infatti bisogna penetrare senza negligenza il significato più profondo di ciò che accadeva quando lo spirito avverso invadeva Saul, e David calmava la sua follia con la cetra ( cf. 1 Sam 16,23 ); giacché, a che cosa si accenna attraverso Saul se non all’orgoglio dei potenti?
E a che cosa attraverso David se non all’umile vita dei santi?
Dunque, quando Saul è afferrato dallo spirito immondo, la sua follia è moderata dal canto di David perché quando il sentimento dei potenti si muta in furore a causa dell’orgoglio, è opportuno che esso sia richiamato alla sanità della mente, dalla pacatezza del nostro parlare come dal dolce suono della cetra.
Ma talvolta, quando si tratta di confutare dei potenti di questo mondo, occorre prima metterli alla prova usando delle similitudini come se si trattasse di affare che non riguarda loro; e quando avranno proferito una giusta sentenza come rivolta a un altro, allora con i modi opportuni bisogna colpirli direttamente con l’accusa della loro colpa, affinché il cuore, gonfio della sua potenza mondana, non si erga contro chi lo rimprovera - poiché è col suo stesso giudizio che questi calpesta il suo collo superbo - ed esso non provi a difendersi in alcun modo, legato com’è dalla sentenza pronunciata con la sua stessa bocca.
Perciò, infatti, il profeta Natan era venuto ad accusare il re con l’aria di chiedere un giudizio contro un ricco in difesa di un povero ( cf. 2 Sam 12,1-15 ), affinché il re prima pronunciasse la sua sentenza e solamente dopo ascoltasse il suo peccato, senza poter contraddire ciò che era giusto, secondo quanto egli stesso aveva proferito contro di sé.
E così l’uomo santo considerando insieme il peccatore e il re, secondo un mirabile procedimento, prima legò il re temerario attraverso la confessione quindi lo troncò con l’accusa; per un poco celò chi veramente cercava ma colpi improvvisamente colui che teneva stretto.
Forse avrebbe agito su di lui con minore efficacia se fin dal principio del discorso avesse voluto colpire apertamente la colpa, mentre anticipando la similitudine rese più acuto il rimprovero che essa nascondeva.
Era venuto come un medico da un malato, vedeva che la ferita doveva essere tagliata ma dubitava della pazienza del malato; pertanto, nascose il bisturi sotto la veste e trattolo improvvisamente lo conficcò nella ferita, perché il malato lo sentisse tagliare prima di vederlo e non si fosse rifiutato di sentirlo se l’avesse veduto in precedenza.
Diverso è il modo di ammonire gli allegri e i tristi.
Agli allegri evidentemente bisogna presentare le tristezze che tengono dietro al castigo; ai tristi invece i gaudii promessi come frutto del regno.
Gli allegri imparino dalla durezza delle minacce ciò che devono temere; i tristi ascoltino le gioie del premio che già possono pregustare.
Ai primi, infatti, è detto: Guai a voi che ora ridete, poiché piangerete ( Lc 6,25 ); gli altri invece ascoltano l’insegnamento del medesimo maestro: Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà e nessuno vi toglierà la vostra gioia ( Gv 16,22 ).
Alcuni però non diventano allegri o tristi per le circostanze ma lo sono per temperamento nativo e ad essi bisogna certamente far conoscere che ci sono dei vizi verso i quali certi temperamenti sono più proclivi: infatti le persone allegre sono facili alla lussuria, le tristi all’ira.
Perciò è necessario che ognuno consideri non solamente ciò che deve sostenere a causa del suo temperamento, ma anche ciò che lo preme da vicino con peggiore pericolo, perché non avvenga che, mentre lotta contro ciò che deve sopportare, si trovi a soccombere davanti a quel vizio dal quale pensa di essere libero.
Diverso è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché l’assoggettamento non annienti i primi e la posizione elevata non esalti i secondi.
Quelli non compiano meno di ciò che è stato loro ordinato, e questi non ordinino più di quanto giustamente si può compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano con moderazione.
Infatti, per quanto si può anche intendere in modo figurato, ai sudditi viene detto: Figli, obbedite ai vostri genitori, nel Signore; e per i prelati c’è il precetto: E voi, padri, non provocate all’ira i vostri figli ( Col 3,20-21 ).
