Il libero arbitrio |
Mi turba soprattutto il problema del motivo per cui si devono soffrire pene tanto grandi perché si è insipienti, nell'ipotesi che mai siamo stati sapienti.
Sarebbe più giusto dire che si soffre per avere abbandonato il dominio della virtù e avere scelto la schiavitù sotto la passione.
Non consento che tu differisca di chiarire con una trattazione il problema, se ti è possibile.
A. - Parli come se avessi la certezza che mai si è stati sapienti, perché consideri soltanto il tempo da cui si è nati alla vita terrena.
Ma la sapienza è nello spirito.
È quindi un gran problema di ordine metafisico e da trattarsi a suo luogo se lo spirito ha vissuto un'altra vita prima della unione col corpo e se allora è vissuto nella sapienza.
Ciò non impedisce che si chiarisca, nei limiti possibili, l'argomento che abbiamo fra mano.
Ti chiedo allora se si ha in noi la volontà.
E. - Non lo so.
A. - Ma non vuoi saperlo?
E. - Non so neanche questo.
A. - Quindi non dialogare più con me.
E. - E perché?
A. - Prima di tutto perché, quando chiedi, non devo risponderti se non vuoi sapere ciò che chiedi.
Inoltre se tu non volessi giungere alla sapienza, non si deve tenere con te un discorso su simili argomenti.
Infine non potresti essermi amico se non volessi che io sia nel bene.
Per quanto ti riguarda poi, te la vedrai tu se non hai alcun volere della tua felicità.
E. - È innegabile, lo ammetto, che abbiamo la volontà.
Ma continua, vediamo un po' cosa ne concludi.
A. - Sì, ma dimmi prima se hai coscienza di avere anche la volontà buona.
E. - E che cos'è la volontà buona?
A. - È la volontà con cui si tende a vivere nella onestà morale e giungere alla perfetta sapienza.
Ora esaminati se non tendi ad una vita moralmente onesta e se non desideri ardentemente di essere sapiente oppure se osi affermare che nel desiderare questi beni non si ha la volontà buona.
E. - Non posso negare simili cose.
Dunque ammetto che ho non soltanto la volontà, ma anche la volontà buona.
A. - E, scusa, quanto apprezzi questa volontà?
Penseresti forse che le si possono mettere in confronto le ricchezze, gli onori o i piaceri sensibili o tutte queste cose insieme?
E. - Dio mi liberi da simile sciagurata pazzia.
A. - Ed è forse motivo di trascurabile godimento avere nello spirito un tale valore, intendo appunto la volontà buona, al cui paragone sono spregevoli i beni che abbiamo ricordati?
Eppure si vede che un gran numero d'individui, per conquistarli, non rifiuta sofferenze e pericoli.
E. - È motivo di godimento, anzi di grandissimo godimento.
A. - E, secondo te, quelli che non sono in possesso di tale godimento, subiscono un danno leggero per la mancanza di tanto bene?
E. - Anzi gravissimo.
A. - Puoi dunque già intendere, come penso, che si fondano sulla nostra volontà il possesso o la carenza di un così grande e vero bene.
Che cosa infatti è così immediato alla volontà che la volontà stessa?
E chi ha buona la volontà ha un valore che si deve assolutamente anteporre a tutti i regni della terra e a tutti i piaceri sensibili.
E chi ne è privo è privo certamente di un bene che, essendo più nobile di tutti i beni non dipendenti dal nostro volere, soltanto la volontà immediatamente potrebbe dargli.
Costui si compiangerebbe come il più infelice di tutti gli uomini se perdesse una splendida fama, le grandi ricchezze ed altri beni terreni.
E, sebbene sia ricolmo di questi beni, tu non lo compiangerai come il più infelice perché è intensamente attaccato a beni che può perdere e che non ha nell'atto che li vuole, mentre è privo della volontà buona che non si può confrontare con essi e che, pur essendo un grandissimo bene, basta soltanto volerlo per averlo?
E. - Sì, è vero.
A. - Con piena giustizia dunque gli uomini insipienti sono soggetti a simile infelicità, anche nell'ipotesi, peraltro discutibile e di ordine metafisico, che non furono mai sapienti.
E. - Sono d'accordo.
A. - Rifletti ora se è tua opinione che la prudenza è conoscenza razionale di cose che si devono desiderare e fuggire.
E. - Sì.
A. - E la fortezza è disposizione spirituale, con cui si disprezzano i disagi e la perdita di cose indipendenti dal nostro volere?
