Discorsi sul Nuovo Testamento |
1.1 - La predicazione di Paolo in Atene
1.2 - La fede dei Cristiani
2.3 - Epicurei e Stoici discutono con Paolo
3.4 - Tutti desiderano la vita felice
4.5 - L'opinione degli Epicurei e degli Stoici sulla vita felice
5.6 - L'opinione degli Epicurei non è approvata dall'Apostolo. Gli Epicurei che pensano dell'anima.
Certi Cristiani epicurei percondotta di vita
6.7 - Il digiuno unito alla preghiera e all'elemosina
7.8 - L'opinione degli Stoici non è approvata dall'Apostolo
8.9 - Sono da respingere le affermazioni degli Epicurei e degli Stoici sulla felicità
8.10 - Cristo è la beatitudine e la via alla beatitudine
Durante la lettura del libro Atti degli Apostoli, la Carità vostra, ha notato insieme a me che Paolo tenne un discorso agli Ateniesi e come da parte di coloro che deridevano la predicazione della verità fosse stato chiamato un seminatore di parole. In realtà fu detto dai derisori, ma non va rigettato dai credenti.
Egli era veramente un seminatore di parole, ma mietitore di buoni costumi.
E noi, sebbene tanto piccoli e per nulla paragonabili all'eccellenza di lui, seminiamo le parole di Dio, nel campo di Dio, che è il vostro cuore, e ci attendiamo una copiosa messe dai vostri buoni costumi.
Nondimeno vi esortiamo ad ascoltare con maggiore attenzione ciò che è contenuto appunto nella lettura da cui siamo sospinti a parlare alla Carità vostra, se in qualche modo, con l'aiuto del Signore Dio nostro, diremo qualcosa su ciò che non è possibile sia capito facilmente da tutti, a meno che non sia spiegato; e perché, una volta compreso, non debba essere disprezzato da alcuno.
Teneva il discorso in Atene.
Gli Ateniesi, in fatto di ogni genere di erudizione e di dottrina, s'imponevano con grande fama in mezzo agli altri popoli.
Era appunto la patria di grandi filosofi.
Di qui la varia e molteplice dottrina si era divulgata nelle altre città della Grecia ed in altri paesi del mondo.
Ivi parlava l'Apostolo, vi annunziava Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i Pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. ( 1 Cor 1,23-24 )
A voi considerare di quanto pericolo era annunziare questo tra i superbi e i dotti.
E così dunque, al termine del discorso, avendo quelli ascoltato della risurrezione dei morti, fondamentale verità di fede dei Cristiani, alcuni se ne ridevano, altri invece dicevano: Ti ascolteremo su questo un'altra volta.
Né mancarono coloro che divennero credenti e, tra di essi, si fa il nome di un certo Dionigi Areopagita, cioè di un magistrato di Atene ( infatti la Curia degli Ateniesi era chiamata Areopago ), una donna della nobiltà ed altri.
In conseguenza, mentre parlava l'Apostolo, quella moltitudine si divise in tre correnti, secondo una spiccata distinzione graduale: derisori, irresoluti, credenti. Infatti, secondo come è stato scritto, abbiamo ascoltato: Alcuni se ne ridevano, altri dicevano: Su questo ti ascolteremo un'altra volta; ( At 17,32 ) costoro erano irresoluti, alcuni credettero.
Tra i derisori e i credenti sono al centro gli irresoluti.
Chi deride, cade; chi crede, sta in piedi; chi è irresoluto è nell'incertezza.
Su questo ti ascolteremo un'altra volta, essi dicono; non si sa se sarebbero caduti con i derisori o se si sarebbero posti in piedi con i credenti.
2.2 - Forse che tuttavia si affaticò inutilmente quel seminatore di parole?
Se veramente avesse avuto timore dei derisori, non sarebbe giunto ai credenti; come nel Vangelo quel seminatore che il Signore presenta ( poiché tale era effettivamente Paolo ), se esitasse a seminare perché una parte dei semi non cadesse sulla strada, un'altra tra le spine, un'altra sugli spazi sassosi, il seme non potrebbe giungere mai alla terra fertilissima.
Anche noi seminiamo, spargiamo; disponete i cuori, date il frutto.
Durante la lettura, se la Carità vostra ricorda, abbiamo ascoltato anche questo: alcuni filosofi Epicurei e Stoici discutevano con l'Apostolo.
