La musica |
M. - Segue la trattazione sulla conclusione del verso.
I letterati, o meglio la ragionevolezza, hanno voluto che essa fosse distintamente caratterizzata da una qualche differenza.
Non è meglio dunque, secondo te, che la fine, in cui lo svolgimento del ritmo si arresta, si distingua senza violare l'eguaglianza dei tempi, anziché confondersi con le altre parti che non chiudono?
D. - Non v'è dubbio che è da preferirsi ciò che si distingue di più.
M. - Considera dunque se con ragione taluni hanno voluto che lo spondeo fosse la chiusura distintiva del verso epico.
Infatti nelle altre cinque sedi è consentito porre esso o il dattilo, ma alla fine soltanto lo spondeo.
E il fatto che alcuni lo considerano un trocheo si verifica a causa dell'indifferenza dell'ultima sillaba, sulla quale si è sufficientemente parlato trattando dei metri.
Però a voler sentire costoro, il senario giambico non sarà un verso o lo sarà senza questa nota distintiva della fine.
Ma l'una e l'altra spiegazione è assurda.
Infatti nessuno dei più dotti ed anche di quelli che sono in possesso d'una media e perfino infinita cultura ha mai dubitato che questo sia un verso: Phaselus ille quem videtis hospites,3 o ogni altra composizione poetica col medesimo ritmo.
Eppure i letterati più autorevoli perché più dotti hanno ritenuto che un ritmo senza finale riconoscibile non si deve considerare verso.
D. - È vero. Suppongo dunque che si deve cercare un'altra nota distintiva della sua chiusura e che non si debba accettare quella posta nello spondeo.
M. - E puoi dubitare che, qualunque essa sia, non consista nella differenza o del piede o del tempo o di tutti e due?
D. - E come potrebbe altrimenti?
M. - Ma infine quale di queste tre ammetti?
Il finire il verso affinché non vada oltre il richiesto riguarda soltanto la misura del tempo.
Io penso dunque che la nota distintiva deve esser desunta dal tempo.
O tu la pensi diversamente?
D. - Anzi sono d'accordo.
M. - Ora il tempo può avere in questo caso la sola differenza che uno sia più lungo ed un altro più breve, perché quando si pone termine al verso, si ottiene che non sia più lungo.
Non comprendi dunque che la nota distintiva della fine consista in un tempo più breve?
D. - Sì che lo capisco.
Ma a che allude la tua precisazione " in questo caso "?
M. - A questo: non intendiamo dire che in tutti i casi la differenza di tempo consiste nella sola brevità o lunghezza.
Tu non puoi affermare che la differenza dell'estate e inverno non appartiene al tempo, ma d'altra parte non la puoi far consistere in una durata più o meno lunga, anziché nella violenza del freddo e caldo, dell'umidità e siccità o altro fenomeno del genere.
D. - Ora capisco e ammetto che questa nota distintiva della chiusura deve esser desunta dalla brevità del tempo.
M. - Ascolta dunque questo verso: Roma/, Roma/, cerne/ quanta/ sit de/um be/nigni/tas.
È detto trocaico.
Tu scandiscilo e dimmi che cosa rilevi sui cola e sul numero dei piedi.
D. - Sui piedi posso rispondere agevolmente.
È chiaro che sono sette piedi e mezzo.
L'argomento dei cola invece non è così elementare.
Mi accorgo che un comma può esser chiuso in più punti, suppongo però che la divisione si abbia all'ottavo semipiede.
Così il primo colon sarebbe: Roma, Roma, cerne quanta, e il secondo: sit deum benignitas.
M. - E quanti semipiedi ha?
D. - Sette.
M. - È proprio la ragione che ti ha guidato.
Niente è da preferirsi all'eguaglianza e la si deve ottenere nel dividere.
E se non la si può ottenere, se ne deve cercare l'approssimazione per non allontanarsene troppo.
Pertanto poiché questo verso ha quindici semipiedi, non può essere diviso in maniera più equa che in otto e sette; infatti la medesima approssimazione si avrebbe in sette o otto.
Ma così non si otterrebbe la nota distintiva della fine mediante la maggiore brevità di tempo, mentre la ragione stessa ci induce ad osservarla.
Infatti se il verso fosse così: Roma/, cerne/ quanta/ sit // tibi/ deum/ beni/gnitas, si avrebbe all'inizio il colon di sette semipiedi: Roma/, cerne/ quanta/ sit, e alla fine l'altro con questi otto: tibi/ deum/ beni/gnitas.
Ma non si avrebbe un semipiede a chiudere il verso, poiché otto semipiedi fanno quattro piedi compiuti.