E. - Penso.
A. - Inoltre la temperanza è disposizione che frena e reprime il desiderio di cose che si desiderano disordinatamente.
La pensi diversamente?
E. - Anzi la penso proprio come te.
A. - E come considereremo la giustizia se non come virtù per cui si distribuisce a ciascuno il suo?
E. - Non ho altra idea della giustizia.
A. - Ma poni che un individuo, il quale ha la volontà buona, della cui dignità da tempo stiamo parlando, con essa soltanto s'immedesimi per amore perché è il bene più alto che possiede, che di essa soltanto si diletti, che da essa tragga soddisfazione e godimento in quanto la tiene in pregio e ne apprezza il valore e che infine non gli possa essere sottratta né con la forza né con la lusinga contro il suo volere.
Si potrà dubitare che egli si opponga a tutte le cose che sono nemiche di questo unico bene?
E. - È logico che si opponga.
A. - E si può pensare che non sia dotato di prudenza egli che sa di dover desiderare questo bene ed evitare le cose che ad esso sono contrarie?
E. - Secondo me, è del tutto impossibile senza la prudenza.
A. - Bene, ma perché non gli accorderemo anche la fortezza?
Infatti è impossibile che ami o stimi molto tutte le cose che non sono in nostro potere.
Esse si amano con volontà cattiva, ma egli deve necessariamente resisterle perché è nemica del suo grande bene.
Se non le ama, non si duole nel perderle e le disprezza addirittura.
Ed è stato già logicamente dimostrato che questa è funzione della fortezza.
E. - Certo che dobbiamo accordargliela.
Non so chi potrei considerare più veramente forte di colui che, con coscienza sempre eguale e serena, rimane privo di beni che non dipende da noi né conseguire né mantenere.
Ed egli lo fa, come è stato detto.
A. - Considera se possiamo rifiutargli la temperanza giacché è la virtù che frena le passioni.
Che cosa di tanto contrario dalla volontà buona che la passione?
Ne concludi certamente che questo amatore della sua volontà buona si oppone con tenace resistenza alle passioni e che perciò giustamente si considera temperante.
E. - Va avanti, sono d'accordo.
A. - Rimane la giustizia, ma non vedo come possa mancare a questo individuo.
Chi ha ed ama la volontà buona e resiste alle cose che, come è stato detto, le sono contrarie, non può voler male ad alcuno.
Ne seguirà che non fa ingiustizia, ma gli è impossibile non farla se non dà a ciascuno il suo.
E ti ricordi, credo, di avere approvato quando ho detto che questa è competenza della giustizia.
E. - Me ne ricordo e ammetto che in questo individuo, il quale stima e ama la propria volontà buona, si trovano tutte e quattro le virtù, da te poco fa definite con la mia approvazione.
A. - Che cosa dunque ci impedisce di considerare moralmente degna la vita di questo uomo?
E. - Nulla, certamente, tutto ci invita a farlo, anzi costringe.
A. - E si può per qualche motivo ritenere che l'infelicità non si deve evitare?
E. - E principalmente, penso, anzi ritengo che altro non si deve fare.
A. - E certamente non ritieni che si deve evitare la dignità morale.
E. - Ritengo anzi che si deve conseguire con ogni impegno.
A. - Dunque la dignità morale non è infelicità.
E. - Sì, ne consegue.
A. - Dunque non ti rimane difficile, suppongo, affermare con certezza che la non infelicità è felicità.
E. - Evidentissimo.
A. - Stiamo stabilendo quindi che è felice l'individuo il quale ama la propria volontà buona e che in confronto disprezza ogni altro bene, la cui perdita possa avvenire, anche se persiste la volontà di possederlo.
E. - Perché non stabilire una conclusione se ad essa logicamente ci inducono le premesse accettate?
A. - Bene. Ma rispondi, ti prego: amare la propria volontà buona e considerarla tanto degna, come è stato detto, è buona volontà anche questa?
E. - Vero.
A. - E se con ragione si giudica felice costui, con altrettanta ragione non si giudica forse infelice chi è di opposta volontà?
E. - Con molta ragione.
A. - Che motivo si ha dunque di dover dubitare che, anche se in precedenza non siamo mai stati sapienti, per libera scelta si vive meritatamente una vita degna e felice, per libera scelta una vita indegna e infelice?
