La grazia di Cristo e il peccato originale |
Relativamente a questo modo d'insegnare da parte di Dio anche il Signore dice: Chiunque ha udito il Padre mio e ha imparato da lui, viene a me. ( Gv 6,45 )
Dunque di chi non viene non si può dire con esattezza: Ha udito, sì, e ha imparato di dover venire, ma non vuol fare ciò che gli è stato insegnato.
Non è assolutamente esatto dirlo del modo d'insegnare di Dio per mezzo della grazia.
Se infatti, come dichiara la Verità, chiunque ha imparato viene, vuol dire che se non viene non ha certamente nemmeno imparato.
Chi non vede poi che ciascuno viene e non viene in forza dell'arbitrio della sua volontà?
Ma questo arbitrio rimane da solo nel caso che l'uditore non vada al Signore; non può fare a meno invece d'essere aiutato l'uditore che va al Signore, e aiutato così che non solo conosca che cosa fare, ma anche faccia ciò che è venuto a conoscere.
Pertanto quando Dio insegna non per mezzo della lettera della legge, ma per mezzo della grazia dello Spirito, insegna in tal modo che chiunque ha imparato non solo veda con l'intelligenza ciò che gli è stato insegnato, ma anche lo brami! con la volontà e lo compia perfettamente con l'attività.
E da questo modo divino d'insegnare ricevono aiuto anche lo stesso volere e lo stesso agire, non solamente la possibilità naturale di volere e di agire.
Se infatti questa grazia fosse d'aiuto soltanto al nostro potere, il Signore direbbe così: Chiunque ha udito il Padre e ha imparato, può venire a me.
Invece non dice così, ma dice: Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me.
Pelagio ripone nella natura il poter venire o anche, come ha cominciato a dire adesso, lo ripone nella grazia, qualunque sia l'opinione che ha di essa: " Dalla quale, dice, è aiutata la stessa possibilità ";6 il venire invece dipende già dalla volontà e dall'attività.
Ma non ne segue che, chi può venire, venga di fatto, se in realtà non lo vuole e non lo fa.
Al contrario chi ha imparato dal Padre, non solo può venire, ma viene, e qui ci sono insieme già tutti e tre i fattori: il vantaggio della possibilità, l'affetto della volontà, l'effetto dell'attività.
A che servono dunque i suoi esempi se non a renderci davvero più chiaro, come ha promesso, il suo pensiero?
Non perché noi dobbiamo condividere le sue idee, ma perché veniamo a conoscerle più manifestamente e più esplicitamente.
Egli scrive: " Poter vedere con gli occhi non è merito nostro, vedere invece bene o vedere male è affar nostro ".7
Gli risponda il salmo dove si dice a Dio: Distogli, o Dio, i miei occhi dal vedere le cose vane. ( Sal 119,37 )
Anche se è detto degli occhi della mente, è proprio da lì che proviene agli occhi della carne di vedere bene o male.
Non nel senso in cui si dice che vedono bene quelli che hanno gli occhi sani e vedono male quelli che li hanno malati, ma vedere bene per sovvenire e vedere male per desiderare.
Sebbene infatti vediamo per mezzo di questi occhi esterni tanto il povero cui si presta assistenza, quanto la donna che si fa oggetto di concupiscenza, tuttavia è dagli occhi interiori che proviene la pietà o la sensualità a vedere bene o male.
Perché dunque si direbbe a Dio: Distogli i miei occhi dal vedere le cose vane?
Perché, se Dio non viene in aiuto della nostra volontà, si domanda a lui quello che appartiene alla nostra possibilità?
Scrive Pelagio: " La possibilità che abbiamo di parlare è dono di Dio, ma parlare bene o male è affar nostro ".8
Non insegna così Gesù che parla bene: Non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. ( Mt 10,20 )
Scrive Pelagio: " E per abbracciare tutto in blocco, il potere che abbiamo riguardo ad ogni bene di farlo, di dirlo, di pensarlo è di colui che ci ha donato questo potere ed aiuta questo potere".9
Ecco che anche qui ripete il pensiero di prima: dei tre elementi, cioè possibilità, volontà, attività, unicamente la possibilità viene aiutata.