I primi imparino come disporre il proprio intimo agli occhi del Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro affidati.
I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione che essi offrono ai loro sudditi.
Perciò è necessario che si custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei delle anime altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi esempi.
Così occorre ammonire i sudditi, che saranno severamente puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto a se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda personalmente.
I sudditi abbiano una cura tanto più sollecita del proprio dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i prelati provvedano agli interessi altrui senza tralasciare di curare i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in nulla devono essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati.
Infatti a colui che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’ dalla formica, pigro, e considera le sue vie e impara la sapienza ( Pr 6,6 ); ma all’altro viene fatta una terribile ammonizione quando gli è detto: Figlio mio, ti sei impegnato per il tuo amico, hai dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio con le parole della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi ( Pr 6,1 ).
Infatti, impegnarsi per un amico equivale a prendere su di sé l’anima di un altro a rischio della propria vita; per questo poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo si lega a una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva.
Ed egli è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a coloro che gli sono stati affidati è necessario che prima egli stesso custodisca ciò che dice, ed è quindi propriamente preso al laccio dalle parole della sua bocca quando è costretto dalla coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va insegnando.
E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad adempiere, praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto agli altri a parole.
Segue poi subito e opportunamente l’esortazione: Dunque, fa’ quanto ti dico, figlio mio, e liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, corri, affrettati, sveglia il tuo amico, non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre ( Pr 6,3-4 ).
Chi infatti è preposto agli altri come esempio di vita è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma anche a svegliare l’amico.
Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che vegli, se non separa dal torpore del peccato anche colui a cui presiede.
Ed è detto bene: Non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre.
Dare sonno agli occhi significa trascurare affatto la cura dei sudditi cessando l’attenzione per loro.
E le palpebre sonnecchiano quando i nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo dissimulano, resi indolenti dalla pigrizia.
Infatti, dormire profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che va rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per una specie di pigra noia dello spirito.
Ma, sonnecchiando, l’occhio cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando chi governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della sua negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più riconoscere il peccato commesso dai sudditi.
Pertanto, bisogna ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro di sé e attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi per divenire animali celesti ( cf. Ez 1,18 ): quegli animali celesti che vengono descritti tutti pieni di occhi di dentro e di fuori ( cf. Ap 6,6 ).
Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano abbiano occhi rivolti dentro di sé e attorno e, mentre cercano di piacere nel loro intimo al Giudice interiore, offrendo all’esterno esempi di vita scorgano anche ciò che va corretto negli altri.
I sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei loro superiori, se capita di vederli fare qualche cosa degna di rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali peggiori.
Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei superiori, non diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di fatto in essi alcune gravi colpe, le discernano così però da non rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro confronti il giogo del rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio.
Ciò si dimostra meglio portando l’esempio di quanto fece David: una volta che Saul, il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là c’era David coi suoi uomini - il quale già da lungo tempo portava il peso della sua persecuzione - questi, poiché i suoi lo incitavano a colpire Saul, li persuase con la risposta che non si doveva mettere le mani sull’unto del Signore.
Tuttavia si alzò di nascosto e gli tagliò il lembo del mantello ( cf. 1 Sam 24,4ss ).
Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e David, se non i buoni sudditi?
Pertanto, Saul che evacua designa i superiori empi che estendono la malizia concepita nel cuore a compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei fatti i pensieri colpevoli del loro intimo.
E tuttavia David ebbe timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono da ogni pestifera maldicenza non colpiscono la vita dei superiori, con la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la loro imperfezione.
E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno fatica ad astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è come se tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di loro.
Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola.
Perciò si trova giustamente scritto in quel luogo: Dopo ciò David percosse il suo cuore, per aver tagliato l’orlo del mantello di Saul ( 1 Sam 24,6 ).
Dunque, le azioni dei superiori non bisogna ferirle con la spada della bocca, anche quando si giudica che sia giusto rimproverarle.
Se però qualche volta la lingua si lascia andare anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il giudizio di colui che gliel’ha preposta.
Perché quando pecchiamo contro i superiori contravveniamo a quella disposizione che ce li ha preposti.
