Il maestro interiore |
Perciò, anche relativamente alle realtà che si percepiscono con la mente, chi non è capace di percepirle ascolta inutilmente le parole di chi le percepisce, se non per il fatto che è utile credervi fintanto che si ignorano.
Ma chiunque è in grado di percepirle è interiormente discepolo della Verità, all'esterno è giudice di chi parla o, meglio, delle sue parole, perché per lo più conosce le cose di cui si parla, anche se le ignora chi ne parla.
Ad esempio, un tale, che è seguace dell'epicureismo e che ritiene l'anima mortale, enuncia gli argomenti proposti sull'immortalità dagli uomini più saggi in presenza di un uditore capace di comprendere le verità spirituali.
Questi giudica che l'altro dice il vero, mentre colui che parla non solo ignora se dice il vero, ma anzi lo considera completamente falso.
Si deve dunque ritenere che insegna ciò che ignora?
Eppure si serve delle medesime parole di cui si potrebbe servire se sapesse.
Alle parole dunque ormai non resta neppure la funzione di rivelarci il pensiero di colui che parla, perché non è certo se conosce le cose di cui parla.
Aggiungi poi i mentitori e gli ingannatori: dal loro esempio puoi facilmente comprendere che le parole non solo non svelano il pensiero, ma anzi lo occultano.
Non discuto affatto che le parole delle persone veritiere tendono e, in qualche modo, si impegnano a manifestare il pensiero di chi parla e che, per universale consenso, vi riuscirebbero se non si consentisse ai mentitori di parlare.
Pur tuttavia abbiamo spesso sperimentato in noi e negli altri che le parole proferite non corrispondono alle cose che si pensano.
Questo, secondo me, può accadere in due modi: in primo luogo, quando un discorso imparato a memoria e più volte ripetuto viene pronunciato pensando ad altro ( questo ci capita spesso quando cantiamo un inno ); in secondo luogo, quando ci escono alcune parole al posto di altre, contro la nostra volontà, per un errore della stessa lingua: neppure in questo caso l'udito percepisce i segni delle cose che abbiamo nella mente.
Anche i mentitori certamente pensano alle cose che dicono al punto che, sebbene non sappiamo se dicono il vero, tuttavia sappiamo che hanno nella mente ciò che dicono, salvo che anche per loro non si verifichi uno dei due casi detti sopra.
Se poi qualcuno sostiene che questi fenomeni avvengono solo qualche volta e ce se ne accorge quando accadono - benché restino spesso occulti e mi abbiano spesso ingannato quando ascoltavo - non faccio obiezione.
Ma a questi casi se ne aggiunge un altro, sicuramente assai frequente e sorgente di innumerevoli dissensi e controversie; è il caso di chi, parlando, significa ciò che pensa, ma per lo più soltanto per sé e per qualche altro, mentre per l'interlocutore e per alcuni altri non significa la medesima cosa.
Così, supponiamo che un tale dica alla nostra presenza che l'uomo è inferiore per valore ad alcune bestie; noi, non riuscendo a sopportare la cosa, respingeremmo con grande energia un'affermazione così falsa e dannosa.
Ma egli forse per valore intende le forze del corpo e con questo termine esprime ciò che pensa, per cui, né mente, né erra relativamente alle cose, né connette le parole imparate a memoria pensando ad altro né, per un errore di lingua, proferisce cose diverse da quelle che vuole: soltanto chiama ciò che pensa con un nome diverso dal nostro.
A questo proposito saremmo subito d'accordo con lui se potessimo scorgere il suo pensiero; egli però non è riuscito ancora a manifestarcelo, nonostante abbia proferito le parole ed abbia spiegato la sua opinione.
Dicono che ad errori di questo tipo si può rimediare con le definizioni.
Fanno rilevare infatti che, se nella presente questione si definisse il valore, apparirebbe chiaro che la controversia non riguarda la cosa, ma la parola.
Però, anche concedendo che sia così, quanti uomini capaci di definizioni è possibile trovare?
Per di più contro l'arte del definire sono state avanzate molte obiezioni che in questa sede non è opportuno richiamare e che io, da parte mia, non approvo del tutto.
Lascio da parte il fatto che molte parole non le udiamo bene, eppure ne discutiamo a lungo e molto, come se le avessimo udite.
Ad esempio, poco fa, a proposito di una parola punica, mentre io dicevo che significa misericordia, tu dicevi di aver udito dagli esperti di questa lingua che significa pietà.
Ma io, opponendomi, asserivo che ti era del tutto sfuggito ciò che avevi udito; mi pareva infatti che non avessi detto pietà ma fede.
Eppure eri seduto molto vicino a me e in nessun modo questi due nomi potevano ingannare l'udito per somiglianza di suono.
Per molto tempo tuttavia ho ritenuto che non sapessi cosa ti era stato detto; invece ero io che non sapevo ciò che tu avevi detto.
Infatti, se ti avessi inteso bene, non mi sarebbe sembrato affatto assurdo che pietà e misericordia in punico siano designate da un solo vocabolo.
Queste cose accadono spesso, ma, come ho detto, mettiamole da parte perché non sembri che io accusi le parole della trascuratezza di chi ascolta o anche della sordità degli uomini.
Sono più inquietanti i casi enumerati precedentemente, cioè quelli nei quali le parole sono state proferite in latino e percepite in maniera chiara e pur tuttavia non riusciamo a conoscere il pensiero di coloro che parlano, pur essendo della medesima lingua.
Comunque voglio concederti senza riserve che, quando le parole sono state afferrate dall'udito di uno che le conosce, possa essergli noto che il suo interlocutore ha pensato alle cose che tali parole significano.
Ma con questo forse viene a sapere anche ciò che è ora in questione, cioè che gli ha detto la verità?
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