Chi siano o chi siano stati i filosofi Epicurei e Stoici, cioè quale sia stato il loro pensiero, che abbiano ritenuto come verità, a che abbiano approdato le loro assidue ricerche, indubbiamente molti di voi lo ignorano, ma, poiché parliamo a Cartagine, molti lo sanno.
Così, ora che vi parleremo ci aiutino.
Di certo molto serve allo scopo ciò che ritengo doversi dire.
Ci ascoltino e quanti sanno e quelli che non sanno: questi per essere istruiti, quelli per essere ammoniti; gli uni per conoscere, gli altri per riconoscere.
Per prima cosa, state a sentire qual è, in linea generale, lo studio comune a tutti i filosofi.
In tale assidua applicazione comune diedero origine a cinque correnti, orientate secondo le differenze delle proprie asserzioni.
Tutti i filosofi, senza distinzione, attraverso lo studio, la ricerca, la discussione, l'esperienza della vita cercarono di assicurarsi una vita felice.
Questo fu l'unico motivo della ricerca filosofica; ma penso che i filosofi hanno in comune con noi anche questo.
Infatti, se voglio sapere da voi per quale ragione avete creduto in Cristo, perché siete divenuti Cristiani, ognuno sinceramente mi risponde: Per la vita felice.
Ebbene, l'aspirazione alla vita felice è comune ai filosofi e ai Cristiani.
Ma di qui sorge la questione: dove si possa trovare un oggetto di così unanime consenso, quindi la distinzione.
Poiché ritengo per certo che è proprio di tutti gli uomini aspirare alla vita felice, volere la vita felice, bramare, desiderare, ricercare assiduamente la vita felice.
Quindi riconosco che è assai inadeguato aver detto comune ai filosofi e ai Cristiani l'aspirazione alla vita felice; dovevo infatti attribuirla a tutti gli uomini, proprio a tutti, buoni e cattivi.
Giacché chi è buono, in tanto è buono, in quanto vuole essere felice; e chi è cattivo, non sarebbe cattivo se non sperasse di poter essere felice in quanto tale.
Quanto ai buoni, la questione non presenta difficoltà: per la ragione che desiderano la vita felice ne segue che sono buoni.
Riguardo ai cattivi, pare che alcuni mettano in dubbio se anch'essi cerchino la vita felice.
Ma se io potessi interrogare i cattivi, separati e appartati dai buoni, e dire: Volete essere felici? nessuno direbbe: Non voglio.
Ad esempio, supponi uno che sia ladro; gli chiedo: Perché rubi? Per avere - risponde - quel che non avevo.
Perché vuoi avere ciò che non avevi? Perché è una miseria non avere.
Quindi, se è una miseria non avere, ritiene cosa felice avere.
Ma la sua sfrontatezza e il suo errore sta nel fatto che, essendo cattivo, vuole essere felice.
Infatti per tutti la felicità è un bene.
Perché allora quello è un depravato? Perché desidera il bene e compie il male.
Che vuole allora? Perché l'avidità dei cattivi aspira alla ricompensa dei buoni?
La vita felice è la ricompensa dei buoni: la bontà è l'opera, la felicità è la ricompensa.
Dio comanda l'opera, assegna la ricompensa; dice: Fa' questo e riceverai quello.
Ma quel perverso ci risponde: Non sarò felice se non operando il male.
Come se uno dicesse: Non raggiungo il bene se non sarò cattivo.
Non ti accorgi che bene e male si escludono a vicenda?
Vuoi il bene, ma fai il male? Corri in senso opposto: quando arrivi?
Lasciamo allora da parte costoro; forse sarà opportuno che torniamo ad essi dopo aver messo in chiaro ciò che avevamo introdotto riguardo ai filosofi.
Non ritengo infatti senza ragione che, con l'assistenza della divina Provvidenza, si sia trattato qualcosa d'importante per via di persone inconsapevoli, e che, pur essendo molte le scuole filosofiche nella città di Atene, non altri che Stoici ed Epicurei entrarono in discussione con Paolo. ( At 17,18 )
Infatti, quando avrete ascoltato qual è la corrente di pensiero di ogni loro scuola, vi renderete conto di quanto è lontano dall'essere casuale il fatto che, di tutti i filosofi, furono i soli nel confronto con Paolo.
Evidentemente egli non si trovò libero di scegliere i contestatori da confutare; ma la divina Sapienza, che tutto dispone, gli fece trovare innanzi costoro, tra i quali quasi unicamente trovava fondamento la posizione inconciliabile dei filosofi.