E. - Ammetto che la conclusione è derivata da principi certi e innegabili.
A. - Esamina anche un altro tema.
Credo che ricordi come abbiamo definito la volontà buona; mi pare che è stata definita quella con cui si tende a vivere secondo onestà morale.
E. - Sì, ricordo.
A. - Se dunque si amasse con dedizione la volontà buona con volontà ugualmente buona e si anteponesse a tutte le cose che avere non dipende dal volerle, ne consegue anche che le quattro virtù, come la dimostrazione ha accertato, orneranno lo spirito; e averle significa appunto vivere secondo onestà morale.
Ne consegue che chi vuol vivere secondo onestà morale, se lo vuol volere in luogo dei beni caduchi, consegue un tanto bene con tanta immediatezza che il volere si identifica col conseguire l'oggetto voluto.
E. - Ti devo proprio dire che a stento mi trattengo dal gridare di gioia perché all'improvviso mi appare un bene tanto grande e raggiungibile con tanta immediatezza.
A. - Ora il godimento, che sorge dal conseguimento di tanto bene, nell'atto che in una continua serenità e pace nobilita lo spirito, si dice appunto felicità, a meno di una tua opinione che felicità non coincida col godimento di beni veri e stabili.
E. - No, la penso così.
A. - Bene. Ma penseresti che ogni individuo non scelga deliberatamente e con pieno impegno la felicità?
E. - Che dubbio che ogni individuo la vuole?
A. - Perché allora non tutti la conseguono?
Avevamo detto, ed era emerso dal nostro dialogo, che gli uomini per volontà meritano la felicità, per volontà l'infelicità, e così la meritano da conseguirla.
Ora sorge non saprei quale controsenso e se non indaghiamo attentamente, esso rischia di invalidare la precedente dimostrazione tanto diligentemente convalidata.
Come è possibile che per volontà s'incorra nell'infelicità se nessuno assolutamente vuol vivere nell'infelicità?
O come si consegue per volontà la felicità se molti sono infelici e tutti vogliono esser felici?
Si arriva forse al punto che altro è il volere buono o malvagio e altro meritare qualche cosa con volontà buona o malvagia.
Ma in verità coloro che sono felici, e perciò anche necessariamente buoni, non sono felici perché hanno voluto vivere nella felicità - lo vogliono anche i malvagi - ma perché, a differenza dei malvagi, l'hanno voluto secondo ragione.
Non c'è da stupirsi dunque se gli uomini infelici non conseguono il fine voluto, cioè la felicità.
Non vogliono infatti allo stesso modo l'oggetto che le è congiunto e senza di cui non si può esserne degni e conseguirla, cioè vivere ordinatamente.
La legge eterna, alla quale è tempo di ricondurre l'attenzione, con invariabile durata ha stabilito che il merito consista nella volontà, il premio e la pena nella felicità e infelicità.
Pertanto quando si dice che per volontà gli uomini sono infelici, non si dice nel senso che vogliono essere infelici, ma perché si costituiscono in una volontà, alla quale, anche contro il loro desiderio, necessariamente segue l'infelicità.
Dunque non si oppone alla precedente dimostrazione il tema che tutti vogliono esser felici e non lo possono; il fatto sta che non tutti vogliono vivere secondo ragione.
Soltanto a tale volere è dovuta la felicità.
Non hai nulla da obiettare, suppongo.
E. - No, nulla.
Ma esaminiamo ormai come questi concetti attengano al problema già proposto delle due leggi.
A. - Sì; ma prima rispondimi sulla condizione di chi sceglie di vivere secondo ragione e se ne diletta al punto che per lui non è soltanto secondo ragione, ma anche sorgente di soddisfazione.
Ama costui la legge eterna e la tiene in onore perché sa che in virtù di lei è data la felicità alla buona volontà, l'infelicità alla malvagia?
E. - L'ama con amore totale perché proprio col seguirla vive così.
A. - E amandola ama un oggetto mutevole e temporale ovvero stabile ed eterno?
E. - Certamente eterno e immutevole.
A. - Ed è possibile che coloro, i quali, perseverando nella volontà malvagia desiderano nondimeno di esser felici, amino una legge che proprio a tali individui commina giustamente la pena?
E. - No assolutamente, penso.
A. - E non amano altro?
E. - Anzi moltissime cose e quelle proprio che la volontà malvagia persiste nel raggiungere oppure conservare.
A. - Penso che alludi alle ricchezze, onori, piaceri, alla bellezza fisica e a tutti gli altri beni che è possibile non raggiungere pur desiderandoli o perdere pur non desiderandolo.
