La Genesi alla lettera |
Dobbiamo ora considerare l'albero della conoscenza del bene e del male.
Anche quest'albero era certamente visibile e materiale come tutti gli altri alberi.
Non dobbiamo dunque dubitare che fosse un albero, ma cercare il motivo per cui ebbe questo nome.
Quanto a me, considerando più e più volte il problema, non posso dire quanto approvi l'opinione di quegli scrittori i quali affermano che il frutto di quell'albero non era dannoso - poiché Dio che aveva fatto ogni cosa molto buona, ( Gen 1,31 ) non aveva creato nulla di cattivo nel paradiso - ma che per l'uomo il male fu l'aver trasgredito il precetto di Dio.
Era invece conveniente che all'uomo, posto sotto il dominio di Dio suo Signore, fosse vietato qualcosa in modo che proprio l'ubbidienza fosse per lui la virtù mediante la quale potesse piacere al proprio Signore.
Io posso dire con tutta verità che l'unica virtù di ogni creatura ragionevole operante sotto il dominio di Dio è l'ubbidienza, mentre la radice e il più grande di tutti i vizi è la superbia per cui uno usa il proprio potere per la propria rovina e questo vizio si chiama disubbidienza.
L'uomo dunque non avrebbe avuto alcuna possibilità di rendersi conto o di accorgersi d'essere soggetto al Signore, se non gli fosse stato impartito un precetto.
L'albero perciò non era cattivo, ma ebbe il nome di albero della conoscenza del bene e del male perché, se l'uomo ne avesse mangiato il frutto dopo il divieto, quell'albero sarebbe divenuto l'occasione della futura trasgressione del precetto e a causa della trasgressione l'uomo avrebbe compreso - mediante il castigo che avrebbe sperimentato - la differenza che c'è tra il bene dell'ubbidienza e il male della disubbidienza.
Ecco perché neppure qui la Scrittura parla d'un simbolo, ma dobbiamo prendere l'albero nel senso letterale e concreto, al quale fu imposto il nome suddetto non a causa dei frutti o dei pomi che nascevano da esso, bensì a causa dell'effetto che ne sarebbe seguito, se fosse stato toccato contro il divieto [ di Dio ].
E un fiume, che irrigava il paradiso, usciva da Eden e di lì si divideva in quattro bracci.
Il primo di essi si chiama Fison; questo scorre intorno a tutta la regione di Evilath dove c'è l'oro, e l'oro di quel paese è puro e c'è anche il carbonchio e lo smeraldo.
Il secondo fiume si chiama Geon; esso scorre attorno a tutto il paese dell'Etiopia.
Il terzo fiume è il Tigri; questo scorre attraverso l'Assiria.
Il quarto fiume è l'Eufrate. ( Gen 2,10-14 )
Parlando di questi fiumi perché mai dovrei sforzarmi ulteriormente di confermare ch'essi sono veri fiumi e non espressioni figurate, come se non fossero delle realtà ma solo nomi significanti qualche altra realtà, dal momento che sono assai noti nei paesi attraverso i quali scorrono, e sono conosciuti quasi da tutti i popoli?
Si può anzi costatare che questi fiumi esistono davvero: a due di essi l'antichità ha cambiato il nome, come [ è accaduto per ] il fiume che ora si chiama Tevere, mentre prima si chiamava Albula; il Geon è infatti lo stesso fiume che ora si chiama Nilo; si chiamava invece Fison quello che ora si chiama Gange; gli altri due, il Tigri e l'Eufrate, al contrario, hanno conservato tuttora il loro nome.
Questi riscontri dovrebbero persuaderci a prendere anzitutto in senso letterale gli altri particolari e a non vedervi un modo figurato di parlare, bensì che non sono soltanto dei fatti reali, narrati come storici ma che sono anche figure di qualche altra realtà.
Ciò non perché una parabola non possa prendere qualche particolare della realtà benché sia evidente che i fatti raccontati da essa non sono avvenuti in senso letterale.
Così il Signore parla di quel tale che scendeva da Gerusalemme a Gerico ed incappò nei briganti. ( Lc 10,30 )
Chi mai non si accorge e non vede chiaramente che si tratta d'una parabola e che tutto quel racconto è allegorico?
Ciò nondimeno le due città nominate nella parabola si possono vedere anche adesso nei propri luoghi.
