La musica |
M. - Lo farò, anzi lo farai tu.
Io mi limiterò a porti delle frequenti domande.
Tu con le risposte esporrai tutto ciò che riguarda l'argomento e ciò che ti sembra di dover cercare perché attualmente lo ignori.
Eprima di tutto ti chiedo se si possa correre lungamente e velocemente.
D. - È possibile.
M. - E lentamente e velocemente?
D. - Assolutamente impossibile.
M. - Altro è dunque " lungamente " e altro " lentamente ".
D. - Certo.
M. - Chiedo ugualmente qual è, secondo te, l'opposto di una lunga durata, come la velocità è l'opposto della lentezza.
D. - Non mi viene in mente un termine in uso.
Ma noto che posso opporre a " lungamente durevole " soltanto " non lungamente durevole ".
In definitiva al termine " lungamente " è opposto l'altro " non lungamente ",allo stesso modo che se non volessi usare " velocemente " e preferissi dire " non lentamente ", si avrebbe il medesimo significato.
M. - Giusto. Non si sottrae nulla alla verità, quando si parla così.
Infatti anche io non ricordo se esiste questo nome che anche tu dici di non rammentare, o perché lo ignoro o al momento non mi viene in mente.
Quindi stabiliamo di chiamare queste due coppie di contrari in questo modo: " lungamente " e " non lungamente ", " lentamente " e " velocemente ".
E prima di tutto, se vuoi, discutiamo sul " lungamente durevole " e " non lungamente durevole ".
D. - Va bene.
M. - È evidente per te che si dice durare lungamente ciò che dura un lungo tempo e non lungamente ciò che dura un breve tempo?
D. - Sì.
M. - E dunque il movimento che dura, ad esempio, due ore, dura il doppio di quello di un'ora?
D. - Che dubbio?
M. - Dunque il concetto di " lungamente " o " non lungamente " si può ridurre a rapporti determinati e a numeri.
Così un movimento è all'altro nel rapporto di due a uno, cioè uno ha due volte una durata in rapporto a un altro che l'ha una sola volta.
Egualmente un movimento sta ad un altro nel rapporto di tre a due, cioè uno dura tre porzioni di tempo in rapporto ad un altro che ne dura due.
Si può così percorrere la serie dei numeri, non in lunghezze illimitate e indeterminate, ma in maniera che due movimenti siano in rapporto mediante un numero, o il medesimo, come uno a uno, due a due, tre a tre, quattro a quattro, o non il medesimo, come uno a due, due a tre, tre a quattro, oppure uno a tre, due a sei e tutti gli altri numeri che siano fra di sé commensurabili.
D. - Più chiaramente, prego.
M. - Ritorna dunque all'esempio delle ore ed applica ai singoli casi il mio discorso su un'ora e due ore che, come pensavo, doveva bastarti.
Ammetti certamente che si può dare un movimento di un'ora e un altro di due.
D. - D'accordo.
M. - E non l'ammetti anche per un movimento di due ore e un altro di tre?
D. - Sì.
M. - E non è evidente anche per uno di tre e un altro di quattro, ovvero per uno di una e un altro di tre, per uno di due e un altro di sei?
D. - Sì.
M. - E allora perché l'esposto non sarebbe chiaro?
Affermavo proprio questo, quando dicevo che il rapporto fra due movimenti può essere indicato da un numero, come uno a due, due a tre, tre a quattro, uno a tre, due a sei ed altri che si vogliano considerare.
Conosciuti questi rapporti è anche possibile determinare gli altri, come di sette a dieci, di cinque a otto e all'infinito per ogni altro rapporto che si rinvenga fra due movimenti proporzionalmente commensurabili.
Di essi si può dire appunto che sono proporzionali, tanto se i due numeri sono eguali, come se uno è maggiore e uno minore.
D. - Ora capisco e ammetto che è possibile.
M. - E comprendi anche, suppongo, che la misura e il limite sono giustamente da considerarsi più perfetti della mancanza di misura e di limite.