E aggiunge a completamento del suo pensiero: "Al contrario, fare bene o parlare bene o pensare bene è merito nostro ".10
Si è dimenticato di quella sua specie di correzione apportata più sopra, dove, dopo aver detto: " Nel volere dunque il bene e nel fare il bene c'è il merito dell'uomo ", aveva aggiunto: " Anzi e dell'uomo e di Dio, il quale ha dato la possibilità del volere stesso e del fare ".11
Perché non se n'è ricordato anche in questi esempi per dire almeno alla fine: il potere che abbiamo riguardo ad ogni bene di farlo, di dirlo, di pensarlo è di colui che ci ha donato questo potere e aiuta questo potere; al contrario, fare bene o parlare bene o pensare bene è merito nostro e di Dio?
Non l'ha detto, ma io mi avvedo di vedere, se non sbaglio, che cosa l'ha intimorito.
Infatti, volendo spiegare come sia merito nostro dice: " Perché possiamo volgere anche al male tutte queste nostre scelte ".12
Ebbe dunque paura di dire che è merito e nostro e di Dio, perché non gli si rispondesse: Se fare bene, parlare bene, pensare bene è merito e nostro e di Dio, perché egli ha dato a noi questo potere, allora è merito e nostro e di Dio anche se facciamo male, se parliamo male, se pensiamo male, perché Dio ci ha dato quel potere per ambedue le scelte, e in tal modo verrebbe fuori un'assurda conseguenza: come nelle opere buone siamo lodati assieme a Dio, così siamo incolpati assieme a Dio nelle opere cattive.
La possibilità infatti che egli ci ha data ci dà di poter fare tanto il bene quanto il male.
Di tale possibilità Pelagio nel primo libro del suo In difesa del libero arbitrio parla così: "Ora, abbiamo da Dio la possibilità innata di ambedue le scelte, quasi, per così dire, una radice fruttifera e feconda, che per volontà della creatura umana generi e produca frutti diversi e che a seconda dell'arbitrio del proprio coltivatore possa o splendere dei fiori delle virtù o coprirsi delle spine dei vizi".13
Qui, senza intuire quello che dice, stabilisce una sola e medesima radice dei beni e dei mali, in contraddizione con la verità evangelica e con la dottrina apostolica.
Infatti da una parte il Signore dice che né un albero buono può fare frutti cattivi, né un albero cattivo frutti buoni, ( Mt 7,18 ) dall'altra l'apostolo Paolo, quando afferma che la radice di tutti i mali è la cupidità, ( 1 Tm 6,10 ) ci ricorda certamente di sottintendere la carità come radice di tutti i beni.
Perciò se i due alberi, buono e cattivo, sono due uomini, buono e cattivo, che cos'è l'uomo buono se non l'uomo di buona volontà, cioè un albero dalla radice buona?
E che cos'è l'uomo cattivo se non l'uomo di cattiva volontà, cioè un albero dalla radice cattiva?
I frutti poi di queste radici e di questi alberi sono le azioni, sono le parole, sono i pensieri: quelli buoni provengono dalla volontà buona, quelli cattivi dalla volontà cattiva.
Ma a fare buono l'albero è l'uomo, quando accoglie la grazia di Dio.
Non è infatti da se stesso che l'uomo si fa buono da cattivo, ma diventa buono per iniziativa di Dio e per mezzo di Dio e per unione a Dio che è sempre buono.
E non solo per essere un albero buono, ma anche per fare buoni frutti è necessario all'uomo d'essere aiutato dalla medesima grazia, senza la quale non può fare alcunché di buono.
Alla produzione dei frutti coopera appunto negli alberi buoni Dio stesso che all'esterno irriga e coltiva per mezzo di ogni suo ministro e all'interno dona da sé la crescita. ( 1 Cor 3,7 )
Al contrario, è l'uomo che fa cattivo l'albero, quando fa cattivo se stesso, quando si distacca dal Bene immutabile: è questo distacco da Dio che dà origine appunto alla volontà cattiva.
Tale distacco non inizia un'altra natura cattiva, ma vizia quella che è stata creata buona.
Risanato però quel vizio, non rimane più nessun male, perché nella natura c'era, sì, il vizio, ma il vizio non era la natura.