E. - Proprio questi sono.
A. - E ritieni che siano eterni, quantunque li veda in balia del fluire del tempo?
E. - Ma chi, anche se veramente pazzo, lo penserebbe?
A. - Dunque è chiaro che vi sono alcuni uomini amanti delle cose eterne ed altri delle temporali.
Abbiamo stabilito inoltre che si danno due leggi, una eterna, l'altra temporale.
Dunque se hai sentimento d'equità, fra le due categorie quali uomini giudichi subordinati alla legge eterna e quali alla temporale?
E. - Penso che la risposta sia a portata.
Ritengo che gli uomini felici mediante l'amore ai beni eterni si pongono sotto la legge eterna, agli infelici invece viene imposta la temporale.
A. - Giudichi rettamente purché tu ritenga assiomatico il principio, già reso evidente dalla dimostrazione, che coloro i quali sono schiavi della legge temporale non possono esser liberi dalla legge eterna, da cui deriva, come abbiamo detto, tutto ciò che è giusto e che con giustizia è nel divenire.
Comprendi poi con certezza, in quanto evidente, che coloro i quali mediante la volontà buona si conformano alla legge eterna, non hanno bisogno della legge temporale.
E. - Ammetto ciò che dici.
A. - Dunque la legge eterna ordina di distogliere l'amore dai beni temporali e volgerlo purificato ai beni eterni.
E. - Sì, certamente.
A. - E, secondo te, che cosa ordina la legge temporale se non che gli uomini posseggano, quando li richiedono per la soddisfazione del bisogno, quei beni che nel tempo si possono considerar propri con una norma tale che siano garantiti il rapporto e la società umana quanto è possibile in questo ordine di cose?
Tali beni sono appunto, prima di tutto il corpo e quei fattori che sono considerati i suoi beni, come la salute, l'integrità dei sensi, le forze, la bellezza e altri se ve ne sono, alcuni indispensabili alle arti superiori e quindi più pregevoli e altri più ordinari.
Viene in secondo luogo la libertà.
Preciso che è vera libertà soltanto quella degli uomini felici e osservanti della legge eterna.
Adesso però sto parlando della libertà per cui sono considerati liberi gli individui i quali non sono proprietà di altri individui e che è desiderata da coloro che vogliono essere emancipati dagli individui di cui sono proprietà.
In terzo luogo sono i genitori, i fratelli, il coniuge, i figli, i parenti, gli affini e familiari e tutti quelli che sono a noi congiunti con qualche vincolo.
In quarto luogo la società civile che di solito è considerata una patria, e in essa gli onori, il prestigio e quella che si dice la celebrità.
Infine viene la ricchezza.
Con questo termine si comprendono tutte le cose, di cui siamo giuridicamente proprietari e nei cui confronti manifestiamo di avere il potere di vendere e donare.
È arduo e lungo, e in definitiva non necessario al nostro intento, spiegare come la legge temporale, nell'ordine di questi beni, distribuisca a ciascuno il suo.
Basta precisare che il potere coattivo della legge temporale si riduce a privare il reo dei beni suddetti o di parte di essi.
Dunque reprime col timore e per raggiungere il proprio fine esercita una norma costrittiva sulla coscienza degli infelici, al cui ordinamento è stata predisposta.
Ed essi, nell'atto che temono di perdere questi beni, nell'usarli osservano una determinata norma adatta al vincolo civile, quale può essere costituito da individui in quelle condizioni.
Ma la legge non reprime la colpa quando si amano le cose temporali, ma quando si sottraggono illegalmente agli altri.
Rifletti dunque se siamo giunti alla soluzione che sembrava senza limiti.
Eravamo partiti appunto col chiederci in quali limiti la legge, con cui si amministrano i cittadini e gli stati, ha il diritto di punire.
E. - Sì, vi siamo giunti, lo veggo.
A. - Dunque vedi pure che non vi sarebbe pena, tanto quella che si irroga agli uomini per ingiustizia come quella che si irroga per giustizia coattiva, se essi non amassero le cose che si possono sottrarre a chi non è consenziente.
E. - Veggo anche questo.
A. - Dunque un tizio usa male ed un altro bene le medesime cose.
Quegli che le usa male, con amore si aggroviglia tenacemente ad esse e diviene appunto subordinato a cose che dovevano essere a lui subordinate e le riconosce come beni per lui mentre egli stesso doveva essere il bene per esse disponendole al fine e usandole bene.