Mi spiego quindi in breve: quanti non sanno si rimettano a noi, e noi ci rimettiamo al giudizio di quanti sanno.
Penso di non avere l'impudenza di mentire agli sprovveduti alla presenza di competenti in veste di giudici; soprattutto perché espongo qualcosa su cui alla pari possono dare sinceramente il loro giudizio e i dotti e gli indotti.
Avanzo perciò questa premessa: l'uomo consta di anima e di corpo.
Qui non mi attendo il vostro consenso, ma richiedo anche da voi che siate giudici.
Non temo infatti che mi giudichi male, riguardo a tale affermazione, uno che conosce se stesso.
Dunque, l'uomo consta di anima e di corpo, cosa che nessuno mette in dubbio.
Tale sostanza, tale realtà, tale persona, cui si dà il nome di " uomo ", desidera la vita felice; e voi lo sapete, né insisto perché crediate, ma vi esorto a riconoscerlo.
L'uomo, ripeto, questa realtà non insignificante, superiore a tutti gli animali, a tutti i volatili, anche a tutti gli esseri acquatici ed a tutto ciò che ha carne e non è uomo … l'uomo dunque esiste come unità dell'anima e del corpo, ma non di una qualsiasi anima - infatti anche l'animale esiste come unità di spirito vitale e di corpo - l'uomo dunque, che esiste come unità di anima razionale e di corpo mortale, cerca la vita felice.
Una volta che l'uomo avrà conosciuto che cosa può rendere felice la vita, se non la possiede, se non la persegue, se non se ne appropria e se l'attribuisce, se è in suo potere, o se trova difficoltà, la chiede, non può essere felice.
Tutta la questione si riduce, quindi, alla scoperta di ciò che rende felice la vita.
Supponete ora di avere davanti ai vostri occhi gli Epicurei, gli Stoici e l'Apostolo; potevo anche dir così: gli Epicurei, gli Stoici, i Cristiani.
Domandiamo prima agli Epicurei che cosa rende felice la vita. Rispondono: Il piacere sensibile.
Ora qui chiedo di credere, dal momento che ho dei giudici.
Infatti voi non sapete se gli Epicurei questo dicono, questo pensano, perché non avete letto i loro scritti; ma sono qui presenti quelli che hanno letto.
Torniamo a interrogarli. Cos'è, secondo voi Epicurei, che rende felice la vita? Rispondono: Il piacere sensibile.
Secondo voi, Stoici, che cosa rende felice la vita? Rispondono: La virtù dell'animo.
Intenda in accordo con noi la Carità vostra, siamo Cristiani noi, ci troviamo a discutere tra i filosofi.
Notate il motivo per il quale si procurò che solo quelle due correnti di pensiero avessero un confronto con l'Apostolo.
Se si eccettua il corpo e l'anima, nell'uomo non c'è altro che si riferisca alla sostanza e alla natura di lui.
Da una di queste due realtà, cioè dal corpo, gli Epicurei fecero dipendere la vita felice; gli Stoici vollero la vita felice inerente all'altra, cioè all'anima.
Per quanto riguarda l'uomo, se egli è causa per sé di vita felice, non resta altro che il corpo e l'anima.
O è il corpo causa di vita felice, o è l'anima causa di vita felice: se cerchi di più, ti allontani dall'uomo.
In conseguenza, a coloro che vollero insita nell'uomo la vita felice dell'uomo, non fu assolutamente possibile fondare altrove la causa, ma solo nel corpo o nell'anima.
Gli Epicurei furono gli esponenti più noti tra coloro dai quali fu riposta nel corpo la vita felice; tra quelli che fecero dell'anima la causa della vita felice, ebbero il primo posto gli Stoici.
Ecco, sono presenti, discutono con l'Apostolo; che non debba dire l'Apostolo qualcosa di più [ importante ], o che debba di necessità dare il suo assenso ad una delle due dottrine, e così a sua volta dover riconoscere inerente al corpo o all'anima la causa della vita felice.
Paolo non la riferirebbe mai al corpo: esso infatti non ha un particolare valore; poiché sono ben lontani dal porre nel corpo la causa della felicità proprio quelli che pensano molto bene del corpo.
Infatti gli Epicurei hanno la medesima opinione e del corpo e dell'anima, per questo soggetti alla morte l'uno e l'altra.