Non è dunque vero che quella possibilità sia, come pensa Pelagio, una sola e medesima radice dei beni e dei mali. ( 1 Tm 6,10 )
Altra cosa è infatti la carità radice dei beni, altra cosa la cupidità radice dei mali e differiscono tanto tra loro quanto la virtù e il vizio.
Ma certamente quella possibilità è capace di contenere ambedue le radici, perché l'uomo può avere non solo la carità per essere con essa un albero buono, ma può avere anche la cupidità per essere con essa un albero cattivo.
Ora, la cupidità dell'uomo, che è un vizio, ha per suo autore o l'uomo o l'ingannatore dell'uomo, ma non il Creatore dell'uomo.
La cupidità stessa è infatti la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia della vita, che non viene dal Padre, ma dal mondo. ( 1 Gv 2,16 )
Chi ignora poi che la Scrittura è solita chiamare con il nome di mondo coloro che abitano questo mondo?
Al contrario la carità che è una virtù viene a noi da Dio e non da noi, attestandolo la Scrittura che dice: L'amore è da Dio: chi ama è generato da Dio e conosce Dio, perché Dio è amore. ( 1 Gv 4,7-8 )
Meglio in riferimento a questa carità s'intende detto: Chiunque è nato da Dio non commette peccato ( 1 Gv 3,9 ) e non lo può commettere. ( 1 Gv 3,9 )
Perché la carità, per la quale è generato da Dio, non agisce sconsideratamente e non pensa al male. ( 1 Cor 13,4-5 )
Perciò quando l'uomo pecca, non pecca secondo la carità, ma secondo la cupidità per la quale non è generato da Dio.
Infatti quella possibilità, come si è detto, è capace di ambedue le radici.
Poiché dunque la Scrittura afferma che l'amore è da Dio ( 1 Gv 4,7 ) o ancora di più che Dio è amore, ( 1 Gv 4,8 ) e poiché l'apostolo Giovanni esclama assai apertamente: Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente, ( 1 Gv 3,1 ) come mai Pelagio, pur sentendo dire che Dio è amore, insiste tanto nel sostenere che di quei tre fattori noi riceviamo da Dio esclusivamente la possibilità e abbiamo da noi invece la buona volontà e la buona attività?
Come se la buona volontà fosse una cosa diversa dalla carità che la Scrittura proclama venirci da Dio e data a noi dal Padre perché fossimo suoi figli.
Ma forse saranno i nostri meriti precedenti a farci ricevere il dono dell'amore, come Pelagio pensa della grazia di Dio in quel libro che mandò ad una vergine consacrata e di cui fece cenno anche nella lettera inviata a Roma.14
In esso infatti, dopo aver riferito il testo dell'apostolo Giacomo: Sottomettetevi a Dio, resistete al diavolo ed egli fuggirà da voi, ( Gc 4,7 ) lo commenta così: " Spiega come dobbiamo resistere al diavolo.
Stando sottomessi a Dio e facendo la sua volontà meritiamo la grazia divina e con l'aiuto dello Spirito Santo resistiamo più facilmente allo spirito cattivo ".15
Ecco con quale sincerità egli ha condannato nel giudizio ecclesiastico palestinese quanti dicono che la grazia di Dio si dà secondo i nostri meriti!
Possiamo dubitare ancora che questo sia il suo pensiero e il suo esplicitissimo insegnamento?
Come dunque fu sincera quella sua confessione nell'interrogatorio episcopale?
Aveva già scritto forse questo libro, dove dice nel modo più aperto che la grazia divina si dà secondo i nostri meriti: ciò che nel Sinodo palestinese ha condannato senza opporre nessun rifiuto?
Confesserebbe allora d'aver ritenuto così antecedentemente, ma di non ritenerlo più adesso, e godremmo pubblicamente della sua correzione.
Al contrario, essendogli stata contestata in quell'occasione anche questo tra gli altri errori, rispose: " Se queste affermazioni siano di Celestio lo vedano coloro stessi che gliele attribuiscono.
Quanto a me, io non ho ritenuto mai così, ma anatematizzo coloro che ritengono così ".
Come non l'ha ritenuto mai, se aveva già scritto questo libro?
O come anatematizza coloro che lo ritengono, se questo libro l'ha scritto dopo?