D. - Indiscutibile.
M. - Dunque due movimenti che sono in rapporto, come già detto, secondo una misura numerica, sono da considerarsi più perfetti di quelli che non l'hanno.
D. - Anche questa conseguenza è evidente poiché la misura ben definita esistente nei numeri li rapporta l'uno all'altro.
Quelli che ne sono privi non sono uniti fra di sé da una determinata ragione di commensurabilità.
M. - Allora possiamo appunto denominare, se sei d'accordo, razionali quelli che sono commisurati e irrazionali quelli che sono privi di commisurazione.
D. - D'accordo.
M. - Ed ora rifletti se, secondo te, la proporzionalità esistente nei movimenti razionali fra di sé eguali è maggiore che in quelli ineguali.
D. - Chi potrebbe avere un'altra opinione?
M. - Inoltre fra gli ineguali ve ne sono alcuni, dei quali possiamo dire con quale parte proporzionale il maggiore equivale al minore o lo supera, come due a quattro e sei a otto, ed altri, di cui non è possibile dire lo stesso, come nei seguenti numeri: tre e dieci, quattro e undici.
Vedi certamente che nella prima coppia la metà del maggiore equivale al minore, nella seconda che ho fatto seguire, il maggiore supera il minore di un quarto.
Nelle due ultime coppie al contrario, appunto tre e dieci, quattro e undici, vediamo una certa proporzione perché le parti sono in un determinato rapporto di tanto a tanto, ma non come nelle prime due.
Non si può assolutamente dire infatti qual è la parte proporzionale del maggiore che equivale al minore né quella con cui lo supera.
Non si può affermare che il tre è parte proporzionale del dieci o il quattro dell'undici.
Quando ti dico di considerare una parte proporzionale, intendo parlare di una parte semplice e senza altra aggiunta, come una metà, una terza, una quarta, una quinta, una sesta parte e così via.
Non si deve cioè aggiungere una terza parte o una ventiquattresima parte d'una parte e altre suddivisioni del genere.
D. - Adesso capisco.
M. - Ho proposto due tipi di movimenti razionali ineguali chiarendoli con esempi di numeri.
Tu dunque quali ritieni più perfetti, quelli, di cui è possibile esprimere la parte proporzionale o quelli, di cui non è possibile?
D. - La logica, mi pare, ci impone di considerare più perfetti quelli, di cui, come è stato dimostrato, si può dire, nel confronto con gli altri, in cui ciò non avviene, che il maggiore equivale o supera con una sua parte proporzionale il minore.
M. - Bene. Vuoi anche che imponiamo ad essi un nome?
Così, quando in seguito sarà necessario richiamarli, discuteremo più speditamente.
D. - Ben volentieri.
M. - Denominiamo quindi connumerati quelli che abbiamo dichiarato più perfetti e dinumerati quelli meno perfetti.
Ne è motivo che i primi sono numerati non solo presi singolarmente, ma sono numericamente proporzionali anche in quella parte, con cui il maggiore equivale o supera il minore; gli altri invece costituiscono un rapporto numerico soltanto presi singolarmente, mentre non sono numericamente proporzionali nella parte con cui il maggiore si equivale o supera il minore.
Di essi è impossibile infatti esprimere quante volte il maggiore contiene il minore o quante volte il maggiore e il minore contengono quella parte, con cui il maggiore supera il minore.
D. - Accetto questi termini e, per quanto ne sono capace, farò di ricordarmene.
M. - Ora esaminiamo una possibile classificazione dei connumerati.
Penso che sia chiara. Il primo tipo di connumerati è quello, in cui il numero minore misura il maggiore, cioè il maggiore contiene un determinato numero di volte il minore, secondo l'esempio già addotto di due e quattro.
Osserviamo infatti che il due è contenuto nel quattro due volte.
Di seguito si ha il tre, se, in rapporto col due, invece del quattro poniamo il sei, quattro, se l'otto, cinque, se il dieci.
Il secondo tipo è quello, in cui la parte, con la quale il maggiore supera il minore, li misura entrambi, cioè il maggiore e il minore la contengono un determinato numero di volte.