E, quel che è più grave e più riprovevole, sostengono che l'anima, dopo la morte, si corrompe prima del corpo.
" Esalato lo spirito - essi dicono - restando tuttora il cadavere e perdurando qualche tempo intatte le sembianze delle membra, appena uscita dal corpo, l'anima si dissolve, quasi fumo, in balia del vento ".
Non ci meravigliamo in quanto hanno fatto dipendere il sommo bene, cioè la causa della felicità, dal corpo che ritenevano di avere superiore all'anima.
Farebbe forse questo l'Apostolo? Non davvero da parte sua far dipendere dal corpo il sommo bene.
Il sommo bene è infatti causa di felicità; è certo che l'Apostolo ebbe grande dolore dal fatto che alcuni, nel numero dei Cristiani, avessero scelto l'affermazione degli Epicurei, non uomini, ma porci.
Erano di questo numero infatti quelli che corrompevano i buoni costumi in conversazioni disoneste e dicevano: Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo. ( 1 Cor 15,32 )
Degli Epicurei entrarono in questione con l'apostolo Paolo: vi sono anche dei Cristiani epicurei.
Che altro sono infatti coloro che dicono di giorno in giorno: Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo?
A questo si riferiscono frasi come: " Nulla ci sarà dopo la morte "; " La nostra vita è infatti un'ombra che passa ".
Dissero infatti, tra le altre cose, dietro riflessioni prive di rettitudine: Coroniamoci di rose prima che avvizziscano; nessun prato manchi alla nostra intemperanza.
Lasciamo dunque i segni della nostra gioia, poiché questa è la nostra parte e questo ci spetta. ( Sap 2,8 )
Se ci scaglieremo con durezza contro tale mentalità, se ci opponiamo con vigore a tali aspirazioni, diranno anche ciò che viene dopo: Trattiamo da padroni il giusto povero. ( Sap 2,8-10 )
E tuttavia, non abbiamo timore di dire, persino posti in questa sede: Non siate degli epicurei.
Riflettete certo a quello che è stato detto da costoro che pur parlavano falsamente: Perché domani moriremo, ma noi non moriremo del tutto; infatti, dopo la morte, rimane quel che segue la morte.
A chi muore sarà compagna o la vita o la pena.
Nessuno dica: Di là chi è tornato quaggiù?
Quel ricco, vestito di porpora, tardi volle tornare e non gli si poté concedere.
Arso di sete ricercò ansioso una stilla chi disprezzò il povero affamato. ( Lc 16,19-24 )
Quindi nessuno dica: Mangiamo e beviamo perché domani moriremo. ( 1 Cor 15,32 )
Se volete dire: Perché domani moriremo, non lo proibisco; ma sostituite con altro quello che precede.
È vero che gli Epicurei, convinti che non vivranno dopo la morte, non avendo quasi altro che il piacere carnale, dicono: Mangiamo e beviamo perché domani moriremo, però i Cristiani, i quali vivranno dopo la morte, ma - ed è più importante - vivranno felici dopo la morte, non devono dire: Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo; ma ritenete ciò che è detto: Perché domani moriremo, e premettete: Preghiamo e digiuniamo perché domani moriremo.
Aggiungo addirittura dell'altro, aggiungo un terzo accorgimento né trascuro ciò che soprattutto dev'essere osservato; in modo che dal tuo digiuno venga saziata la fame del povero, oppure, se non puoi digiunare, puoi nutrire con più abbondanza affinché ti si conceda il perdono a motivo della sazietà di lui.
Dicano perciò i Cristiani: Digiuniamo, preghiamo e doniamo, perché domani moriremo.
O anche, se vogliono dire distinte le due cose, io preferisco che dicano: Doniamo e preghiamo, piuttosto che: Digiuniamo e non doniamo.
Dio ci guardi perciò dal credere che l'Apostolo riferiva al corpo il sommo bene dell'uomo, cioè la causa della felicità.
Ma il contrasto con gli Stoici forse non è svantaggioso.
Ecco, infatti a chi domanda da che fanno dipendere ciò che rende felice la vita, vale a dire ciò che nell'uomo suscita la vita felice, rispondono che non consiste nel piacere carnale, ma nella virtù dell'animo.
Che ne dice l'Apostolo? Approva? Se approva, noi approviamo.