Ma non vorrei che rispondesse d'aver detto: " Facendo la volontà di Dio meritiamo la grazia divina " nel modo in cui ai fedeli e a coloro che vivono piamente si aggiunge altra grazia, perché con essa resistano fortemente al tentatore, pur avendo già precedentemente ricevuto la grazia per poter fare la volontà di Dio.
Perché non dia dunque eventualmente questa risposta, sentite altre sue parole sul medesimo argomento: " Chi corre al Signore e desidera essere governato da lui, ossia lega la sua volontà alla volontà di Dio, e chi aderendo a Dio continuamente diventa un solo spirito con lui, ( 1 Cor 6,17 ) secondo le parole dell'Apostolo, non fa tutto questo se non in forza della libertà dell'arbitrio ".16
Vedete quale grande risultato fa dipendere dalla libertà dell'arbitrio.
Pelagio quindi pensa che noi senza l'aiuto di Dio aderiamo a Dio.
Questo significano le sue parole: " Se non in forza della libertà dell'arbitrio ".
E questo importa che dopo aver aderito a Dio senza bisogno del suo aiuto, allora, proprio perché abbiamo aderito a lui, meritiamo finalmente anche il suo aiuto.
23 - Prosegue infatti a dire: " Chi usa bene di essa ", cioè chi usa bene della libertà dell'arbitrio, " si consegna così totalmente a Dio e mortifica così ogni sua volontà da poter dire con l'Apostolo: Non sono più io che vivo, ma il Cristo vive in me, ( Gal 2,20 ) e pone il suo cuore nelle mani di Dio perché lo volga dove vuole ".17
Grande aiuto certamente della grazia divina quello con il quale Dio volge dove vuole il nostro cuore!
Ma questo così grande aiuto noi allora lo meritiamo, come fantastica Pelagio, quando senza nessun aiuto divino e solo in forza della libertà dell'arbitrio corriamo al Signore, desideriamo d'essere governati da lui, leghiamo alla sua la nostra volontà e aderendo costantemente a lui diventiamo un solo spirito con lui. ( 1 Cor 6,17 )
Cioè questi benefici così ingenti non li otteniamo secondo Pelagio se non in forza della libertà dell'arbitrio e per questi nostri meriti antecedenti conseguiamo tanta grazia di Dio che egli volga dove vuole il nostro cuore.
In che modo dunque è grazia, se non viene data gratis?
In che modo è grazia, se viene pagata per debito?
In che modo sarebbe vero allora quello che dice l'Apostolo: Non viene da voi, ma è dono di Dio, né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene; ( Ef 2,8-9 ) e ancora: Se lo è per grazia, non lo è per le opere, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia? ( Rm 11,6 )
In che modo, dico, è vero tutto questo, se precedono opere tanto grandi da dare a noi il merito di ricevere la grazia, per il quale merito la grazia non ci è regalata gratuitamente, ma pagata debitamente?
È forse vero dunque che per giungere ad avere l'aiuto di Dio si corre a Dio senza bisogno del suo aiuto, e per essere aiutati da Dio quando aderiamo già a lui, siamo in grado di aderire a Dio senza bisogno del suo aiuto?
Quale altro bene più grande o uguale potrà prestare all'uomo la grazia stessa, se già senza di essa e solo in forza della libertà dell'arbitrio l'uomo è potuto diventare un solo spirito con il Signore? ( 1 Cor 6,17 )
Vorrei però che Pelagio dicesse qualcosa su quel re d'Assiria di cui quella santa donna di Ester aborriva il letto, ( Est 8,15 ) quando, era assiso sul trono del suo regno, vestito del manto della sua gloria, tutto scintillante d'oro e di pietre preziose, terribilissimo in volto.
Levò la faccia, fiammeggiante di splendore, a guardare Ester, come un toro nell'impeto del suo furore, tanto che la regina ebbe paura, mutò di colore, svenne e dovette appoggiarsi sulla spalla di un'ancella che la precedeva. ( Est 8,9-10 )
Vorrei dunque che costui ci dicesse se quel re era già corso al Signore, se aveva già desiderato d'essere governato da lui, se aveva già legato la sua volontà alla volontà di Dio, se aderendo costantemente a lui era già diventato un solo spirito con lui, ( 1 Cor 6,17 ) unicamente in forza della libertà dell'arbitrio, se si era già affidato totalmente a Dio e aveva mortificato ogni sua volontà e posto il suo cuore nelle mani di Dio.