L'abbiamo osservato nei numeri sei e otto.
Infatti la parte eccedente il minore è il due, che è contenuto quattro volte nell'otto e tre nel sei.
Dunque anche ai movimenti in oggetto e ai numeri, per cui ci si chiarisce quanto vogliamo apprendere sui movimenti, diamo un nome distintivo, poiché ormai, salvo errore, la loro caratteristica è evidente.
Pertanto, se a te è già chiara, quelli in cui il maggiore si ottiene moltiplicando il minore, siano chiamati moltiplicati, gli altri, col nome consueto, sesquati.
Si dice infatti sesque un rapporto esistente fra due numeri, per cui il maggiore ha tante parti in più del minore, quanta è la parte proporzionale, con cui lo supera.
Ad esempio, se è tre a due, il maggiore supera il minore di un terzo; se quattro a tre, di un quarto; se cinque a quattro, di un quinto, e così via.
Il medesimo rapporto si ha anche nel sei a quattro, nell'otto a sei, nel dieci a otto.
Si può apertamente avvertire tale rapporto anche nei numeri successivi e nei più alti.
Non saprei dire l'etimologia del nome, a meno che sesque non significhi se absque, cioè senza di sé, perché nel cinque a quattro senza la sua quinta parte il maggiore equivale il minore.
Ti chiedo che te ne sembra.
D. - A me sembra che la teoria sulle misure numeriche sia assolutamente vera.
Mi sembra che i termini da te introdotti siano adatti a significare i concetti da noi espressi.
In quanto all'etimologia del vocabolo, che hai esposto per ultimo, non mi pare irragionevole, sebbene non sia quella tenuta presente da chi per primo ha usato il termine.
M. - Approvo e accetto il tuo parere.
Ma tutti i movimenti razionali, cioè che sono in rapporto secondo una misura numerica, possono numericamente andare all'infinito, se una regola esatta non li limita e li riduce a una formula determinata.
Lo vedi bene? Comincio dagli eguali.
Se dico: uno a uno, due a due, tre a tre, quattro a quattro, e così via, non v'è una fine perché il numero stesso non ha fine.
Questa è appunto la legge del numero, che determinato è finito, non determinato è infinito.
E puoi notare che quanto avviene per gli eguali, avviene anche per gli ineguali, tanto moltiplicati che sesquati, connumerati o dinumerati.
Se infatti cominci con l'uno a due e persisti nella serie, dicendo uno a tre, uno a quattro, uno a cinque, e così via, non si avrà un limite.
Egualmente, se la differenza è due, come uno a due, due a quattro, quattro a otto, otto a sedici e di seguito, non si ottiene un limite.
Si va egualmente all'infinito, se tenti col tre, col quattro e qualsiasi altro numero.
Così si comportano anche i sesquati.
Infatti quando si dice: due a tre, tre a quattro, quattro a cinque, ti accorgi di poter continuare senza incontrare limite, anche se preferisci, rimanendo nello stesso tipo, dire due a tre, quattro a sei, sei a nove, otto a dodici, dieci a quindici, e così via.
Dunque anche in questo tipo, come negli altri, non s'incontra un limite.
Non c'è bisogno di parlare dei dinumerati.
Da quanto è stato detto, ciascuno può ben comprendere che anche nella loro serie non si ha un limite.
Non sei d'accordo?
D. - Niente di più vero. Ma attendo con impazienza di conoscere la regola che riduce tale illimitatezza a una determinata misura e stabilisce una formula che non si può oltrepassare.
M. - Ti accorgerai di conoscere anche questa formula, come gli altri concetti, quando risponderai esattamente alle mie domande.
Dunque giacché stiamo trattando dei movimenti numericamente misurabili, ti chiedo prima di tutto se dobbiamo rivolgerci ai numeri per giudicare che nei movimenti si devono avvertire e osservare le leggi indicateci come rigidamente esatte dai numeri stessi.