Ma non approva: poiché la Scrittura dissuade quelli che confidano nella loro forza. ( Sal 42,7 )
Pertanto l'Epicureo, ammettendo presente nel corpo il sommo bene dell'uomo, ripone in sé la speranza.
Ma veramente lo Stoico, facendo dipendere dall'anima il sommo bene dell'uomo, almeno lo ha fatto inerente alla realtà migliore dell'uomo; anch'egli, però, ha fondato in sé la speranza.
Ma non è che uomo sia l'Epicureo, sia lo Stoico.
Maledetto dunque chi ripone la sua speranza nell'uomo. ( Ger 17,5 )
Che dire allora? Posti ora i tre: l'Epicureo, lo Stoico, il Cristiano davanti ai nostri occhi, interroghiamoli ad uno ad uno.
Di', Epicureo, che cosa rende felice l'uomo. Risponde: Il piacere carnale.
Di', Stoico. La virtù dell'animo.
Di', Cristiano. Il dono di Dio.
Pertanto, fratelli, quasi davanti ai nostri occhi gli Epicurei e gli Stoici hanno disputato con l'Apostolo e con il loro confronto ci hanno insegnato cosa dobbiamo rifiutare e che scegliere.
La virtù dell'animo è una cosa lodevole; la prudenza che discerne il bene dal male, la giustizia che distribuisce a ciascuno il suo, la temperanza che frena le passioni, la fortezza che tollera serenamente le contrarietà.
Grande cosa, lodevole cosa; loda, o Stoico, per quanto puoi, ma di': Da chi ti viene?
Non ti rende felice la virtù del tuo animo, ma colui che ti ha dato la forza, che ha suscitato in te il volere e ti ha donato di potere. ( Fil 2,13 )
So che tu forse riderai di me, e sarai tra coloro dei quali è stato scritto che deridevano Paolo. ( At 17,32 )
Se tu sei la strada, io semino, poiché sono un seminatore di parole secondo la mia capacità.
Ciò che è stato oggetto del tuo scherno è il compito mio.
Io semino: cade in te come in terra battuta ciò che io semino.
Io non sono indolente; e trovo la terra buona. Che posso fare per te?
Sei stato confutato e persino dalla parola irreprensibile di Dio sei stato confutato.
Sei tra quelli che fanno affidamento nella loro virtù dell'animo, sei tra quelli che ripongono la loro speranza nell'uomo.
Ti compiaci della virtù; ti compiaci di una cosa buona; lo so, hai sete, ma non puoi essere per te sorgente di forza.
Sei arido: se mi prendo cura di rivelarti la sorgente della vita, forse ti burlerai di me.
Dici infatti fra te: Da questa roccia dovrei bere? La verga toccò e scaturì l'acqua. ( Nm 20,11 )
Poiché i Giudei chiedono i miracoli, ma tu, Stoico, non sei Giudeo; lo so, sei Greco, e i Greci cercano la sapienza.
Noi invece predichiamo Cristo crocifisso.
Il Giudeo si scandalizza, il Greco schernisce.
Scandalo, quindi, per i Giudei, stoltezza invece per i Pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, ciò riguarda appunto Paolo, già Saulo, e Dionigi Areopagita, e a questi tali, ed a quelli come loro tali, Cristo sapienza di Dio e potenza di Dio. ( 1 Cor 1,22-23 )
Ora tu non deridi la roccia: riconosci nella verga la croce, nella fonte Cristo; e se hai sete, attingi la forza.
Bevi dalla fonte fino ad essere saturo, forse farai traboccare azioni di grazie; ciò che ti viene da lui, non sarai più tu a dartelo, ma nel rutto esclamerai: Ti amo, Signore, mia forza. ( Sal 18,2 )
Non dirai più: La virtù dell'anima mia mi rende felice.
Non sarai tra quelli che, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato la gloria né gli hanno rese grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa; mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti. ( Rm 1,22-23 )
Che significa allora: mentre si dichiaravano sapienti, se non avere da sé, bastare a sé?
Sono diventati stolti; a ragione stolti. La falsa sapienza è la vera stoltezza.