Chi giudica così di quel re come era allora, non credo che sia uno sciocco, ma un pazzo: e, ciò nonostante, Dio convertì lo sdegno di Assuero in dolcezza. ( Est 8,11 )
Ora, chi non vede che è un'operazione molto più grande cambiare lo sdegno facendolo passare all'opposto, in dolcezza, che inclinare il cuore a qualcosa, quando non è attaccato a nulla per partito preso, ma equidistante dalle parti opposte?
Leggano dunque e comprendano, lo capiscano e lo riconoscano: non con la legge e la dottrina che risuona dal di fuori, ma con un intervento interno ed occulto, mirabile ed ineffabile, Dio non fa negli animi degli uomini solamente delle rivelazioni perché conoscano la verità, ma opera altresì per far buone le loro volontà.
La smetta dunque ormai Pelagio d'ingannare se stesso e gli altri discorrendo contro la grazia di Dio.
La grazia di Dio verso di noi non si deve predicare solamente per uno solo di quei tre fattori, ossia per la possibilità di volere il bene e di fare il bene, ma anche per la volontà buona e per l'attività buona.
Pelagio dichiara infatti che tale possibilità vale per ambedue le scelte, e tuttavia non sono da attribuirsi per questo a Dio anche i nostri peccati, come solo per la medesima possibilità gli vuole attribuire le nostre opere buone.
Non per questo si deve celebrare l'aiuto così grande della grazia divina, perché aiuta la possibilità naturale.
La smetta Pelagio di dire: " Il potere che abbiamo riguardo ad ogni bene di farlo, di dirlo, di pensarlo, è di colui che ci ha donato questo potere e aiuta questo potere.
Al contrario fare bene o parlare bene o pensare bene è merito nostro ".18
La smetta, ripeto, di dire questo.
Dio infatti non solo ci ha donato il nostro potere e lo aiuta, ma anche suscita in noi il volere e l'operare. ( Fil 2,13 )
Non nel senso che non siamo noi a volere e non siamo noi a operare, ma perché senza il suo aiuto né vogliamo né facciamo alcunché di buono.
Come si può dire: " Il potere che noi abbiamo di fare il bene è di Dio, ma fare il bene è merito nostro ",19 quando l'Apostolo dice che pregava Dio per quelli a cui scriveva perché non facessero nulla di male e facessero il bene?
Non dice infatti: Preghiamo perché non possiate fare alcun male, ma dice: Perché non facciate alcun male.
Non dice: Perché possiate fare il bene, ma: Perché facciate il bene. ( 2 Cor 13,7 )
Coloro infatti dei quali è scritto: Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio, ( Rm 8,14 ) certamente perché facciano il bene sono guidati da colui che è il Bene.
Come può dire Pelagio: " Il potere che abbiamo di parlare bene è di Dio, che parliamo bene è merito nostro ", mentre il Signore dice: È lo Spirito del Padre vostro che parla in voi? ( Mt 10,20 )
E infatti non dice: Non siete stati voi a darvi il potere di parlare bene, ma dice: Non siete voi a parlare.
Né dice: È lo Spirito del Padre vostro che a voi dà o ha dato il potere di parlare bene, ma dice: Che parla in voi, non indicando il vantaggio della possibilità, ma esprimendo l'effetto di una nostra attività concorde con quella di Dio.
Come può dire quell'esaltato assertore del libero arbitrio: " Il potere che abbiamo di pensare bene è di Dio, ma pensare bene è merito nostro"?
Gli risponde quell'umile predicatore della grazia: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio. ( 2 Cor 3,5 )
Non dice: " Poter pensare", ma: Pensare.
Questo tipo di grazia divina, manifesto nella parola di Dio, lo riconosca manifestamente anche Pelagio e non copra con un pudore spudoratissimo che per tanto tempo ha nutrito idee contrarie a questa dottrina, ma lo scopra con un dolore salutarissimo, perché la Chiesa santa non sia turbata dalla sua ostinazione pervicace, ma sia allietata dalla sua correzione verace.
