La grazia di Cristo e il peccato originale

Indice

La Grazia di Cristo

1.1 - Dedica di questa opera ad Albina, Piniano e Melania

Quanto goda della vostra salute corporale e principalmente della vostra salute spirituale, o fratelli sincerissimi amati da Dio, Albina, Piniano e Melania, essendomi impossibile dirlo, lo lascio pensare e credere a voi, per poter subito parlare piuttosto delle questioni sulle quali mi avete consultato.

Poiché era prossima la partenza del messaggero, ho dettato, come ho potuto e come Dio si è degnato concedermi, queste pagine in mezzo alle nostre occupazioni, molto più fitte qui a Cartagine che in tutti gli altri luoghi.

2.2 - Ambiguità di Pelagio

Mi avete informato d'esservi adoperati con Pelagio perché condannasse per scritto tutti gli errori di cui è accusato e che ha risposto davanti a voi: "Anatematizzo chi pensa o dice che la grazia di Dio, in virtù della quale il Cristo è venuto in questo mondo per salvare i peccatori, ( 1 Tm 1,15 ) non è necessaria non solo nelle singole ore o nei singoli momenti, ma anche per le nostre singole azioni; e coloro che tentano di eliminare la grazia finiscano nelle pene eterne".

Chiunque ascolta queste parole ignorando il senso che Pelagio con sufficiente evidenza ha espresso nei suoi libri, non in quelli che dice essergli stati sottratti prima di poterli correggere o in quelli che nega assolutamente essere suoi, ma in quelli che ricorda nella sua lettera mandata a Roma, crede senz'altro che il suo pensiero collimi con il pensiero della verità.

Chi invece sta attento a ciò che Pelagio dice più esplicitamente in quei libri, deve ritenere sospette anche coteste sue parole.

Infatti, sebbene faccia consistere nella sola remissione dei peccati la grazia di Dio, in virtù della quale il Cristo è venuto nel mondo a salvare i peccatori, può aggiustare la sua dichiarazione di sopra ai limiti della remissione dei peccati dicendo: la grazia è necessaria nelle singole ore, nei singoli momenti e per le nostre singole azioni, perché, tenendo noi sempre in mente e richiamandoci alla memoria che ci sono stati rimessi i peccati, non dobbiamo peccare ulteriormente, aiutati non dalla somministrazione di un qualche potere, ma dalle sole forze della nostra propria volontà memore nelle singole azioni di quanto le è stato elargito con la remissione dei peccati.

Similmente poiché i Pelagiani sono soliti dire che il Cristo ci ha prestato il suo aiuto a non peccare per il fatto che ci ha lasciato un bell'esempio vivendo egli stesso con giustizia ed insegnando con giustizia, possono aggiustare la dichiarazione di sopra anche ai limiti dell'esemplarità di Gesù e dire che nei singoli momenti e per le singole nostre azioni è necessaria a noi una grazia siffatta, quella cioè di saper guardare in ogni nostro comportamento al comportamento esemplare del Signore.

Si accorge benissimo la vostra fede quanto sia da distinguere questo riconoscimento della grazia da parte di Pelagio dal riconoscimento della grazia sul quale verte la questione.

Eppure può esser coperta la differenza dall'ambiguità di coteste parole.

3.3 - Pelagio dimostra di credere ancora a quello che sembrava aver condannato

Ma che c'è da meravigliarsi? Lo stesso Pelagio, dopo aver condannato negli Atti episcopali1 senza nessuna esitazione quanti dicono che la grazia di Dio e il suo aiuto non si dà per le nostre singole azioni, ma consiste nel libero arbitrio o nella legge o nella dottrina - e qui noi credevamo che fossero finite su questo punto tutte le sue tergiversazioni -; dopo aver condannato altresì quanti insegnano che la grazia di Dio si dà secondo i nostri meriti, nonostante tutto questo, nei libri che ha poi pubblicati In difesa del libero arbitrio e ha ricordati nella lettera indirizzata a Roma, non dimostra di credere in nient'altro che in quello che sembrava aver condannato.