E si avrebbe inoltre l'altra irregolarità, che non si scandirebbero nel secondo comma i piedi scanditi nel primo e che sarebbe chiuso con la nota distintiva del tempo più breve, cioè un semipiede, il primo comma anziché il secondo, cui spetta per diritto di chiusura.
Infatti nel primo si scandiscono, tre trochei e mezzo: Roma/, cerne/ quanta/ sit e nel secondo quattro giambi: Tibi/ deum/ beni/gnitas.
Nell'altro invece si scandiscono trochei in ambedue i commi e il verso si chiude con un semipiede, in modo che la chiusura mantenga la nota distintiva del tempo più breve.
Infatti nel primo ve ne sono quattro: Roma/, Roma/, cerne/ quanta e nel secondo tre e mezzo: sit delum be/nigni/tas.
Hai in mente qualche obiezione?
D. - No, nessuna, sono proprio d'accordo.
M. - Teniamo dunque, se vuoi, come inderogabili le seguenti leggi.
Una partizione che tenda all'eguaglianza dei due commi non manchi al verso, come manca a questo: Cornua velatarum obvertimus antennarum.
Per inverso l'eguaglianza dei commi non renda, per così dire, convertibili le parti, come fa in questo: Cornua velatarum vertimus antennarum.
Ancora quando si evita tale inversione, i commi non differiscano troppo fra di loro, ma per quanto è possibile tendano ad eguagliarsi in riferimento ai numeri più vicini in modo da non ritenere che il verso citato può essere diviso in un primo colon di otto semipiedi e cioè: Cornua velatarum vertimus e in un secondo di quattro: antennarum.
Infine il secondo colon non abbia semipiedi in numero pari, come è: Tibi deum benignitas, perché il verso, chiuso con un piede completo, non avrebbe la fine caratterizzata da un tempo più breve.
D. - Capisco queste leggi e per quanto ne sono capace le affido alla memoria.
M. - Poiché dunque sappiamo che il verso non deve esser chiuso con un piede completo, come pensi che si debba scandire il verso epico, in modo che siano rispettate la legge dei due cola e la nota distintiva della fine?
D. - Vedo dunque che sono dodici semipiedi.
Ora per evitare la inversione i cola non possono avere sei semipiedi, inoltre non devono tra di loro differire troppo, come tre a nove o nove a tre, infine non si deve dare all'ultimo colon semipiedi in numero pari, come otto e quattro e quattro e otto, perché il verso non finisca con un piede completo.
Quindi la divisione va fatta in cinque e sette o sette e cinque.
Sono infatti i numeri dispari più vicini e certamente i commi si avvicinano di più di quanto si avvicinerebbero con quattro e otto.
Per considerare la norma inderogabile, ritengo che un emistichio, sempre o quasi sempre, è compiuto al quinto semipiede, come nel primo verso di Virgilio: Arma virumque cano, nel secondo: Italiam fato, nel terzo: Littora multum ille et, nel quarto: Vi superum saevae, e così di seguito in quasi tutto il poema.
M. - È vero. Ma devi esaminare quali piedi scandisci per non violare alcuna parte delle leggi che abbiamo già stabilito come inderogabili.
D. - Sebbene l'argomento mi sia chiaro, tuttavia sono in imbarazzo per la novità.
Infatti siamo soliti scandire in questo verso soltanto lo spondeo e il dattilo e non vi è quasi nessuno, per quanto ignorante, che non l'abbia sentito dire, sebbene non lo sappia fare.
Ora se voglio seguire questa diffusissima consuetudine, si deve abrogare la legge della chiusura perché il primo colon si chiuderebbe con un semipiede e il secondo con un piede compiuto, mentre deve essere il contrario.
Ma è troppo irregolare abolire la legge della chiusura e d'altronde ho appreso che nei ritmi può accadere di cominciare da un piede incompiuto.
Resta dunque da considerare che in questo verso con lo spondeo non si pone il dattilo ma l'anapesto.
Così il verso comincerà da una sillaba lunga, e poi due piedi, spondei o anapesti, oppure alternati, rendono compiuto il primo colori; poi altri tre piedi anapesti o lo spondeo in qualsiasi posto o anche in tutti e in fine una sillaba, con cui il verso si termina regolarmente, completano il secondo colon.
Accetti questa scansione?
M. - Io la ritengo la più regolare, ma non è facile convincerne la massa.
E così grande è la forza della consuetudine che, se inveterata e proveniente da una falsa opinione, è la peggiore nemica della verità.
Comprendi infatti che per comporre un verso poco importa se si pone con lo spondeo l'anapesto oppure il dattilo.