D. - Mi va, penso che sia il metodo migliore.
M. - Dunque, se vuoi, iniziamo l'indagine dal principio stesso dei numeri.
Esaminiamo, per quanto siamo capaci di conoscere con le forze della nostra mente, quale sia la ragione per cui, quantunque il numero vada all'infinito, come abbiamo detto, gli uomini, nel numerare, abbiano stabilito delle partizioni, da cui tornare all'uno, che è il principio dei numeri.
Nel numerare infatti progrediamo dall'uno al dieci e da lì torniamo all'uno.
Se si vuole prendere la serie delle decine e si numera dieci, venti, trenta, quaranta, si progredisce fino a cento, se quella delle centinaia, si hanno cento, duecento, trecento, quattrocento e in mille è il traguardo, da cui tornare indietro.
Che bisogno d'indagare ancora? Intendo parlare, lo vedi certamente, di quelle partizioni, la cui prima regola è imposta dal numero dieci.
Infatti come dieci contiene dieci volte l'uno, così cento contiene dieci volte il dieci e mille dieci volte cento.
Così di seguito, finché si vuol continuare, la serie delimitata dal numero dieci, si svolgerà in tali partizioni.
Ti rimane incomprensibile qualche cosa?
D. - Sono tutti concetti chiarissimi e assolutamente veri.
M. - Esaminiamo dunque, con quanta diligenza è possibile, la ragione per cui si ha l'estensione fino al dieci e indi il ritorno all'uno.
Ti chiedo dunque se ciò che si denomina principio può esserlo senza esserlo di qualche cosa.
D. - Assolutamente impossibile.
M. - Egualmente ciò che si dice fine può esserlo senza esserlo di qualche cosa?
D. - Anche questo è impossibile.
M. - E pensi che si possa giungere dal principio alla fine senza attraversare il medio?
D. - No.
M. - Dunque perché si abbia un tutto, esso deve risultare dal principio, dal medio e dalla fine.
D. - Sì.
M. - Dimmi dunque in quale numero, secondo te, sono contenuti principio, medio e fine.
D. - Intendi, come suppongo, che ti risponda tre, perché tre sono gli elementi, su cui mi domandi.
M. - Supposizione esatta. Vedi dunque che nel tre si ha una certa perfezione perché è completo.
Ha infatti il principio, il medio e la fine.
D. - Certamente.
M. - E non abbiamo appreso fin dalla fanciullezza che il numero è di per sé pari o dispari?
D. - Vero.
M. - Richiama alla mente dunque e dimmi come si definisce abitualmente il pari e come il dispari.
D. - Si dice pari quello che si può dividere in due parti eguali, dispari quello che non si può.
M. - Hai il concetto. Ora il tre è il primo dispari completo perché, come è stato detto, consta di principio, medio e fine.
Non è necessario dunque che vi sia anche un pari completo e perfetto, in cui si abbiano principio, medio e fine?
D. - Certamente.
M. - Ma esso, qualunque sia, non può avere il medio indivisibile come il dispari.
Se l'avesse, non potrebbe esser diviso in due parti eguali, perché, come abbiamo detto, questa è caratteristica del numero pari.
Medio indivisibile è l'uno, divisibile il due.
E medio nei numeri è quello, da cui le due parti sono fra di sé eguali.
È stato esposto qualche concetto oscuro, che meno comprendi?
D. - Anzi anche questi concetti sono per me evidenti.
Sto cercando appunto un numero pari completo e mi si presenta per primo il quattro.
Nel due non è possibile infatti rinvenire i tre elementi, per cui il numero è completo, e cioè il principio, il medio e la fine.
M. - Hai risposto proprio come volevo e come la logica esige.
Riprendi attentamente l'esame dell'uno.
Vedrai che esso non ha né medio né fine, perché è soltanto principio, o meglio è principio perché è privo del medio e della fine.
D. - Chiaro.
M. - Che dire del due? In esso non possiamo concepire il principio e il medio, perché il medio si ha soltanto dove c'è la fine, né il principio e la fine, perché è impossibile raggiungere la fine senza attraversare il medio.