Perciò anche Mosè, quando venne a sapere che il popolo si lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che cosa siamo noi?
La vostra mormorazione non è contro di noi, ma contro il Signore ( Es 16,8 ).
Diverso è il modo di ammonire i servi e i padroni.
I servi, bisogna ammonirli a considerare sempre in se stessi l’umiltà della loro condizione; i padroni, a non dimenticare la propria natura per la quale sono creati uguali ai loro servi.
I servi bisogna ammonirli a non disprezzare i loro padroni per non offendere Dio insuperbendo e contraddicendo alla sua disposizione; ma bisogna ammonire anche i padroni che, a loro volta, insuperbiscono contro Dio riguardo al suo dono se non riconoscono uguali a sé, per la comune natura, coloro che, per la loro condizione, tengono sottomessi.
I servi bisogna ammonirli a sapere di essere servi dei loro padroni; i padroni bisogna ammonirli a riconoscere di essere conservi dei loro servi.
Agli uni infatti è detto: Servi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne ( Col 3,22 ).
E ancora: Coloro che sono sotto il giogo della servita giudichino i loro padroni degni di ogni onore ( 1 Tm 6,1 ); ma agli altri è detto: E voi, padroni, fate lo stesso con loro rinunciando a minacciarli, sapendo che il padrone vostro e loro è nei cieli ( Ef 6,2 ).
Diverso è il modo di ammonire i sapienti di questo mondo e gli incolti.
I sapienti, bisogna ammonirli a perdere la scienza di ciò che sanno; gli incolti invece, a desiderare di sapere ciò che non sanno.
Negli uni la prima cosa da distruggere è il fatto che essi si giudicano sapienti; negli altri, bisogna ormai edificare tutto ciò che si conosce della sapienza celeste, poiché in loro non c’è alcuna superbia e con ciò è come se avessero preparato i loro cuori a ricevere quell’edificio.
Coi sapienti bisogna affaticarsi perché divengano più sapientemente stolti: abbandonino la sapienza stolta ed imparino la sapiente stoltezza di Dio ( cf. 1 Cor 1,25 ); agli incolti invece, bisogna predicare in modo che, dalla loro apparente stoltezza si accostino più da vicino alla vera sapienza.
Infatti, ai primi è detto: Se qualcuno di voi sembra sapiente in questo secolo, diventi stolto per essere sapiente ( 1 Cor 3,18 ); e agli altri è detto: Non molti sapienti secondo la carne ( 1 Cor 1,26 ).
E ancora: Dio ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti ( 1 Cor 1,27 ).
Per lo più ci vogliono ragionamenti per convertire i primi; per gli altri, molto spesso valgon meglio gli esempi.
A quelli, pertanto, giova rimanere vinti nelle loro argomentazioni; per questi invece, in genere è sufficiente che conoscano azioni altrui degne di lode.
Perciò il grande maestro, debitore verso i sapienti e verso gli insipienti ( Rm 1,14 ), insegnando agli Ebrei, tra i quali alcuni erano sapienti e altri anche piuttosto rozzi, e parlando loro del compimento dell’Antico Testamento, superò la loro sapienza con l’argomento: Quanto è antiquato e vecchio è presso alla morte ( Eb 8,13 ).
Ma poi, rendendosi conto che alcuni si potevano trascinare solamente con la forza degli esempi, aggiunse nella medesima lettera: I santi sperimentarono schemi e battiture e inoltre catene e carcere, furono lapidati, segati, sottoposti a dure prove, uccisi di spada ( Eb 11,36-37 ).
E ancora: Ricordatevi dei vostri superiori che vi hanno parlato la Parola di Dio e, considerando quale fu il termine della loro esistenza, imitatene la fede ( Eb 13,7 ).
E così vinceva gli uni con la forza del ragionamento; e gli altri li persuadeva ad elevarsi a una vita superiore attraverso una dolce imitazione.
Diverso è il modo di ammonire gli sfrontati e i timidi.
I primi, infatti, nulla vale a trattenerli dal vizio della sfrontatezza se non un duro rimprovero, mentre gli altri per lo più si dispongono al meglio con una esortazione moderata.
Quelli non si accorgono di fare il male se non ricevono rimproveri da più parti; a convertire i timidi, per lo più è sufficiente che il maestro gli richiami alla mente con dolcezza le loro mancanze.