Infatti fa consistere la grazia di Dio e il suo aiuto, che ci aiuta a non peccare, o nella natura e nel libero arbitrio o nella legge e nella dottrina: nel senso cioè che l'aiuto di Dio all'uomo perché stia lontano dal male e faccia il bene ( 1 Pt 3,11; Sal 34,15; Sal 37,27 ) si deve credere che consista nel fatto che Dio rivela e indica all'uomo ciò che deve fare, non nel fatto che Dio cooperi altresì con l'uomo e gli metta nell'animo l'amore necessario per fare ciò che ha conosciuto di dover fare.

3.4 - Potere, volere, fare

Stabilisce e distingue tre fattori necessari perché si adempiano i comandamenti di Dio: la possibilità, la volontà, l'attività.

La possibilità per cui l'uomo può essere giusto, la volontà con cui l'uomo vuol essere giusto, l'attività nella quale l'uomo è giusto.

Del primo di questi tre elementi, cioè della possibilità, dice che è stata concessa dal Creatore alla nostra natura: non è in nostro potere, ma la possediamo anche contro la nostra volontà.

Degli altri due elementi, cioè della volontà e dell'attività, dice che sono nostri e li riconosce così a noi da farli provenire solamente da noi.

Spiega inoltre che dalla grazia di Dio non sono aiutati i due fattori che vuole esclusivamente nostri, cioè la volontà e l'attività, ma è aiutato dalla grazia di Dio il fattore che non è in nostro potere e ci proviene da Dio, cioè la possibilità.

Come se i fattori che sono nostri, ossia la volontà e l'attività, fossero tanto forti per tener lontano il male e fare il bene da non aver bisogno dell'aiuto divino, e viceversa il fattore che ci proviene da Dio, ossia la possibilità, fosse debole e dovesse esser sempre aiutato dall'aiuto della grazia.2

4.5 - Le parole stesse di Pelagio

Ma perché qualcuno non dica forse che o noi non intendiamo bene come parla Pelagio o travolgiamo maliziosamente le sue parole in un altro senso nel quale non sono state dette, state ora a sentire le sue stesse parole.

Dice: " Noi distinguiamo così questi tre fattori e li disponiamo come distribuiti in questo determinato ordine.

Al primo posto mettiamo il potere, al secondo il volere, al terzo l'essere.

Collochiamo il potere nella natura, il volere nell'arbitrio, l'essere nell'attività. Il primo, cioè il potere, appartiene propriamente a Dio che l'ha concesso alla sua creatura, gli altri due invece, il volere e l'essere, sono da riportarsi all'uomo, perché discendono dalla fonte dell'arbitrio.

Dunque nel volere il bene e nel fare il bene c'è il merito dell'uomo, anzi e dell'uomo e di Dio il quale ha dato la possibilità del volere stesso e del fare e aiuta sempre con il soccorso della sua grazia tale possibilità.

Al contrario la possibilità che l'uomo ha di volere il bene e di fare il bene è dono di Dio soltanto.

Può dunque esistere la possibilità da sola senza gli altri due fattori, questi invece non possono sussistere senza la possibilità.

Io pertanto sono libero di non avere né la buona volontà né la buona attività, non posso invece in nessun modo non avere la possibilità del bene: essa risiede in me anche contro la mia volontà e in questo la natura non viene mai meno a se stessa.

Alcuni esempi ci renderanno più chiara l'idea.

Poter vedere con gli occhi non è merito nostro, vedere invece bene o vedere male è affar nostro.

La possibilità che abbiamo di parlare è dono di Dio; ma parlare bene o male è affar nostro.

E per abbracciare tutto in blocco, la possibilità che abbiamo riguardo ad ogni bene di farlo, di dirlo, di pensarlo è di colui che ci ha donato questa possibilità e aiuta questa possibilità; al contrario fare bene o parlare bene o pensare bene è affar nostro, perché possiamo volgere anche al male tutte queste nostre scelte.

Quando perciò noi, e per la vostra calunnia dobbiamo ripeterlo spesso, diciamo che l'uomo può essere senza peccato, noi allora, con il riconoscimento della possibilità che abbiamo ricevuta, lodiamo Dio che ci ha elargito questa possibilità.