D. - La logica mi costringe ad accettare; rimango quindi molto perplesso che rispondere su questo numero.
M. - Esamina se anche esso possa essere principio di numeri.
Intanto manca del medio e della fine e tu stesso hai detto che la logica ti costringe ad accettare tale conclusione.
Resta che anche esso sia principio.
Oppure rimani perplesso nello stabilire due principi?
D. - Sì, molto perplesso.
M. - Faresti bene, se i due principi fossero costituiti per opposizione.
Invece nel caso nostro questo secondo principio deriva dal primo.
Questo da nessuno, l'altro da esso.
Infatti uno e uno fanno due, ed entrambi sono principi, pur restando che tutti i numeri derivano dall'uno.
Ma poiché i numeri sono originati dalla moltiplicazione e dalla addizione, l'origine del prodotto e della somma giustamente si attribuisce al due.
Ne deriva che l'uno è il principio, da cui tutti i numeri procedono e il due è il principio, per mezzo del quale tutti i numeri sono derivati.
Hai qualche cosa in contrario da obiettare?
D. - No, nulla e sebbene sono io a rispondere alle tue domande, non riesco a riflettere sull'argomento senza stupore.
M. - L'argomento si studia più acutamente e profondamente in aritmologia.
Adesso torniamo, quanto prima possibile, all'assunto.
Ti chiedo dunque quanto fanno uno più due.
D. - Tre.
M. - Quindi i due principi dei numeri addizionati fanno il numero completo e perfetto.
D. - Sì.
M. - E nel numerare, dopo l'uno e il due quale numero poniamo?
D. - Il medesimo, tre.
M. - Dunque il medesimo numero, che si ottiene addizionando uno e due, è posto di seguito dopo entrambi, senza interposizione di altri.
D. - Sì, vedo.
M. - Ora è opportuno che tu veda anche questo.
In tutti i rimanenti numeri non può avvenire che nell'addizionare due numeri successivi venga di seguito, senza interposto, quello che è la somma di entrambi.
D. - Anche questo vedo. Due e tre, che costituiscono la coppia successiva, addizionati danno la somma di cinque, ma immediatamente successivo non è il cinque, ma il quattro.
Ancora, tre e quattro danno sette, ma fra quattro e sette ci sono il cinque e il sei.
E quanto più vado avanti, tanti di più se ne interpongono.
M. - V'è dunque grande raccordo fra i primi tre numeri.
Noi numeriamo: uno, due, tre, senza possibile interposizione, ed uno più due fanno tre.
D. - Grande davvero.
M. - E, secondo te, non è degno di considerazione che quanto più tale raccordo è reciprocamente serrato, tanto più tende a una certa unità e riduce i molti all'uno?
D. - Anzi di grandissima considerazione e, non so come, ammiro e amo l'unità che tu stai ponendo in rilievo.
M. - Molto bene. Ma qualsiasi accostamento e raggruppamento nell'ordine delle cose allora soprattutto produce l'uno, quando i medi si equivalgono agli estremi e gli estremi ai medi.
D. - Così appunto deve essere.
M. - Presta attenzione dunque, affinché possiamo osservare il risultato nel seguente raggruppamento.
Quando diciamo uno, due, tre, di tanto l'uno è superato dal due, di quanto il due dal tre, vero?
D. - Assolutamente vero.
M. - E dimmi quante volte in questo raggruppamento ho nominato l'uno.
D. - Una volta.
M. - Il tre?
D. - Una volta.
M. - E il due?
D. - Due volte.
M. - Dunque una volta, due volte, una volta quante volte fanno?
D. - Quattro.
M. - Logicamente quindi il quattro segue ai primi tre numeri, poiché l'essere aggiunto gli è stato dato dalla suddetta proporzione.
E abituati a riconoscere il pregio della proporzione dal fatto che essa soltanto può produrre nelle cose disposte razionalmente l'unità che hai dichiarato di amare.
Il termine greco è άναλογία.
I nostri l'hanno chiamata proporzione.
Usiamo questo termine, se ti piace, perché non sarei disposto a usare, salvo necessità, parole greche nel discorso latino.