Anche questi quattro fiumi potremmo prenderli in senso figurato, se una qualche necessità ci costringesse a prendere in senso figurato e non letterale tutto il rimanente racconto del paradiso; ma ora, poiché nessuna ragione c'impedisce di prendere i fatti stessi anzitutto in senso letterale, perché non dovremmo seguire semplicemente piuttosto l'autorità della Scrittura relativa alla narrazione dei fatti, prendendoli dapprima come fatti veramente accaduti e poi, alla fine, indagare qual altra realtà potrebbero simboleggiare?
Saremo forse imbarazzati [ ad ammettere ciò ] per il fatto che, a proposito di questi fiumi, si dice che la sorgente di alcuni di essi è nota mentre di altri è del tutto ignota e perciò non può esser preso alla lettera [ il racconto biblico ], che cioè sarebbero bracci dell'unico fiume del paradiso?
Ma poiché non sappiamo affatto dove si trovasse il paradiso, bisognerebbe piuttosto supporre che di lì si diramassero i quattro corsi d'acqua come attesta la Scrittura assolutamente veridica, e che i fiumi di cui si dice che si conosce la sorgente fossero andati a finire sotterra e, dopo aver percorso estese regioni, risgorgassero in altre località in cui si pretende di localizzare la sorgente.
Chi non sa che questo fenomeno è comune ad alcuni corsi d'acqua?
Ma questo fenomeno si conosce solo nelle regioni ove i fiumi hanno un corso sotterraneo breve.
Il Signore Dio prese poi l'uomo ch'egli aveva fatto e lo pose nel paradiso perché lo coltivasse e lo custodisse.
Il Signore Dio inoltre diede il seguente comando ad Adamo: Tu potrai mangiare sicuramente di tutti gli alberi del paradiso, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovrete mangiare perché il giorno che ne mangerete morrete sicuramente. ( Gen 8, 11.24 )
Dopo aver detto più sopra che Dio aveva piantato il paradiso e vi aveva posto l'uomo da lui formato, ( Gen 2,8 ) l'agiografo riprende qui il racconto per narrare in qual modo fosse costituito il paradiso.
Ora perciò, riprendendo il racconto, ricorda anche in quali condizioni Dio vi pose l'uomo fatto da lui.
Vediamo dunque che cosa voglia dire la frase "per coltivarlo e custodirlo".
Che cosa doveva coltivare e che cosa doveva custodire? Volle forse il Signore che il primo uomo lavorasse coltivando la terra?
Oppure è forse credibile che Dio condannasse l'uomo al lavoro prima che peccasse?
Noi potremmo certamente pensare così, se non vedessimo alcuni coltivare la terra con tanto godimento spirituale che per essi sarebbe un gran castigo esserne distolti per qualche altro lavoro.
Qualsiasi diletto dunque, che può arrecare l'agricoltura, era allora certamente di gran lunga maggiore dal momento che nessuna avversità poteva accadere né da parte della terra né dell'atmosfera.
L'agricoltura infatti non sarebbe stata un lavoro gravoso, ma un esercizio gioioso della volontà, poiché tutti i prodotti della creazione di Dio, grazie alla collaborazione del lavoro dell'uomo, sarebbero nati più abbondanti e rigogliosi; in tal modo al Creatore sarebbe stata resa una lode maggiore per aver dato all'anima posta in un corpo vivente il metodo razionale e la capacità di lavorare nella misura di quanto desiderava di fare liberamente o nella misura richiesta dai bisogni del corpo che potesse costringere uno a lavorare contro la sua volontà.
Quale spettacolo è più grande e meraviglioso, oppure dove mai la ragione umana può meglio conversare in certo qual modo con la natura che quando si è seminato, si sono piantati i virgulti, trapiantati gli arbusti, innestati i maglioli?
Allora la mente umana si mette, per così dire, a esaminare che cosa possa o non possa effettuare l'energia di ogni radice e di ogni germe, per qual motivo lo possa o non lo possa, quale efficacia abbia nella natura la potenza invisibile e interna delle sue energie e quale ne abbia la cura applicata dall'esterno.
Con queste considerazioni la mente può comprendere che non è qualcosa né chi pianta né chi irriga, ma è Dio che fa crescere; ( 1 Cor 3,7 ) poiché anche il lavoro applicato dall'esterno viene eseguito da un uomo, creato tuttavia da Dio e invisibilmente guidato e regolato da Dio.
Ora, da questo punto la mente eleva lo sguardo a considerare lo stesso mondo come una specie di grande albero della creazione e anche in esso si scopre la duplice attività della Provvidenza: quella naturale e quella volontaria.