Gli sfrontati, li corregge meglio chi li affronta con un violento rimprovero, ma coi timidi si raggiunge un miglior risultato se si sfiora appena ciò che in essi occorre rimproverare.
Perciò il Signore, rimproverando apertamente il popolo sfrontato dei Giudei, dice: La tua fronte è divenuta come quella di una donna prostituta: non hai voluto arrossire ( Ger 3,3 ).
E di nuovo conforta colei che si vergogna, dicendo: Ti dimenticherai della vergogna della tua adolescenza, e non ricorderai l’obbrobrio della tua vedovanza, perché sarà tuo Signore colui che ti ha fatta ( Is 54,4-5 ).
E Paolo sgrida apertamente anche i Galati che peccavano con sfrontatezza, dicendo: O Galati insensati, chi vi ha affascinato? ( Gal 3,1 )
E ancora: Siete così stolti che dopo avere incominciato con lo spirito finite con la carne? ( Gal 3,3 ).
Ma le colpe dei timidi le rimprovera quasi con compassione, dicendo: Ho gioito grandemente nel Signore che finalmente sono rifioriti i vostri sentimenti verso di me, come già li avevate ma eravate presi [ da altro ] ( Fil 4,10 ).
E così, col rimprovero duro toglieva le colpe degli uni, e con parole più dolci copriva la negligenza degli altri.
Diverso è il modo di ammonire i presuntuosi e i pusillanimi.
Quelli infatti, sono molto sicuri di sé e rimproverano sdegnosamente gli altri; questi invece, troppo consci della propria debolezza, per lo più si lasciano andare alla disperazione.
I primi hanno una straordinaria altissima stima di tutto ciò che compiono; gli altri giudicano affatto spregevole ciò che fanno e perciò si scoraggiano e disperano.
Per questo, chi deve riprendere le azioni dei presuntuosi, deve discuterle con grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò in cui essi piacciono a se stessi, dispiacciono a Dio.
È allora infatti che li correggiamo meglio, cioè quando dimostriamo loro che quel che credono di aver fatto bene è fatto male, così che proprio di dove si crede di aver raggiunto la gloria provenga un utile turbamento.
Spesso però, quando proprio non si rendono conto per nulla di peccare di presunzione, si correggono più rapidamente se restano confusi per il rimprovero rivolto a un’altra colpa più manifesta scoperta in loro, così che da ciò di cui non sono in grado di difendersi riconoscano che non sostengono rettamente ciò che difendono.
Perciò Paolo, rivolgendosi ai Corinzi che vedeva presuntuosamente gonfi gli uni verso gli altri dire che uno era di Paolo, l’altro di Apollo, l’altro di Cefa, l’altro di Cristo ( cf. 1 Cor 1,12 ), tirò fuori quel peccato di incesto che era stato commesso presso di loro e restava impunito, dicendo: Si sente dire che si dà una fornicazione tra di voi, e una tale fornicazione quale non è ammissibile neppure fra i gentili, e cioè che uno abbia come sua la moglie di suo padre.
E voi vi siete gonfiati e non avete fatto piuttosto lutto, perché fosse tolto di tra voi colui che ha commesso una tale azione ( 1 Cor 5,1-2 ).
Come se dicesse apertamente: Perché nella vostra presunzione dite di essere di questo e di quello, voi che mostrate di non essere di nessuno per questa negligenza con cui vi siete sciolti da ogni legame?
Al contrario, riconduciamo al bene i pusillanimi in modo più appropriato se ci informiamo indirettamente di qualche loro buona azione e, lodandola, li confortiamo nello stesso momento in cui li dobbiamo accusare rimproverandogliene altre; affinché la lode ricevuta sostenga la loro timidezza mentre riceve il castigo dal rimprovero della colpa.
Spesso tuttavia otteniamo un risultato più utile con loro se richiamiamo anche solo ciò che hanno fatto di bene; e se hanno compiuto qualche cosa di irregolare non glielo rimproveriamo come una colpa già commessa, ma ci limitiamo a distoglierli da quella come se dovessero ancora commetterla, affinché la benevolenza manifestata accresca in loro le azioni che approviamo, mentre contro le azioni che dobbiamo rimproverare più che il rimprovero abbia maggiore efficacia presso di loro una esortazione riguardosa.