Distingua come si devono distinguere, la cognizione e l'amore: La scienza gonfia, la carità edifica. ( 1 Cor 8,2 )
Ed è quando la carità edifica che la scienza non gonfia più.
Ed essendo ambedue doni di Dio, ma uno minore e l'altro maggiore, non esalti così la nostra giustizia al di sopra della lode che è dovuta al nostro Giustificatore, eviti cioè di attribuire il minore di questi due doni all'aiuto divino e di usurpare il dono maggiore per l'arbitrio umano.
E se accorderà che è dalla grazia di Dio che noi riceviamo la carità, eviti di pensare che alcuni buoni meriti da parte nostra abbiano preceduto il dono della carità.
Quali meriti buoni potevamo avere quando non amavamo Dio?
Fu appunto per ricevere l'amore con il quale amare Dio che siamo stati amati da Dio quando non avevamo ancora il suo amore.
Lo dice in forma tanto chiara l'apostolo Giovanni: Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi, ( 1 Gv 4,10 ) e anche: Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. ( 1 Gv 4,19 )
Affermazione davvero ottima e verissima!
Non avremmo infatti l'amore per amarlo, se non lo ricevessimo da lui che ce lo dona amandoci per primo.
Che bene poi faremmo se non amassimo? O come ci è possibile non fare il bene se amiamo?
Benché infatti sembri talvolta che i comandamenti di Dio siano osservati non da gente che ama, ma da gente che teme, tuttavia dove manca l'amore nessun'opera si accredita come buona, né è giusto che si chiami opera buona, perché tutto ciò che non viene dalla fede è peccato, ( Rm 14,23 ) e la fede opera per amore. ( Gal 5,6 )
E quindi chi vuole riconoscere veracemente la grazia di Dio, che riversa nei nostri cuori l'amore di Dio per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato, ( Rm 5,5 ) la riconosca così da non dubitare che senza di essa non si può fare assolutamente nulla di buono che riguardi la pietà e la vera giustizia.
Non si comporti come Pelagio, il quale, dicendo che " la ragione per cui si dà la grazia è che si adempia più facilmente ciò che Dio comanda ",20 mostra abbastanza chiaramente quale sia il suo pensiero sulla grazia: anche senza di essa, sebbene meno facilmente, si può fare tuttavia ciò che Dio comanda.
Svela appunto con certezza il suo pensiero nel libro già ricordato21 che egli indirizzò ad una vergine consacrata, quando dice: " Cerchiamo di meritare la grazia divina e più facilmente con l'aiuto dello Spirito Santo resisteremo allo spirito cattivo ".22
Perché mai ha inserito questa espressione " più facilmente "?
Non era completo il senso delle parole: " Con l'aiuto dello Spirito Santo resisteremo allo spirito cattivo "?
Ma chi non riuscirebbe a capire quanto danno abbia fatto con quell'aggiunta?
Volendo evidentemente dare ad intendere che le forze della natura, che egli danneggia esaltandole, sono così grandi che, sebbene meno facilmente, si può tuttavia resistere in qualche modo allo spirito cattivo anche senza l'aiuto dello Spirito Santo.
Similmente scrive nel primo libro del suo In difesa del libero arbitrio: " Ma pur avendo in noi, per non peccare, così forte e così saldo il libero arbitrio, che il Creatore ha inserito universalmente nella natura umana, in più, per la sua inestimabile benevolenza, siamo difesi dal suo quotidiano aiuto ".23
Che bisogno c'è di quest'aiuto, se il libero arbitrio è tanto forte, se è tanto saldo per non peccare?
Ma anche qui vuol dare ad intendere che l'aiuto divino ha questo scopo: che per mezzo della grazia si faccia più facilmente ciò che crede possibile fare, sebbene meno facilmente, anche senza la grazia.
Lo stesso dice in un altro passo del medesimo libro: " Perché gli uomini possano per mezzo della grazia fare più facilmente ciò che si comanda ad essi di fare per mezzo del libero arbitrio ".
Togli " più facilmente " e il senso non solo sarà pieno, ma anche sano, se si dice in questo modo: Perché gli uomini possano per mezzo della grazia fare ciò che si comanda ad essi di fare per mezzo del libero arbitrio.
Aggiungendo invece " più facilmente " si suggerisce in sordina che il compimento dell'opera buona è possibile anche senza la grazia di Dio.