L'attività naturale della Provvidenza viene esplicata dall'occulta azione di Dio che fa crescere anche gli alberi e le erbe, mentre l'attività volontaria viene esplicata mediante l'opera degli angeli e degli uomini.
In virtù della prima attività sono regolate le creature celesti in alto e quelle terrestri in basso, risplendono i luminari e le stelle, si avvicendano il giorno e la notte, la terraferma è solcata e circondata dalle acque, si diffonde l'aria al di sopra della terra, arbusti e animali sono generati e nascono, crescono, s'invecchiano e muoiono; e così avviene per tutto ciò che nelle cose si produce per un impulso interno e naturale.
Per mezzo dell'altra attività della Provvidenza si dànno segni, s'impartisce l'insegnamento e s'acquista l'apprendimento, si coltivano i campi, si governano le comunità, si esercitano le varie professioni e ogni altra attività che si compie tanto nel consorzio della città celeste quanto in quello terrestre e mortale: in tal modo anche i malvagi, a loro insaputa, concorrono al bene dei buoni.
Anche nell'uomo stesso esercita il suo influsso la duplice attività della Provvidenza: anzitutto esercita l'attività riguardo al corpo, in virtù cioè del moto per cui l'uomo nasce, cresce, invecchia; quella volontaria poi per cui provvediamo a nutrirci, a vestirci, a conservarci.
Lo stesso avviene per quanto riguarda l'anima: grazie all'attività naturale essa vive e sente, grazie all'attività volontaria invece impara e acconsente.
Orbene, come l'azione esterna del coltivatore contribuisce a far progredire lo sviluppo interno di un albero, così per quanto riguarda il corpo dell'uomo, l'azione interna della natura è aiutata all'esterno dalla medicina.
Ugualmente, per quanto riguarda l'anima, l'insegnamento impartito dall'esterno contribuisce all'interiore felicità della natura.
Ciò che è la negligenza nel coltivare un albero, è per il corpo trascurare le cure mediche, e per l'anima è la pigrizia nell'imparare.
Ciò che è per l'albero l'acqua superflua, è per il corpo il nutrimento nocivo e per l'anima è l'incentivo al male.
Al di sopra di tutte le cose è Dio che tutto ha creato e tutto governa, crea ogni natura con bontà e governa ogni volontà con giustizia.
Che cosa c'è dunque di contrario alla verità se crediamo che l'uomo fu posto nel paradiso per esercitare l'agricoltura non già costretto da un lavoro servile ma spinto da un godimento spirituale adatto alla sua nobiltà?
Che cosa c'è di più innocente per chi ha tempo libero, e che cosa desta pensieri più profondi per i sapienti?
[ L'uomo fu messo nel paradiso ] per custodire: ma per custodire che cosa? Forse lo stesso paradiso?
Ma contro chi? Di sicuro non c'era da temere alcun invasore dalle vicinanze né alcuno che avrebbe scompigliato le frontiere, nessun ladro, nessun aggressore.
In qual senso dobbiamo intendere dunque che il paradiso materiale potesse essere custodito con mezzi materiali?
Tuttavia nemmeno la Scrittura dice: "perché coltivasse e custodisse il paradiso", ma semplicemente: per lavorare e custodire.
Se d'altra parte si traducesse più accuratamente alla lettera, dal greco, sta scritto così: Il Signore Dio prese l'uomo che aveva fatto e lo pose nel paradiso per coltivarlo e custodirlo. ( Gen 8,11 )
Ma noi non sappiamo se Dio vi pose l'uomo a lavorare: così interpretò il traduttore: perché lavorasse o coltivasse ( ut operaretur ), oppure "a lavorare" il medesimo paradiso, cioè "affinché l'uomo coltivasse il paradiso"; il testo è ambiguo e il modo di esprimersi sembra richiedere che non si dica "a lavorare il paradiso", ma "nel paradiso".
Tuttavia, nell'ipotesi che la Scrittura dicesse per lavorare il paradiso nel senso in cui più sopra aveva detto: Ma non c'era [ ancora ] l'uomo che lavorasse la terra ( Gen 2,5 ) - poiché "lavorare la terra" e "lavorare il paradiso" sono due espressioni identiche - dovremmo spiegare questa frase ambigua nell'uno e nell'altro senso.
Ammesso che non sia necessario intendere quella frase nel senso di "custodire il paradiso", ma "nel paradiso", che c'era dunque da custodire nel paradiso?
Infatti abbiamo già spiegato che cosa voglia dire - a nostro avviso - lavorare nel paradiso.