Né c'è nessuna ragione di lodare l'uomo qui dove si tratta soltanto di Dio: non si parla infatti del volere, né dell'essere, ma unicamente di ciò che può essere ".3

5.6 - Pelagio contro S. Paolo

Ecco, questo è tutto il dogma di Pelagio diligentemente enunziato con le stesse sue parole nel terzo libro della sua opera In difesa del libero arbitrio.

Con tanta sottigliezza ha curato di distinguere questi tre elementi, prima il potere, poi il volere, terzo l'essere, cioè la possibilità, la volontà, l'attività, che ogni volta ci càpiti di leggere o di ascoltare che egli riconosce l'aiuto della grazia divina per allontanarci dal male e fare il bene, ( 1 Pt 3,11; Sal 34,15; Sal 37,27 ) sia quando ripone l'aiuto nella legge e nella dottrina, sia quando lo ripone dove gli piace, noi sappiamo già quello che dice, né ci sbagliamo intendendo diversamente il suo pensiero.

Dobbiamo sapere appunto che egli crede che né la nostra volontà, né la nostra attività sono aiutate dall'aiuto divino, ma è aiutata unicamente la nostra possibilità di volere e di agire, la quale dei tre fattori è la sola che secondo lui riceviamo da Dio: come se questo fattore che Dio stesso ha posto nella nostra natura fosse infermo e gli altri invece che Pelagio vuole nostri fossero così sani e forti e autosufficienti da non aver bisogno di alcun aiuto divino.

Perciò Dio non ci aiuta a volere, non ci aiuta ad agire, ma ci aiuta solamente ad avere la possibilità di volere e di agire.

Al contrario l'Apostolo dice: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. ( Fil 2,12 )

E perché i fedeli si sapessero aiutati da Dio non soltanto nel poter operare - l'avevano infatti già ricevuto per mezzo della natura e della dottrina -, ma anche nel fatto stesso di operare, non dice: È Dio che suscita in voi il potere, come se il volere e l'operare li avessero già da se stessi e non abbisognassero in questi due fattori dell'aiuto di Dio, ma dice: È Dio che suscita in voi il volere e il compiere ( Fil 2,13 ), o come si legge in altri codici specialmente greci: il volere e l'operare.

Vedete voi se l'Apostolo non ha previsto molto tempo prima per mezzo dello Spirito Santo i futuri avversari della grazia di Dio e non ha detto che è Dio a suscitare in noi questi due fattori, cioè il volere e l'operare, che Pelagio ha voluti così nostri, come se non fossero aiutati in se stessi dall'aiuto della grazia divina.

6.7 - Agostino smaschera Pelagio

Né Pelagio inganni gli incauti e i semplici o anche se stesso per il fatto che dopo aver detto: " Nel volere dunque il bene e nel fare il bene c'è il merito dell'uomo " si è quasi corretto ed ha aggiunto: " Anzi e dell'uomo e di Dio ".

Egli infatti non lo dice volendo far intendere che secondo la sana dottrina Dio suscita in noi il volere e l'operare, ma in che senso lo dica l'ha indicato ben evidentemente soggiungendo subito: " Il quale ha dato la possibilità del volere stesso e del fare ".

Che poi tale possibilità egli la riponga nella natura è chiaro dalle sue parole precedenti.

Ma perché non sembrasse che non aveva detto nulla della grazia, ha continuato dichiarando: " E aiuta sempre con la sua grazia tale possibilità ".

Non dice: Aiuta la stessa volontà o la stessa attività.

Se lo dicesse, non dimostrerebbe avversione alla dottrina dell'Apostolo.

Ma dice: " Tale possibilità ", cioè quel fattore che dei tre ha riposto nella natura, " aiuta sempre con il soccorso della sua grazia ".