È l'idea riprovata da colui che dice: Senza di me non potete far nulla. ( Gv 15,5 )
Si corregga Pelagio su tutti questi punti, perché, se l'umana infermità ha errato nella profondità di grandi verità, non aggiunga al suo errore anche una diabolica falsità o animosità, sia negando d'aver ritenuto l'errore, sia difendendo l'errore che ha ritenuto, benché abbia conosciuto per l'evidenza della verità che non avrebbe dovuto ritenere gli errori ricordati.
È proprio di questo tipo di grazia, dalla quale siamo giustificati, dalla quale cioè si riversa nei nostri cuori la carità per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato, ( Rm 5,5 ) che io negli scritti di Pelagio e di Celestio, tra quanti ne ho potuti leggere, non ho mai trovato che essi in nessun passo l'abbiano mai professato nella maniera in cui si deve professare.24
Io non mi sono mai accorto assolutamente in nessun loro testo che essi riconoscano nel modo in cui si devono riconoscere i figli della promessa, dei quali l'Apostolo dice: Non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa. ( Rm 9,8 )
Ebbene, quello che Dio promette non siamo noi a farlo con l'arbitrio o con la natura, ma è lui stesso che lo fa con la grazia.
Non voglio occuparmi per ora degli opuscoli di Celestio o dei suoi libelli che allegò agli Atti del processo ecclesiastico e che noi vi abbiamo fatti mandare al completo insieme ad altre lettere, stimate da noi necessarie.
Da tutti questi scritti, dopo un diligente esame, potrete accorgervi che Celestio non ripone la grazia di Dio, dalla quale siamo aiutati o ad allontanarci dal male o a fare il bene, ( 1 Pt 3,11 ) in nient'altro che nella legge e nella dottrina, oltre che nell'arbitrio naturale della volontà, tanto che ammette la necessità delle stesse orazioni solo perché sia indicato all'uomo ciò che deve desiderare e amare.
Per tacere dunque sul momento di tutti questi documenti, cade a proposito che poco tempo fa lo stesso Pelagio ha mandato a Roma e una lettera e il libello della sua professione di fede, scrivendo al papa Innocenzo di beata memoria, di cui egli ignorava la morte.
In tale lettera dice dunque: " Ci sono due punti sui quali certuni tentano d'infamarmi.
Uno di negare il sacramento del battesimo ai bambini e di promettere ad alcuni i regni dei cieli senza bisogno della redenzione del Cristo.
L'altro di dire che l'uomo può così bene evitare il peccato da escludere l'aiuto di Dio, e di confidare tanto nel libero arbitrio da ripudiare l'aiuto della grazia ".25
Ma quanto il suo errore riguardo al battesimo dei bambini, sebbene conceda che lo si deve dare ai bambini, sia contrario alla fede cristiana e alla verità cattolica, non è questo il momento di discutere con tutta la necessaria diligenza.
Adesso infatti dobbiamo portare a termine il lavoro che abbiamo intrapreso sull'aiuto della grazia.
Vediamo perciò quale sia anche in questa lettera la sua risposta alle accuse da lui riferite.
Per non dire nulla delle sue astiose lamentele nei riguardi dei suoi nemici, quando arrivò all'argomento rispose nei termini seguenti.
Scrive: " Ecco, mi scagioni presso la tua beatitudine questa lettera, nella quale diciamo puramente e semplicemente che per peccare e non peccare noi abbiamo integro il nostro libero arbitrio, il quale in tutte le opere buone è aiutato sempre dall'aiuto divino ".26
Vedete comunque, con l'intelligenza che il Signore vi ha data, che non bastano a risolvere la questione queste sue parole.
Chiediamo ancora una volta da quale aiuto dica aiutato il libero arbitrio, perché non voglia malauguratamente far intendere, com'è solito, la legge e la dottrina.
Se infatti domandi per quale ragione dice " sempre ", potrà rispondere: Perché è scritto: La sua legge medita giorno e notte. ( Sal 1,2 )
Più avanti, dopo aver interposto alcune considerazioni sulla condizione dell'uomo e sulla sua naturale possibilità di peccare e di non peccare, aggiunge: " Questo potere del libero arbitrio diciamo che esiste universalmente in tutti: nei cristiani, nei giudei e nei gentili.