D. - A me piace, ma continua l'assunto.
M. - D'accordo. In seguito approfondiremo, nel settore più indicato di questa disciplina, il concetto di proporzione e il suo grande dominio nella realtà.
E tu quanto più avanzerai nella formazione culturale, tanto meglio conoscerai la sua funzione e natura.
Frattanto puoi vedere, e per il momento basta, che i primi tre numeri, di cui hai ammirato il raccordo, nel loro raggruppamento potevano risultare soltanto nel quattro.
Esso ha ottenuto pertanto di diritto, come puoi comprendere, di succedere ad essi in maniera da essere legato da un più stretto raccordo con gli stessi.
Così la serie dei numeri ha un intimo legame non solo in uno, due, tre, ma in uno, due, tre, quattro.
D. - Pienamente d'accordo.
M. - Ma osserva le altre proprietà, affinché tu non debba supporre che il quattro sia privo di una caratteristica, mancante a tutti gli altri numeri e che invece è valida per il raggruppamento, di cui sto parlando.
Si hanno appunto dall'uno al quattro una ben determinata numerazione e una razionale formula di successione numerica.
Infatti è emerso dal nostro dialogo che allora soprattutto dai molti si ha l'uno, quando i medi si equivalgono agli estremi e gli estremi ai medi.
D. - Sì.
M. - Dimmi dunque quali sono gli estremi e quale il medio, quando numeriamo uno, due e tre.
D. - Uno e tre sono gli estremi, due il medio.
M. - E adesso rispondi quanto fa uno più tre.
D. - Quattro.
M. - E due, che è l'unico medio, si può addizionare soltanto a se stesso.
Pertanto dimmi quanto dà due volte due.
D. - Quattro.
M. - Così dunque il medio è equivalente agli estremi e gli estremi al medio.
Pertanto come nel tre è caratteristica determinante che è posto dopo l'uno e il due, poiché risulta da uno più due, così nel quattro è caratteristica determinante che è posto dopo uno, due e tre, poiché risulta da uno più tre e da due volte due.
È questa l'equivalenza degli estremi col medio e del medio con gli estremi mediante la proporzione che in greco si dice άναλογία.
Dimmi se hai capito.
D. - Abbastanza.
M. - Prova dunque se negli altri numeri si rinvenga la suddetta caratteristica del numero quattro.
D. - Sì. Se ci proponiamo due, tre, quattro, gli estremi addizionati fanno sei, altrettanto fa il medio raddoppiato, tuttavia di seguito non si ha il sei, ma il cinque.
Mi propongo ugualmente tre, quattro, cinque; gli estremi addizionati fanno otto, altrettanto il medio raddoppiato, però fra il cinque e l'otto veggo interposti non soltanto uno ma due numeri, cioè il sei e il sette.
E quanto più progredisco nell'operazione, tanto più numerose si rendono le interposizioni.
M. - Vedo che hai capito e addirittura che hai scienza di quanto è stato detto.
Ma per non attardarci ancora, avverti che dall'uno al quattro avviene una successione assolutamente razionale.
Essa si ha prima di tutto grazie al numero dispari e pari, poiché il primo dispari completo è il tre e il primo pari completo è il quattro.
Ne abbiamo parlato poco fa.
Inoltre l'uno e il due sono principi e quasi semi dei numeri e da essi risulta il tre.
Sono così già tre numeri.
E se essi vengono assommati secondo proporzione, appare ed è generato il quattro che ad essi giustamente si unisce.
Si verifica così fino a questo numero quella ben definita successione che cerchiamo.
D. - Comprendo.
M. - Bene. Ma ti ricordi che cosa avevamo iniziato a cercare?
Dato che nella illimitatezza dei numeri vi sono determinati partizioni per numerare, l'assunto era, come penso, poter trovare la ragione, per cui la prima partizione è nel numero dieci che ha un'importante funzione nel contesto degli altri numeri, perché, cioè, chi numera avanza fino al dieci e poi torna all'uno.
D. - Mi ricordo bene che a causa di questo problema abbiamo fatto parecchie digressioni, ma non trovo che abbiamo combinato qualche cosa per risolverlo.