Ne segue che la ragione per cui nel volere e nel fare c'è il merito e di Dio e dell'uomo non è secondo Pelagio il fatto che l'uomo vuole in quanto è Dio che ispira nella sua volontà l'ardore dell'amore, e parimenti il fatto che l'uomo opera non è perché coopera con lui Dio - e senza l'aiuto di Dio che sarebbe mai l'uomo? -; ma la ragione per cui Pelagio ha aggiunto al merito dell'uomo anche il merito di Dio è perché se non esistesse la natura, nella quale Dio ci ha creati perché con essa potessimo volere ed agire, non vorremmo né agiremmo.

6.8 - Pelagio ripone la grazia divina nella legge e nella dottrina

Quanto poi al riconoscimento da parte di Pelagio che la possibilità naturale è aiutata dalla grazia di Dio, non è chiaro in questo testo né quale sia la grazia di cui parla, né in quale misura ritenga che da essa sia aiutata la natura, ma, come si può capire in altri passi dove parla con più evidenza, vuole che s'intenda che ad aiutare la possibilità naturale non sia nient'altro che la legge e la dottrina.

7. Infatti dice in un suo testo: " Qui i più ignoranti degli uomini credono che noi rechiamo offesa alla grazia divina perché diciamo che essa senza la nostra volontà non porta in nessun modo alla perfezione in noi la santità, come se Dio avesse comandato qualcosa alla sua grazia e non somministrasse anche l'aiuto della sua grazia a quelli ai quali ha comandato qualcosa, perché gli uomini possano adempiere più facilmente per mezzo della grazia ciò che è comandato ad essi di fare per mezzo del libero arbitrio ".4

E come sul punto di spiegare di quale grazia parli, ha di seguito aggiunto: " E noi riconosciamo che la grazia non sta solo nella legge, come tu pensi di noi, ma anche nell'aiuto di Dio ".

Chi a questo punto non desidererebbe che egli indichi quale grazia vuole che s'intenda?

Per questo in modo particolare da lui dobbiamo aspettare che si voglia spiegare quando dice di non riporre la grazia unicamente nella legge.

Ma mentre ce ne stiamo sospesi in quest'attesa, guardate che cosa ha soggiunto: " Dio infatti ci aiuta con la sua dottrina e con la sua rivelazione quando apre gli occhi del nostro cuore, quando ci mostra i beni futuri perché non c'ingombrino i beni presenti, quando sventa le insidie del diavolo, quando ci illumina con il dono multiforme ed ineffabile della grazia Celeste ".

Poi, concludendo la sua sentenza con una specie d'autogiustificazione, domanda: " Ti sembra che neghi la grazia di Dio chi dice così?

O non confessa e il libero arbitrio dell'uomo e la grazia di Dio? ".

In tutto questo testo non si è discostato dal fare l'elogio della legge e della dottrina, inculcando diligentemente che la legge e la dottrina sono la grazia adiuvante di Dio e rispettando ciò che si era proposto nel dire: " Ma noi riconosciamo che la grazia sta anche nell'aiuto di Dio ".

Poi ha creduto di dover insinuare l'aiuto di Dio sotto molteplici aspetti ricordando la dottrina e la rivelazione, l'aprire gli occhi del cuore, l'indicazione dei beni futuri, il mandare a vuoto le insidie diaboliche, la nostra illuminazione con il dono multiforme ed ineffabile della grazia Celeste: tutto questo serve appunto a che noi impariamo i comandamenti di Dio e le sue promesse.

Questo è dunque riporre la grazia di Dio nella legge e nella dottrina.

8.9 - La legge senza la grazia

Da qui dunque apparisce che Pelagio riconosce come grazia quella con la quale Dio mostra e rivela che cosa dobbiamo fare, non quella con la quale Dio ci dona di fare e ci aiuta a fare.

Ora, la cognizione della legge, se manca la cooperazione della grazia, vale piuttosto a far sì che ci sia la trasgressione del comandamento.

Dice infatti l'Apostolo: Dove non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione, ( Rm 4,15 ) e: Non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. ( Rm 7,7; Es 20,17 )

Sono quindi tanto diverse tra loro la legge e la grazia, che la legge, se la grazia non ci aiuta, non solo non giova a nulla, ma anzi ci nuoce moltissimo, e l'utilità della legge si manifesta in questo: tutti quelli che essa fa rei di trasgressione li costringe a ricorrere alla grazia per esser liberati e anche aiutati a vincere le cattive concupiscenze.