In tutti c'è ugualmente per natura il libero arbitrio, ma unicamente nei cristiani è aiutato dalla grazia ".27
Chiediamo di nuovo: da quale grazia? Ed egli potrà rispondere ancora: dalla legge e dalla dottrina cristiana.
Poi, comunque intenda la grazia, dice che essa si dà ai cristiani secondo i loro meriti, mentre in Palestina aveva già condannato con quella sua bella autodifesa coloro che lo dicevano, come ho ricordato già più sopra.
Le sue parole sono precisamente queste: " In quelli il bene della condizione è nudo e inerme ": si riferisce a coloro che non sono cristiani.
Poi proseguendo nell'ordine dice: " Al contrario in questi che appartengono al Cristo è protetto dall'aiuto del Cristo ".
Vedete che rimane ancora incerto da quale aiuto, secondo quanto abbiamo già detto.
Ma continua a parlare ancora di quelli che non sono cristiani e dice: " La ragione per cui devono subire il giudizio e la condanna è che, sebbene abbiano il libero arbitrio per mezzo del quale potrebbero giungere alla fede e meritare la grazia di Dio, usano male la libertà ricevuta.
Sono invece da premiare coloro che usando bene il libero arbitrio meritano la grazia del Signore e osservano i suoi comandamenti ".28
È manifesto dunque: egli dice che la grazia si dà secondo i meriti, qualunque contenuto e qualità egli attribuisca alla grazia, che tuttavia non spiega apertamente.
Quando infatti dice che sono da premiare coloro che usano bene il libero arbitrio e per questo meritano la grazia del Signore, confessa che ad essi è pagato un debito.
Dove se ne va allora l'affermazione dell'Apostolo: Giustificati gratuitamente per la sua grazia? ( Rm 3,24 )
Dove se ne va anche l'altra sua affermazione: Per grazia siete salvi? ( Ef 2,8 )
E perché non credessero d'essere salvi " per le opere ", aggiunge: mediante la fede.
Perché poi non credessero d'aver diritto, senza la grazia di Dio, a ricevere la fede stessa, scrive: E ciò non viene da voi, ma è dono di Dio. ( Ef 2,8 )
Il senso è dunque questo: quel dono da cui partono tutti gli altri doni che si dicono ricevuti da noi per nostro merito, e cioè il dono della fede, lo riceviamo senza nostro merito.
O se si nega che la fede si dà, perché allora si dice: Secondo la misura di fede che Dio ha data a ciascuno? ( Rm 12,3 )
Se poi la fede si dice data così da essere pagata ai nostri meriti e non regalata, perché mai l'Apostolo torna a dire di nuovo: A voi è stata concessa la grazia non solo di credere nel Cristo, ma anche di soffrire per lui? ( Fil 1,29 )
Di ambedue le virtù ha infatti reso testimonianza che sono state donate: e la virtù per cui ciascuno crede nel Cristo e la virtù per cui ciascuno patisce per il Cristo.
Costoro viceversa fanno dipendere così intrinsecamente la fede dal libero arbitrio da far ritenere che a noi perché arriviamo alla fede non si regala una grazia gratuita, ma si paga una grazia dovuta, e quindi nemmeno più una grazia, perché, se non è gratuita, non è grazia.
Indice |
6 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
7 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
8 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
9 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
10 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
11 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
12 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
13 | Pelag., Pro lib. arb. 1 |
14 | Pelag., Ep. ad Innocentium |
15 | Pelag., Ep. ad Demetr. 25 |
16 | Pelag., Pro lib. arb. 1 |
17 | Pelag., Pro lib. arb. 1, con allusione a Prv 21, 1 |
18 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
19 | Pelag., Pro lib. arb. 3 |
20 | Pelag., Pro lib. arb. 1 |
21 | lib. 1, 22-23 |
22 | Pelag., Ep. ad Demetr. 25 |
23 | Pelag., De lib. arb. 1 |
24 | Aug., Ep. 188, 3, 13 |
25 | Pelag., Ep. ad Innocentium |
26 | Pelag., Ep. ad Innocentium |
27 | Pelag., EP. ad Innocentium. |
28 | Pelag., Ep. ad Innocentium |