Perciò il medesimo Paolo, vedendo che i Tessalonicesi fermi nella predicazione ricevuta erano turbati da un senso di paura come per una prossima fine del mondo, prima loda quanto scorge in loro di forte, e solo dopo, con caute ammonizioni, rafforza la loro debolezza.
Dice infatti: Dobbiamo ringraziare sempre Dio per voi, fratelli, come è degno, perché la vostra fede aumenta e abbonda in ciascuno di voi la carità vicendevole; così che noi stessi ci gloriamo per voi nelle chiese di Dio, per la vostra pazienza e la vostra fede ( 2 Ts 1,3-4 ).
E dopo avere premesso queste lodi lusinghiere riguardo alla loro vita, poco dopo prosegue dicendo: Vi preghiamo tuttavia, fratelli, per la venuta del nostro Signore Gesti Cristo e il nostro riunirci in Lui, che non vi lasciate smuovere troppo presto dal vostro sentire né spaventare da spirito o da discorso o da lettera come fosse stata scritta da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente ( 2 Ts 2,1 ).
Così, da vero maestro, fece in modo che prima si sentissero lodati per ciò che riconoscevano di sé, e quindi si sentissero esortati rispetto a ciò che dovevano seguire; affinché la lode premessa rafforzasse il loro spirito per accogliere senza turbamento la ammonizione che sarebbe seguita.
E sebbene sapesse che essi erano turbati dal timore della prossima fine, non li rimproverava per questo, ma come se ignorasse addirittura la cosa, quasi non si fosse ancora data, li preveniva affinché non si turbassero.
E questo perché, mentre per quel lieve cenno potevano credere che il loro maestro avesse addirittura ignorato questo aspetto in loro, temessero però sia di meritare il rimprovero sia di essere in ciò conosciuti da lui.
Diverso è il modo di ammonire gli impazienti e i pazienti.
Infatti, agli impazienti bisogna dire che trascurando di frenare la loro natura precipiteranno in molte azioni inique contro la loro stessa intenzione, perché evidentemente il furore spinge l’animo dove non desidererebbe essere trascinato e, senza che uno se ne renda conto, provoca turbamenti, di cui poi egli si duole quando ne prende coscienza.
Bisogna dire pure agli impazienti che quando agiscono come folli per impulso di un moto precipitoso, a stento si rendono conto delle proprie azioni cattive solo dopo che le hanno compiute.
Coloro che non contrastano per nulla le proprie emozioni, turbano anche ciò che forse avevano compiuto tranquillamente, e per un improvviso impulso distruggono tutto ciò che forse avevano costruito con lunga e provvida fatica.
Per il vizio dell’impazienza si perde perfino la virtù, poiché è scritto: La carità è paziente ( 1 Cor 13,4 ).
Pertanto, se non è paziente affatto non è carità.
Anche la stessa scienza che alimenta le altre virtù è dissipata dal vizio dell’impazienza, infatti è scritto: La scienza dell’uomo si apprende attraverso la pazienza ( Pr 19,11 ); per cui tanto meno uno si mostra dotto quanto meno si dimostra paziente.
E neppure può compiere con verità il bene a parole, se nella vita non sa sopportare in pace i difetti altrui.
Inoltre, per questo vizio dell’impazienza lo spirito resta ferito dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non sopporta di essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto all’arroganza e, per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in mostra se stesso si gloria con l’ostentazione.
Perciò sta scritto: È meglio il paziente dell’arrogante ( Qo 7,9 ); poiché evidentemente il paziente preferisce sopportare qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi beni nascosti.
L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di qualche bene, anche falsamente, pur di non dover sopportare neppure il più piccolo male.
Pertanto, poiché quando si abbandona la pazienza va distrutto anche il resto di bene che si è compiuto, giustamente in Ezechiele si trova il precetto che sull’altare di Dio si faccia una cavità perché si conservino gli olocausti che vi stanno sopra ( cf. Ez 43,13 ).
Infatti se nell’altare non ci fosse la cavità i resti di quel sacrificio sarebbero dispersi dal vento.
