Il maestro interiore |
Ma se per i colori interpelliamo la luce e per le altre qualità che percepiamo con il corpo interpelliamo gli elementi di questo mondo, i corpi stessi che percepiamo e i sensi dei quali la mente si serve come interpreti per conoscere questa sorta di oggetti, per le cose intelligibili invece interpelliamo la verità interiore, mediante la ragione.
Che cosa si può dire allora per mostrare che con le parole apprendiamo una cosa diversa dal suono che colpisce i nostri orecchi?
In effetti tutti gli oggetti che percepiamo li percepiamo o con i sensi o con la mente; gli uni li chiamiamo sensibili, gli altri intelligibili o, per parlare alla maniera dei nostri autori, gli uni carnali, gli altri spirituali.
Interrogati sui primi, se sono presenti, rispondiamo dicendo ciò che percepiamo, come quando, per esempio, ci si chiede quale o dove sia la luna nuova mentre la stiamo guardando.
In questo caso chi interroga, se non vede lui stesso, crede alle parole, ma non sempre.
Ad ogni modo non apprende se non vede egli stesso ciò che gli si dice, e perciò non apprende dal suono delle parole ma dalle cose stesse e dai suoi sensi, poiché le parole, mentre vede, hanno il medesimo suono di quando non vedeva.
Ma quando ci interrogano non più sulle cose che percepiamo direttamente, ma su quelle che abbiamo percepito in precedenza, allora il nostro discorso non riguarda più le cose stesse, ma le immagini che queste hanno impresso nella nostra memoria e che hanno ad essa affidato.
In questo caso non so proprio come possiamo dire cose vere, dal momento che ce ne rappresentiamo false, a meno che parliamo non già di ciò che vediamo e percepiamo, ma di ciò che abbiamo visto e percepito.
Così, portiamo nel profondo della nostra memoria queste immagini come documenti di cose percepite precedentemente e, quando ne facciamo oggetto di pensiero, abbiamo consapevolezza di non errare nel parlarne.
Ma è per noi che queste immagini sono documenti; perciò chi ci ascolta, se le ha percepite lui stesso direttamente, non le apprende mediante le mie parole, ma le riconosce grazie alle immagini che egli stesso ha portato con sé.
Se invece non le ha percepite, allora chi non comprende che crede alle parole piuttosto che istruirsi con le cose?
Quando poi si tratta di ciò che percepiamo con la mente, cioè con l'intelletto e la ragione, sicuramente esprimiamo ciò che intuiamo nella luce interiore della verità che inonda di chiarezza e di godimento quello che chiamiamo l'uomo interiore.
Ma anche in tal caso chi ci ascolta, se vede anch'egli queste cose con il puro occhio interiore, conosce ciò che io dico con il proprio pensiero e non mediante le mie parole.
Neanche a lui perciò insegno, pur dicendo la verità, perché la contempla da solo; infatti è ammaestrato non dalle mie parole, ma dalle cose stesse che gli si manifestano perché Dio gliele svela nell'interiorità, e quindi potrebbe senz'altro rispondere se fosse interrogato su di esse.
Non c'è quindi nulla di più assurdo che pensare che è ammaestrato dal mio linguaggio chi potrebbe spiegare le cose stesse prima ancora che gliene parli, se fosse interrogato su di esse.
Accade spesso, è vero, che, interrogati, si comincia col negare ciò che successivamente, pressati con altre richieste, si è costretti ad ammettere.
Ma ciò dipende dalla debolezza di chi guarda perché è incapace di riflettere la luce di verità sull'oggetto nella sua totalità.
Allora è indotto a farlo in maniera parziale quando è interrogato sulle parti stesse di cui consta l'insieme che non riusciva a vedere nella sua totalità.
E anche se vi è condotto dalle parole del suo interlocutore, tuttavia non sono tali parole che insegnano poiché esse ricercano soltanto se egli è idoneo ad apprendere interiormente allo stesso modo dell'interlocutore.
Così, ad esempio, ti potrei domandare, in merito a ciò che stiamo trattando, se con le parole non si possa insegnare nulla.
La domanda dapprima ti sembrerebbe assurda perché non sei capace di abbracciare l'intera questione.
Sarebbe quindi opportuno che, tenendo conto delle forze di cui disponi per ascoltare il maestro interiore, ti chiedessi: "Da chi hai appreso le cose che, stando alle mie parole, riconosci esser vere, di cui sei certo e che affermi di conoscere?"
Tu forse risponderesti che te le ho insegnate io.
Allora io soggiungerei: "E che, se ti dicessi che ho visto un uomo volare, le mie parole ti renderebbero così certo come se sentissi dire che i saggi sono migliori degli stolti?".
Tu certamente lo negheresti e risponderesti che non credi alla prima affermazione o, anche se vi credessi, tuttavia non ne hai conoscenza, mentre conosci con assoluta certezza la seconda.
Allora ti renderesti conto che, tanto relativamente alla prima, che non conosceresti nonostante la mia affermazione, quanto relativamente alla seconda, che invece conosceresti perfettamente, non hai appreso nulla dalle mie parole perché, se fossi interrogato su ciascuna delle due separatamente, confermeresti che la prima ti è ignota e la seconda nota.
E quindi dovresti ammettere completamente la tesi che avevi precedentemente negata, poiché avresti acquisito una conoscenza chiara e certa delle parti che la compongono e cioè che, a proposito di tutto ciò che diciamo, l'uditore o ignora se è vero o non ignora che è falso oppure sa che è vero.
Nel primo di questi tre casi egli crede, congettura o dubita; nel secondo nega decisamente e nel terzo afferma: in nessun caso però apprende.
È indubbio infatti che dalle mie parole non ha appreso nulla tanto chi non sa nulla della cosa dopo le nostre parole, quanto chi sa di aver ascoltato falsità e chi, interrogato, sarebbe in grado di rispondere dicendo le medesime cose che sono state dette.
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