La legge infatti più che aiutare comanda, diagnostica il male, non lo guarisce, anzi il male che essa non guarisce piuttosto lo acuisce, perché si cerchi più attentamente e più sollecitamente la medicina della grazia.

Tanto che è scritto: La lettera uccide, lo Spirito dà vita. ( 2 Cor 3,6 )

Se fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge. ( Gal 3,21 )

Tuttavia, perché anche la legge presta un suo aiuto, l'Apostolo aggiunge: La Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo.

Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotti a Gesù Cristo. ( Gal 3,22.24 )

Ai superbi dunque lo stesso esser rinchiusi sotto il peccato più strettamente e più manifestamente è utile, perché nel fare la giustizia non presumano delle forze del libero arbitrio come se fossero forze proprie di esso, ma sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio.

Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato.

Ora invece, indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti. ( Rm 3,19-21 )

Ma come si è manifestata indipendentemente dalla legge, se è testimoniata dalla legge?

Dunque la giustizia non si è manifestata senza la legge, però non dipende dalla legge perché è la giustizia di Dio, cioè la giustizia che non viene a noi dalla legge, ma da Dio, non la giustizia che è oggetto di timore attraverso la conoscenza di un Dio che comanda, ma la giustizia che è oggetto di possesso attraverso l'amore di un Dio che dona, perché chi si vanta, si vanti nel Signore. ( 1 Cor 1,31 )

9.10 - Pelagio non riesce a coprirsi

Che senso ha infatti che costui reputi la legge e la dottrina una grazia dalla quale siamo aiutati a operare la giustizia, quando la legge e la dottrina, per molto che ci aiuti, ci aiuta al massimo perché si cerchi la grazia?

Nessuno può adempiere la legge per mezzo della legge. Infatti pieno adempimento della legge è l'amore. ( Rm 13,10 )

L'amore di Dio però non è stato riversato nei nostri cuori per mezzo della legge, ma per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,5 )

Perciò per mezzo della legge si addita la grazia, perché per mezzo della grazia si attui la legge.

Che giova a Pelagio dire la medesima cosa con parole diverse per impedire di far capire che ripone nella legge e nella dottrina la grazia, dalla quale asserisce che è aiutata la possibilità della natura?

Per quanto ne giudico io, egli teme di farsi capire, proprio perché ha condannato coloro che dicono che la grazia di Dio e il suo aiuto non si dà per le nostre singole azioni, ma consiste nel libero arbitrio e nella legge e nella dottrina.

E tuttavia egli crede di riuscire a nascondersi, girando e rigirando in tutti i versi il concetto di legge e di dottrina.

10.11 - La grazia è più della dottrina

In un altro passo, dopo essersi dilungato nell'asserire che a fare in noi la buona volontà non è l'aiuto di Dio, ma siamo noi stessi, affronta l'obiezione che gli nasce dalla lettera dell'Apostolo e dice: " Come si giustificherà allora l'affermazione: È Dio che suscita in voi il volere e l'operare? ". ( Fil 2,13 )

Poi per fare vista di sciogliere quest'obiezione che sentiva molto forte contro il suo dogma soggiunge: " Dio suscita in noi la volontà di ciò che è buono e la volontà di ciò che è santo in tre modi: primo, perché con la grandezza della gloria futura e con la promessa dei premi infiamma noi che siamo dediti ai desideri terreni e affezionati unicamente ai beni terreni e guisa d'animali muti; secondo, perché mediante la rivelazione della sapienza sommove la nostra volontà indolente al desiderio di Dio; terzo, perché - e tu non temi di negarlo altrove - ci persuade di tutto ciò che è buono ".5

Che cosa potrebbe essere più manifesto di tutto questo per farci capire che Pelagio nient'altro che la legge e la dottrina dice esser la grazia con la quale Dio suscita in noi la volontà di ciò che è buono?

È infatti nella legge e nella dottrina delle sante Scritture che si promette la grandezza della gloria futura e dei premi.