Ma sarai tra coloro dei quali si dice: Cammineranno, Signore, alla luce del tuo volto; esulteranno tutto il giorno nel tuo nome, nella tua giustizia troveranno la loro gloria; poiché tu sei il vanto della loro forza. ( Sal 89,16-18 )
Tu desideravi la fortezza; di': Signore, mia forza. ( Sal 46,2 )
Desideravi la vita felice; di': Beato l'uomo che tu istruisci, Signore. ( Sal 94,12 )
Beato infatti il popolo la cui felicità non è il piacere carnale, non è la virtù propria, ma: Beato il popolo il cui Dio è il Signore. ( Sal 144,13 )
Questa è la patria della beatitudine che tutti vogliono; ma non tutti la desiderano con rettitudine.
Noi, invece, non intendiamo aprirci, per così dire, con artificio, nel nostro cuore, una via verso tale patria e approntare sentieri che portano all'errore; di lì viene anche la via.
Dunque l'uomo felice vuole altro che non essere ingannato, non morire, non soffrire?
E che desidera? Avere più fame e mangiare di più? Perché, se è meglio non aver fame?
Nessuno è felice se non chi vive in eterno senza alcun timore, senza alcun inganno.
Infatti l'anima detesta d'essere ingannata.
Quanto l'anima abbia innata la ripulsa ad essere ingannata, può comprendersi dal fatto che quelli che ridono per alienazione mentale sono compianti dai sani; e l'uomo preferisce senz'altro ridere piuttosto che piangere.
Se vengono proposte queste due cose: Vuoi ridere, oppure vuoi piangere? Chi è che non risponde: Ridere?
Nuovamente, se vengono proposte queste due cose: vuoi essere ingannato, oppure essere certo della verità?
Ognuno risponde: Esser certo della verità.
Preferisce e vivere e possedere il vero; di queste due, il riso e il pianto: Ridere; di queste due, l'inganno e la verità: Possedere la verità.
Ma è tanto superiore l'assolutamente insuperabile verità, che l'uomo sano di mente preferisce piangere piuttosto che ridere per alienazione mentale.
Ivi, perciò, in quella patria, ci sarà la verità, non si troverà mai l'inganno e l'errore.
Ma ci sarà la verità e non ci sarà il pianto; poiché ci sarà e l'autentico ridere, e il godere della verità, perché ci sarà la vita.
Infatti se ci sarà dolore, non ci sarà la vita; poiché neppure va chiamata vita un perpetuo, inestinguibile tormento.
Per questo non è che il Signore dia il nome di vita a quella che avranno gli empi, sebbene siano vivi in mezzo al fuoco: non cessano di vivere perché non abbia termine la pena; dato che il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà; ( Is 66,24 ) non volle tuttavia chiamarla vita, ma chiamò vita quella che è felice ed eterna. ( Mt 19,16-17 )
In conseguenza, quel ricco domandava al Signore: Che devo fare di buono per ottenere la vita eterna?
Ma il Signore chiamava veramente vita eterna solo la vita felice; poiché gli empi avranno la vita eterna, ma non la vita felice, in quanto piena di tormenti.
Così quello disse: Signore, che devo fare di buono per ottenere la vita eterna?
Il Signore gli parlò dei comandamenti.
Quello, di rimando: Ho osservato tutte queste cose.
Ma [ il Signore ], nel parlare dei comandamenti, come si espresse? Se vuoi giungere alla vita. ( Mt 19,16-17 )
Non gli disse: " felice ", perché una vita piena di miserie non va chiamata vita.
Non gli aggiunse: " eterna ", perché neppure va chiamata vita quando c'è il timore della morte.
Quindi, quanto alla vita, che è degna di questo nome, così che si chiami vita, non si tratta che della vita felice; e non è felice se non è eterna.
Questa vogliono tutti, questa vogliamo tutti: la verità e la vita; ma per dove si giunge ad un possesso di così grande valore, ad una così grande felicità?
I filosofi si costruirono vie di errore; alcuni dissero: Per di qua; altri: Non per di qua ma per di là.
Si tenne nascosta a loro la via, perché Dio resiste ai superbi. ( Gc 4,6 )
Sarebbe nascosta anche a noi se non fosse venuta a noi.
Per questo il Signore: Io - disse - sono la via.
Pigro viandante, non volevi giungere alla via; è venuta a te la via.
Cercavi per dove andare: Io sono la via.
Cercavi dove giungere: Io sono la verità e la vita. ( Gv 14,6 )
Non finirai nell'errore se andrai a lui per mezzo di lui.
Questa è la dottrina dei Cristiani, da non porre affatto a confronto, ma da preferirsi senza paragoni alle dottrine dei filosofi, all'immondezza degli Epicurei, alla superbia degli Stoici.
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