Ma per scandirlo razionalmente, che non è compito dell'udito ma della mente, si deve ricorrere a vera e innegabile argomentazione e non a una opinione priva di fondamento.
E questa scansione non è stata ideata per la prima volta da me, ma è stata scoperta molto prima di questa antica consuetudine.
Pertanto coloro che leggessero gli autori, i quali nella lingua greca e latina furono eruditissimi in questa disciplina, non si meraviglieranno troppo se eventualmente s'imbatteranno in questa notizia.
C'è da vergognarsi tuttavia della nostra pochezza nel ricorrere all'autorità degli uomini per convalidare la ragione giacché niente dovrebbe esser più eccellente dell'autorità della pura ragione che è superiore a ogni individuo.
Infatti in materia non esaminiamo soltanto l'autorità degli antichi, come si deve fare nel considerare breve o lunga una sillaba.
In tal caso noi dobbiamo usare nella medesima forma con la quale le hanno usate loro le parole, con cui anche noi ci esprimiamo, poiché in materia è proprio della trascuratezza non seguire alcuna regola ed è proprio dell'arbitrio introdurne una nuova.
Così nello scandire un verso si deve prendere in considerazione l'antica istituzione umana e non la legge eterna delle cose.
Infatti prima spontaneamente con l'udito si percepisce la proporzionata durata del verso e poi essa si convalida con la razionale riflessione dei numeri.
Così pure si ritenga che il verso è da chiudersi con una fine caratteristica se si ritiene che deve esser chiuso in forma più determinata degli altri metri.
Ed è chiaro anche che la chiusura si deve distinguere dal tempo più breve, giacché limita e contiene in certo senso la durata del tempo.
Stando così le cose, come avviene che il secondo colon del verso termina con un piede incompiuto?
Bisogna appunto che il principio del primo colon sia o un piede intero, come nel trocaico: Roma, Roma, cerne quanta sit deum benignitas, oppure una parte di piede, come nell'epico: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris.
Pertanto eliminando ogni esitazione, scandisci, se vuoi, anche il verso seguente e indicamene i cola e i piedi: Phaselus ille quem videtis, hospites.
D. - Scorgo che i suoi cola sono composti di cinque e sette semipiedi.
Il primo è Phaselus ille, il secondo quem videtis, hospites, e scorgo che i suoi piedi sono giambi.
M. - Scusa, ma non badi a non chiudere il verso con un piede compiuto?
D. - Hai ragione, non so dove ero col pensiero.
Chi infatti non vedrebbe che si deve cominciare da un semipiede come nell'epico?
E quando s'usa tale criterio per questo genere, non si scandisce più a giambi ma a trochei in modo che lo chiuda regolarmente un semipiede.
M. - È come tu dici. Ma cosa pensi di dover rispondere su questo verso che chiamano asclepiadeo: Maece/ nas atavis// edite re/gibus?4
In esso un emistichio si chiude alla sesta sillaba e non eventualmente, poiché ciò accade in quasi tutti i versi di questa forma.
Dunque il primo colon è Maecenas atavis e il secondo edite regibus.
Ma possono insorgere dubbi sul motivo per cui ciò avviene.
Se infatti scandisci in esso piedi di quattro tempi ciascuno, si avranno cinque semipiedi nel primo colon e quattro nel secondo, ma la regola vieta che il secondo colon sia formato di semipiedi in numero pari affinché il verso non termini con un piede compiuto.
Resta che vi si considerino piedi di sei tempi ciascuno.
Ne consegue che ambedue i colon siano formati di tre semipiedi ciascuno.
Infatti affinché il primo colon si chiuda con un piede compiuto, si deve cominciare con due lunghe, quindi un coriambo compiuto entra a comporre il verso, in modo che il secondo colon cominci con un altro coriambo e un semipiede di due sillabe brevi chiude il verso.
Questi due tempi con lo spondeo collocato in principio rendono compiuto un piede di sei tempi.
Hai qualche cosa da dire in proposito?
D. - Proprio nulla.
M. - Ti va dunque che i due cola siano formati di semipiedi in egual numero.
D. - E perché no? Infatti in questo caso non si deve temere la inversione, poiché se si mette il secondo colon a posto del primo, in maniera che il primo divenga secondo, non si avrà l'eguale disposizione di piedi.
Perciò non v'è motivo di negare in questo caso ai cola un egual numero di semipiedi.
Tale eguaglianza infatti può rimanere senza pericolo di inversione e con adempienza anche della chiusura più segnalata giacché il verso finisce con piede incompiuto.
Ed è regola da osservarsi sempre.
Indice |
3 | Catullo, Carm. 4, 1 |
4 | Orazio, Odi 1, 1, 1 |