Tutta la lunga dimostrazione s'è fermata al punto che v'è razionale e ben definita successione non fino al dieci ma fino al quattro.
M. - Non vedi proprio dunque qual è il risultato della somma di uno, due, tre e quattro?
D. - Veggo finalmente, veggo, confesso che tutto ciò è ammirevole e che il problema proposto ha avuto soluzione.
Uno più due, tre e quattro fanno proprio dieci.
M. - Dunque è ragionevole che questi primi quattro numeri, la loro successione e raggruppamento siano considerati di maggior pregio degli altri.
È tempo di tornare all'esame e alla discussione dei rapporti di movimenti, che sono l'oggetto proprio di questa disciplina.
Proprio per essi noi, nei limiti che ci sono sembrati sufficienti allo scopo, abbiamo fatto delle considerazioni sui numeri, cioè su un'altra disciplina.
Per ragioni d'intelligenza avevamo stabilito in durata di ore i movimenti che, come la logica richiedeva, sono rapportati secondo misura numerica.
Poniamo dunque che un tale corra per la durata di un'ora e un altro di due.
Ti chiedo dunque se ti è possibile, senza guardare orologio, clessidra o altro strumento di misura del tempo, percepire che dei due movimenti uno è scempio e l'altro è doppio, o che per lo meno, sebbene non puoi dir questo, avverti l'esteticità del rapporto e ne hai il sentimento.
D. - Assolutamente impossibile.
M. - Supponi che qualcuno batta le mani ritmicamente, in modo che un suono tenga una durata di tempo e l'altro due, quelli che appunto chiamano giambi, e che li ripeta legandoli in un contesto.
Supponi anche che un altro balli a quel suono, muova cioè le membra rispettando quel tempo.
Riconosceresti allora o esprimeresti anche la misura del tempo, cioè che quei due alternano nei movimenti un movimento scempio con uno doppio, tanto nella battuta che si ode, come nella danza che si vede?
O per lo meno percepiresti l'esteticità del ritmo che ascolti, anche se non riesci a riconoscerne la misura ritmica?
D. - È proprio come tu dici.
Infatti quelli che conoscono tali ritmi li avvertono nella battuta e nel ballo e ne riconoscono la struttura.
Quelli che non li conoscono e non riescono ad esprimerli, non negano tuttavia di provare un diletto estetico.
M. - Poiché la musica è scienza del misurare ritmicamente secondo arte, non si può negare che appartengono alla sua stessa competenza di disciplina tutti i movimenti che sono misurati ritmicamente secondo arte e quelli soprattutto che non sono riferiti ad altro, ma hanno in sé come fine la bellezza estetica.
Tuttavia se questi movimenti, come tu stesso hai detto, rispondendo con molta precisione alla mia domanda, durano troppo tempo e nella stessa misura, che è estetica, occupano un'ora o anche di più, non si adattano alla capacità dei nostri sensi.
[ È possibile tuttavia che il medesimo piede nel canto sia, mantenendo la struttura del rapporto, in un caso, di suoni più lunghi e in un altro, di suoni più brevi ].
Pertanto la musica, uscendo in qualche modo dal suo inaccessibile recesso, ha lasciato certe impronte nei nostri sensi e negli oggetti sensibili.
Non è dunque opportuno che noi dapprima seguiamo tali impronte per poter essere, se ne saremo capaci, più agevolmente condotti senza errore a quello che ho chiamato il suo recesso?
D. - È proprio opportuno e facciamolo subito, te ne prego.
M. - Lasciamo dunque gli intervalli di tempo che si estendono al di là della capacità dei nostri sensi.
Discutiamo, nei limiti, in cui la ragione ci farà da guida, dei brevi spazi di tempo che ci dilettano nel canto e nella danza.
Ma tu forse ritieni che è possibile scoprire in altro modo le orme che, come è stato già detto, questa disciplina ha impresso nei nostri sensi e negli oggetti che siamo capaci di percepire.
D. - Non ritengo affatto che sia possibile in altro modo.
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