Chi al contrario ne usa secondo ragione riconosce, sì, che essi sono beni, ma non per lui perché non lo rendono né buono né più buono.
Esse piuttosto lo divengono da lui.
Quindi non si attacca ad esse con amore e non le considera come membra della propria coscienza, e questo avviene amandole, affinché non lo rendano deforme con una dolorosa piaga, quando dovranno essere amputate.
Si deve al contrario elevare integralmente al di sopra di esse, pronto, se è necessario, a disporne ordinatamente, più pronto a perderle e non disporne.
Ma stando così le cose, penseresti di accusare l'argento e l'oro per colpa degli spilorci, il cibo per colpa dei ghiottoni, il vino per colpa degli ubriaconi, la bellezza femminile per colpa dei libertini e degli adulteri, e così di seguito, anche perché puoi osservare che il medico usa bene il fuoco e l'avvelenatore usa il pane per il delitto?
E. - Verissimo che non le cose ma gli uomini i quali le usano male sono colpevoli.
A. - Giusto. Oramai, come suppongo, cominciamo a comprendere la funzione della legge eterna ed è accertato fino a qual punto possa giungere la legge temporale nella sanzione.
Sono state inoltre distinte con sufficiente chiarezza due categorie di cose, quelle eterne e quelle temporali, come pure due categorie di individui, gli uni che scelgono ed amano le cose eterne, gli altri le temporali.
È stato anche accertato che è dato dalla volontà l'oggetto che si sceglie per il conseguimento e il possesso e che soltanto dalla volontà la ragione viene destituita dalla rocca del dominio e dalla razionale finalità.
Infine è chiaro che non si deve incolpare la cosa, qualora se ne usi male, ma chi ne usa male.
Riportiamoci dunque, se vuoi, al problema posto al principio di questo discorso ed esaminiamo se ha avuto la sua soluzione.
Ci eravamo proposti di indagare che cos'è agire male e in vista di questo assunto abbiamo esposto tutti i temi suddetti.
Ora conseguentemente è possibile riflettere ed esaminare se agir male è essenzialmente trascurare le cose eterne che la ragione da sé possiede, da sé intuisce e che non può perdere se le ama per procurarsi come grandi e ammirevoli le cose temporali e i piaceri che si provano mediante il corpo, la parte più vile dell'uomo e che non possono essere stabili.
In questa categoria mi pare che siano incluse tutte le azioni malvagie, cioè i peccati.
Attendo di conoscere il tuo parere.
E. - È come tu dici ed io confermo che tutti i peccati sono inclusi in questo unico concetto: distogliersi dal mondo immutevole dei valori e volgersi alle cose mutevoli del divenire.
Queste tuttavia sono disposte razionalmente in un proprio ordine e sono espressioni di una certa bellezza.
È dunque di una coscienza pervertita e derogante dalla finalità rendersi schiava di esse nel possederle poiché dall'ordinamento e legge divina è stata resa superiore ad esse per dominarle col proprio potere.
E mi pare di vedere già definitivamente risolto anche il problema del principio per cui si agisce male.
L'avevamo preso in esame in seguito all'altro problema del significato dell'agire male.
Salvo errore, si agisce male, come ha confermato lo svolgimento della dimostrazione, per libero arbitrio della volontà.
Ma ora mi pongo il problema se era opportuno che dal nostro creatore ci fosse dato il libero arbitrio giacché è chiaro che da esso proviene il potere di peccare.
Sembra proprio che non si sarebbe peccato qualora se ne fosse stati privi.
S'incorre anche nella difficoltà che Dio possa esser considerato autore delle nostre cattive azioni.
A. - Non spaventarti affatto per questa difficoltà.
Si richiede però un momento più opportuno per trattarne diligentemente.
Questo discorso chiede ormai misura e limite e vorrei tu credessi che con esso è stato picchiato, per così dire, alle porte di un problema di ordine superiore.
Ma quando, con la guida di Dio, cominceremo a penetrare nell'interno, potrai apprezzare certamente la grande differenza fra la presente disputa e le seguenti e la maggiore importanza di queste, non soltanto per l'elevatezza della indagine ma anche per la dignità dell'argomento e la splendida luce della verità.
Ci soccorra la fede affinché la divina provvidenza ci consenta di continuare e portare a termine il cammino che abbiamo intrapreso.
E. - Mi rimetto alla tua volontà e nell'apprezzamento e nell'augurio le associo molto volentieri la mia.
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