Diremo forse che l'uomo avrebbe dovuto custodire in se stesso con la disciplina il prodotto da lui ottenuto lavorando nella terra mediante l'agricoltura?
In altre parole, allo stesso modo che la terra ubbidiva a lui quando la coltivava, così doveva ubbidire anche lui al Signore, dal quale aveva ricevuto il precetto, in modo da rendergli il frutto dell'ubbidienza e non le spine della disubbidienza?
Di conseguenza, poiché l'uomo non volle restare ubbidiente e custodire in se stesso la rassomiglianza dal paradiso da lui coltivato, fu condannato e ricevette in castigo un campo simile a lui.
Dio infatti disse: Spine e rovi produrrà la terra per te. ( Gen 3,18 )
Se invece accettiamo la seconda ipotesi, e intendiamo che l'uomo "coltivava il paradiso" e "custodiva il paradiso", avrebbe, sì, potuto coltivarlo esercitando l'agricoltura - come abbiamo detto più sopra -, ma non avrebbe potuto custodirlo contro furfanti o nemici - che non esistevano - bensì, forse, contro le bestie selvagge.
Ma come sarebbe stata possibile una simile cosa? E per qual motivo?
Forse che le bestie infierivano già contro l'uomo, dal momento che ciò sarebbe avvenuto solo a causa del peccato?
Come infatti è ricordato in seguito dalla Scrittura, fu proprio l'uomo a imporre il nome a tutte le bestie che erano state condotte davanti a lui; inoltre egli stesso il sesto giorno per ordine impartito da Dio ricevette il cibo comune con tutte le bestie.
Oppure, se c'era già da temere qualcosa da parte delle bestie, come avrebbe potuto, un uomo solo, difendere il paradiso?
Esso infatti non era una piccola località, dato che era irrigata da un fiume tanto grande.
L'uomo pertanto avrebbe dovuto difendere il paradiso qualora fosse stato in grado di fortificarlo da ogni lato con una muraglia tanto grande e lunga che non potesse penetrarvi il serpente; ma sarebbe stata un'azione incredibile, se l'uomo avesse potuto scacciarne tutti i serpenti prima di recingerlo da ogni lato con una muraglia!
10.22 Perché dunque trascuriamo l'interpretazione più ovvia? L'uomo fu messo nel paradiso per coltivare lo stesso paradiso, com'è stato spiegato più sopra, mediante il lavoro agricolo non faticoso ma gioioso e adatto a suscitare nella mente di un sapiente pensieri alti e salutari.
L'uomo inoltre doveva custodire il paradiso badando di non commettere qualche fallo per cui meritasse d'esserne espulso.
Per conseguenza ricevette un precetto osservando il quale avrebbe potuto conservare per sé il paradiso, nel senso cioè che non ne sarebbe stato espulso qualora avesse ubbidito.
Giustamente infatti si dice che uno non custodisce un suo bene se agisce in modo da perderlo, anche se quel bene rimane intatto per un altro che lo trova e merita di riceverlo.
La frase che discutiamo può avere anche un altro senso che per una giusta ragione io credo preferibile: Dio cioè lavorava e conservava l'uomo in persona.
Poiché, allo stesso modo che l'uomo coltiva la terra non per far sì che sia terra, ma renderla con il suo lavoro tale da portar frutto, così Dio in un modo più efficace coltiva l'uomo, creato da lui stesso, perché possa essere reso giusto, purché non si allontani da lui per superbia.
Infatti allontanarsi da Dio è ciò che la Scrittura chiama principio della superbia: Principio della superbia dell'uomo - dice la Scrittura - è allontanarsi da Dio. ( Sir 10,12 )
Dio è il Bene immutabile, l'uomo al contrario è un essere mutevole non solo quanto all'anima ma anche quanto al corpo; egli quindi non può essere formato per essere giusto e felice se non si volgerà e resterà stretto al Bene immutabile che è Dio.
Per conseguenza il medesimo Dio, che crea l'uomo perché sia uomo, coltiva anche l'uomo e lo custodisce perché sia anche buono e felice; ecco perché la Scrittura con la medesima espressione con cui dice che l'uomo coltiva la terra - ch'era già terra - per renderla bella e feconda, dice che Dio coltiva l'uomo - ch'era già uomo - perché sia buono e saggio, e lo custodisce poiché, quando l'uomo si compiace della propria potenza più di quella di Dio, che è al di sopra di lui, e quando disprezza la signoria di Dio, vive in una continua insicurezza.
Indice |