Ma che cosa dobbiamo intendere per altare di Dio se non l’anima del giusto che pone su di sé, davanti agli occhi di Lui, quanto di bene ha compiuto come sacrificio?
E che cos’è la cavità dell’altare se non la pazienza dei buoni che umilia il loro spirito per sopportare le avversità e lo mostra come adagiato nel fondo di una fossa?
Si faccia dunque una cavità nell’altare, affinché il vento non disperda il sacrificio che vi sta sopra; cioè, lo spirito degli eletti custodisca la pazienza per non perdere, a causa del vento dell’impazienza, anche ciò che di bene ha compiuto.
Ed è giusto che quella medesima cavità, secondo quanto è descritto, sia di un solo cubito; poiché è naturale che se non si abbandona la pazienza si conserva la misura dell’unità.
Per cui anche Paolo dice: Portate a vicenda i vostri pesi, e così adempirete la legge di Cristo ( Gal 6,2 ).
Poiché la legge di Cristo è la carità dell’unità che compiono solamente coloro i quali, anche quando portano grave peso, non trascendono.
Ascoltino gli impazienti ciò che sta scritto: È meglio un paziente che un uomo forte, e chi domina il suo animo pia che un conquistatore di città ( Pr 16,32 ).
Vale meno infatti una vittoria contro delle città, giacché ciò che in questo caso si sottomette è qualcosa di esterno; ma è molto di più ciò che si vince con la pazienza, poiché è l’anima che si lascia vincere da se stessa e si sottomette se stessa quando la pazienza la spinge a frenarsi dentro di sé.
Ascoltino gli impazienti ciò che la Verità dice ai suoi eletti: Nella vostra pazienza possederete le vostre anime ( Lc 21,19 ).
Infatti siamo stati creati in modo così mirabile che lo spirito possiede l’anima e l’anima possiede il corpo; ma all’anima è rifiutato il suo diritto di possedere il corpo se essa non è prima posseduta dallo spirito.
Pertanto il Signore, insegnandoci che nella pazienza possediamo noi stessi, ci ha insegnato che la pazienza è custode della nostra condizione naturale.
Perciò possiamo conoscere quanto sia grande la colpa dell’impazienza se per essa perdiamo perfino il possesso di ciò che siamo.
Ascoltino gli impazienti ciò che ancora dice Salomone: Lo stolto sfoga tutto il suo animo, il sapiente invèce attende e lo serba per l’avvenire ( Pr 29,11 ).
Per l’impulso dell’impazienza avviene che tutto l’animo si sfoghi al di fuori, ed è naturale che l’agitazione lo riversi all’esterno poiché nessuna sapiente disciplina lo trattiene interiormente.
Ma il sapiente attende e lo serba per l’avvenire.
Infatti, se viene offeso non desidera vendicarsi subito, poiché anche dovendo sopportare preferisce trattenersi, tuttavia non ignora che tutto riceverà la giusta vendetta nell’ultimo giudizio.
Al contrario, bisogna ammonire i pazienti a non dolersi interiormente di ciò che sopportano al di fuori, per non corrompere nell’intimo con la peste della malizia l’intensità di quel sacrificio ricco di virtù che immolano interiormente; e la colpa di questo dolore, non riconosciuta come tale dagli uomini, ma peccato di fronte all’esame divino, non divenga tanto peggiore proprio in quanto davanti agli uomini pretende di passare per virtù.
Dunque bisogna dire ai pazienti che si studino di amare coloro che sono costretti a sopportare, perché se la pazienza non è accompagnata dalla carità, la virtù che ostenta non si muti nella peggiore colpa dell’odio.
Perciò Paolo, dopo avere detto: La carità è paziente, aggiunge subito: La carità è benigna ( 1 Cor 13,4 ), volendo mostrare chiaramente che essa non cessa di amare con benignità coloro che sopporta con pazienza.
Perciò il medesimo egregio maestro, esortando i discepoli alla pazienza con le parole: Ogni asprezza e ira e sdegno e clamore e ingiuria sia tolta da voi ( Ef 4,31 ), come dopo averli già tutti ben disposti esteriormente, si rivolge al loro intimo e aggiunge: con ogni malizia; poiché, evidentemente, invano si toglie all’esterno lo sdegno, il clamore e l’ingiuria se nell’intimo domina la malizia madre dei vizi; e invano si incide al di fuori dei rami il male se esso si conserva nell’intimo della radice, pronto a riaffiorare moltiplicato.