Nella dottrina rientra pure che la sapienza si riveli, nella dottrina rientra che si persuada tutto ciò che è buono.

Se poi tra insegnare e persuadere o meglio esortare sembra che ci sia qualche differenza, tuttavia anche persuadere è compreso nel termine generale di dottrina, che abbraccia qualsiasi forma di discorsi o di scritti: infatti anche le sante Scritture e insegnano ed esortano, e l'uomo altresì può operare nell'insegnare e nell'esortare.

Ma noi vogliamo da Pelagio una buona volta il riconoscimento di quella grazia che non solo promette la grandezza della gloria futura, ma la fa pure credere e sperare; la grazia che non solo rivela la sapienza, ma la fa pure amare; la grazia che non fa solo opera suasiva per quanto è buono, ma fa anche opera persuasiva.

Non di tutti infatti è la fede ( 2 Ts 3,2 ) tra coloro che ascoltano il Signore promettere per mezzo delle Scritture il regno dei cieli, o non con tutti riesce ad essere persuasiva l'opera suasiva che li invita ad andare da colui che dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati. ( Mt 11,28 )

Di quali poi sia la fede e quali siano quelli che si lasciano persuadere ad andare da lui, l'ha ben indicato lui stesso là dove dice: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. ( Gv 6,44 )

E poco dopo, parlando di coloro che non credevano, dichiara: Vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio. ( Gv 6,65 )

Questa è la grazia che Pelagio deve riconoscere, se vuole non solo chiamarsi cristiano, ma anche essere cristiano.

11.12 - Senza la grazia non giovano nemmeno le più grandi rivelazioni

Che dire poi della rivelazione della sapienza?

Nessuno potrà facilmente sperare di poter giungere in questa vita alla grandezza delle rivelazioni dell'apostolo Paolo, e in esse appunto che altro c'è da credere che gli fosse solitamente rivelato se non ciò che concerneva la sapienza?

Eppure egli dice: Perché non montassi in superbia per la grandezza delle mie rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un messo di satana incaricato di schiaffeggiarmi.

A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me.

Ed egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. ( 2 Cor 12,7-9 )

Al riparo da ogni dubbio, se già fin da quel momento la carità fosse stata nell'Apostolo somma e tale che nulla le fosse da aggiungere, se fosse stata una carità che non potesse gonfiarsi in nessun modo, sarebbe forse stato necessario un messo di satana che con i suoi schiaffi reprimesse il levarsi di Paolo in superbia, che gli poteva capitare nella grandezza delle rivelazioni?

Che cos'è poi " levarsi in superbia " se non gonfiarsi?

E della carità appunto è stato detto con tutta verità: La carità non è invidiosa, non si gonfia. ( 1 Cor 13,4 )

Questa carità pertanto, anche in un Apostolo così grande, andava certamente aumentando di giorno in giorno, mentre si rinnovava in lui di giorno in giorno l'uomo interiore, ( 2 Cor 4,16 ) ed era destinata la sua carità a diventare perfetta senza dubbio là dove non avrebbe più potuto gonfiarsi.

Per il momento invece la mente dell'Apostolo era ancora in questa vita dove poteva gonfiarsi per la grandezza delle rivelazioni, fino a quando non si fosse riempita della solida struttura della carità: la sua corsa non era ancora arrivata a conquistare il premio, al quale si andava avvicinando sempre di più.

12.13 - Chi non si confessa debole, non diventa forte

Perciò a Paolo che non voleva sopportare quel fastidio incaricato di reprimere il suo levarsi in superbia, prima che ci fosse in lui l'ultima e somma perfezione della carità si dice ottimamente: Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. ( 2 Cor 12,9 )

S'intende nella debolezza non della carne soltanto, come crede Pelagio, ma e della carne e dello spirito, perché anche l'animo di Paolo era debole a confronto di quella perfezione somma e al suo animo s'intendeva data la spina della carne, il messo di satana, perché non si levasse in superbia, ( 2 Cor 12,7 ) sebbene a confronto con le persone carnali o animali che non comprendono ancora le cose dello Spirito di Dio ( 1 Cor 2,14 ) l'animo di Paolo fosse fortissimo.