Perciò la Verità stessa dice: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano ( Lc 6,27-28 ).
Dunque è virtù davanti agli uomini sopportare i nemici, ma davanti a Dio la virtù è amarli, poiché Dio accoglie soltanto quel sacrificio che la fiamma della carità accende davanti ai suoi occhi sull’altare delle buone opere.
Perciò dice ancora ad alcuni pazienti ma non caritatevoli: Perché vedi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non vedi la trave nel tuo occhio? ( Mt 7,3 ), significando che il turbamento dell’impazienza è la pagliuzza, ma la malizia in cuore è la trave nell’occhio.
Infatti il soffio della tentazione agita il filo di paglia, ma la malizia consumata porta la trave quasi senza scosse.
E giustamente in quel passo si prosegue: Ipocrita, getta via prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per gettare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello ( Mt 7,5 ), come se dicesse all’anima malvagia che si rode interiormente e all’esterno invece si mostra santa per la pazienza: prima fa’ uscire da te la tua pesante malizia e poi rimprovera agli altri la loro leggera impazienza, affinché il tollerare i peccati altrui non sia per te peggio, se non ti sforzi a vincere lo spirito di simulazione.
Suole anche accadere spesso alle persone pazienti che, proprio nel momento in cui o sopportano avversità o ricevono ingiurie, non si sentano spinte da nessun risentimento e mostrino così una pazienza tale che permette loro di conservare anche l’innocenza del cuore.
Ma quando, passato un po’ di tempo, richiamano alla memoria ciò che hanno dovuto sopportare, accendono in sé il fuoco del risentimento e vanno a cercare gli argomenti per vendicarsi; e con questa intima ritrattazione mutano in malizia la mansuetudine che avevano conservato nella pazienza.
Allora il maestro li soccorre ben presto se gli manifesta la causa di questo mutamento.
Infatti l’astuto avversario muove guerra contro due tipi di persone: uno lo accende spingendolo ad offendere per primo, l’altro lo provoca a restituire l’offesa ricevuta; mentre riesce subito vincitore sul primo che si è lasciato persuadere all’ingiuria, resta poi vinto da colui che porta tranquillamente l’offesa ricevuta.
Pertanto, vincitore del primo che è riuscito a soggiogare agitando il suo animo, si erge con tutta la sua potenza contro l’altro e si irrita che questi gli resista con forza e vinca; ma poiché non poté turbarlo nell’attimo stesso in cui riceveva l’ingiuria, rinunciando per il momento alla lotta aperta e attaccando il suo pensiero con una suggestione segreta, cerca il tempo adatto per trarlo in inganno.
Infatti ha perduto nel pubblico combattimento e arde di esercitare nascostamente le sue insidie.
Così, nel tempo del riposo, ritorna all’animo del vincitore e gli richiama alla memoria le perdite materiali subite o le ferite delle ingiurie, e maggiorando grandemente quanto di male gli è stato inflitto glielo mostra intollerabile e gli turba la mente con tanta tristezza, che spesso l’uomo paziente, divenuto prigioniero dopo la vittoria, arrossisce di avere sopportato tranquillamente quelle offese, si duole di non averle ricambiate e cerca, se si offra l’occasione, di renderne di peggiori.
A chi dunque sono simili costoro se non a quelli che per la loro forza riescono vincitori in campo aperto, ma per la loro negligenza in seguito si lasciano fare prigionieri dentro le mura della città?
A chi sono simili se non a coloro che una improvvisa e grave malattia non li strappa alla vita, ma li uccide una leggera febbre recidiva?
Così bisogna ammonire le persone pazienti a fortificare il loro cuore dopo la vittoria perché il nemico battuto in aperto combattimento non mediti di insidiare le mura del pensiero; e temano maggiormente la malattia che riprende a serpeggiare più insidiosamente, perché il nemico astuto non goda poi dell’inganno con una esultanza tanto maggiore in quanto, ora calpesta i colli dei suoi vincitori che prima si ergevano contro di lui.
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