Se dunque la potenza divina si manifesta pienamente nella debolezza umana ( 2 Cor 12,9 ), chi non si riconosce debole, non arriva a manifestarsi pienamente forte della potenza divina.

Questa grazia poi, per la quale la potenza divina si manifesta pienamente nella debolezza umana ( 2 Cor 12,9 ), è la grazia che conduce alla sommità della perfezione e alla glorificazione coloro che sono stati predestinati e chiamati secondo il disegno divino. ( Rm 8,28 )

E tale grazia ci procura non solo la conoscenza dei doveri da compiere, ma anche la forza di compiere i doveri conosciuti, né ci procura solo il dono di credere nei beni da amare, ma anche la forza d'amare i beni creduti.

13.14 - Con la grazia Dio insegna meglio che con la dottrina

Se questa grazia si deve chiamare dottrina, si chiami pure così, ma in modo da credere che sia Dio a infonderla più profondamente e più interiormente con ineffabile soavità nell'animo umano, non solo attraverso l'opera di coloro che piantano e irrigano all'esterno, ma anche con il suo intervento diretto che dà occultamente il suo incremento, ( 1 Cor 3,7 ) così che questa grazia non additi semplicemente la verità, ma somministri anche la carità.

Dio infatti insegna a coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno ( Rm 8,28 ) in modo da fare ad essi nello stesso tempo e il dono di sapere che cosa fare e il dono di fare ciò che sono venuti a sapere.

Perciò l'Apostolo parla così ai Tessalonicesi: Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che io ve ne scriva: voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri.

E a prova che avevano imparato da Dio soggiunge: E questo voi fate verso tutti i fratelli nell'intera Macedonia. ( 1 Ts 4,9-10 )

Come se il segno più certo che hai imparato da Dio sia questo: se fai ciò che hai imparato.

In questo modo tutti coloro che sono stati chiamati secondo il disegno divino hanno imparato da Dio, ( Is 54,13; Gv 6,45 ) com'è scritto nei profeti.

Al contrario, chi conosce, sì, ciò che si deve fare, ma non lo fa, costui non ha ancora imparato da Dio secondo la grazia, ma solo secondo la legge, non ancora secondo lo Spirito, ma solo secondo la lettera.

Sebbene sembri che molti facciano ciò che comanda la legge per timore della pena e non per amore della giustizia, e questa è la giustizia che l'Apostolo chiama la sua giustizia derivante dalla legge, come giustizia comandata e non data.

Se invece è data, non si chiama giustizia nostra, ma giustizia di Dio, perché diventa nostra, ma venendoci da Dio.

Scrive infatti: Per essere trovato nel Cristo non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Gesù, cioè con la giustizia che deriva da Dio. ( Fil 3,9 )

C'è dunque tanta distanza tra la legge e la grazia che, sebbene non si dubiti della provenienza della legge da Dio, tuttavia nel linguaggio di Paolo la giustizia che viene dalla legge non viene da Dio, ma viene da Dio la giustizia che ha il compimento per la grazia.

Infatti giustizia derivante dalla legge si dice quella che Dio fa mediante la maledizione della legge, giustizia derivante da Dio si dice quella che è data mediante il beneficio della grazia, allo scopo che il comandamento di Dio non sia terribile, ma soave, come si prega nel salmo: Soave sei tu, o Signore: nella tua soavità insegnami i tuoi decreti: ( Sal 119,68 ) cioè ti prego che io non sia costretto a vivere servilmente sotto la legge per paura della pena, ma goda la gioia di vivere con la legge per libera carità.

Osserva appunto la legge liberamente chi l'osserva volentieri.

E chi impara in questo modo fa sempre e perfettamente tutto quello che gli è stato insegnato di fare.

Indice

1 De gestis Pel. 14, 30
2 Contra Cresconium 2, 17, 21-30. 38
3 Pelag., Pro lib. arb. 3
4 Pelag., Pro lib. arb. 1
5 Pelag., Pro lib, arb. 3