Le nozze e la concupiscenza |
I nuovi eretici, dilettissimo figlio Valerio, che sostengono che non sia necessaria ai bambini, nati secondo la carne, la medicina di Cristo, che li guarisce dai peccati, vanno gridando con animo sommamente malevolo che io condanno il matrimonio e l'opera divina, con la quale Dio crea gli uomini dall'unione dell'uomo e della donna.
Questo perché affermo che coloro che nascono da una tale unione contraggono il peccato originale, a proposito del quale l'Apostolo dice: Per un solo uomo entrò il peccato nel mondo e per il peccato la morte e così si trasmise a tutti gli uomini, nel quale tutti hanno peccato ( Rm 5,12 ) e perché affermo che essi, quali che siano i loro genitori, sono sempre sotto il potere del diavolo se non rinascono in Cristo e, strappati dal potere delle tenebre per la grazia di Cristo, non sono trasferiti nel regno di colui, ( Col 1,13 ) che non volle nascere dall'unione dei due sessi.
A causa di queste affermazioni, dunque, contenute nell'antichissima e saldissima regola della fede cattolica, questi assertori di una nuova e perversa dottrina, secondo i quali nei bambini non c'è alcun peccato che debba essere lavato con il lavacro della rigenerazione, mi vanno calunniando, non so se per slealtà o per ignoranza, come se condannassi il matrimonio e come se dicessi che l'opera di Dio, cioè l'uomo che da esso nasce, sia opera del diavolo.
Non avvertono che non si può accusare la bontà del matrimonio per il male originale che da esso si contrae, allo stesso modo che non si può scusare la malizia dell'adulterio e della fornicazione per il bene naturale che ne deriva.
In effetti, come il peccato è opera del diavolo, sia che i bambini lo contraggano da un'unione legittima che da una illegittima, così l'uomo è opera di Dio sia che nasca dall'una che dall'altra unione.
Ecco dunque lo scopo di questo libro: distinguere, per quanto Dio si degnerà di aiutarmi, dalla bontà del matrimonio il male della concupiscenza carnale, a causa della quale l'uomo, che per essa nasce, contrae il peccato originale.
Questa vergognosa concupiscenza, che dagli spudorati viene spudoratamente lodata, non esisterebbe neppure se l'uomo non avesse peccato; il matrimonio, invece, esisterebbe lo stesso, anche se nessuno avesse peccato, giacché la generazione dei figli nel corpo di quella vita avverrebbe senza questo morbo, senza del quale ora, nel corpo di questa morte, non può avvenire. ( Rm 7,24 )
Accennerò ora brevemente alle tre principali ragioni che mi hanno spinto a scrivere proprio a te su questo argomento.
La prima è che tu vivi, con l'aiuto di Cristo, nell'osservanza scrupolosa della castità coniugale; la seconda è che a queste scellerate novità, alle quali io mi oppongo in questo scritto con la discussione, tu ti sei opposto efficacemente facendo uso diligente e tenace della tua autorità; la terza è l'informazione ricevuta che è giunto nelle tue mani un certo loro scritto e, sebbene nella tua solidissima fede te ne sia preso gioco, è bene nondimeno che sappiamo anche sostenere le nostre convinzioni difendendole.
Anche l'apostolo Pietro, infatti, ci ordina di essere pronti a dare soddisfazione a chiunque ci domandi ragione della nostra fede e della nostra speranza. ( 1 Pt 3,15 )
L'apostolo Paolo aggiunge: Il vostro discorso sia sempre condito di sale per la grazia, di modo che sappiate come dovete rispondere a ciascuno. ( Col 4,6 )
Questi sono i principali motivi che mi hanno spinto a fare un discorso con te in questo volume, secondo l'aiuto che il Signore vorrà concedermi.
A me non è mai piaciuto costringere nessun personaggio illustre a leggere qualche mio opuscolo senza una sua esplicita richiesta, perché lo ritengo più segno di sfrontatezza che di zelo.
Tanto meno lo avrei fatto con te, che sei in una posizione tanto elevata e per di più non godi ancora di una tranquilla carica onorifica, ma sei tuttora oberato dall'attività pubblica e per giunta di ordine militare.
Se ora, dunque, mi sono deciso a tal passo, per le ragioni sopra ricordate, gentilmente perdonami e presta benevola attenzione alle pagine che seguono.
Che la castità coniugale sia anch'essa un dono di Dio è indicato da san Paolo, quando trattando di questo argomento dice: Desidero che tutti gli uomini siano come sono io; ma ciascuno ha da Dio il suo proprio dono, uno in un modo e l'altro in un altro. ( 1 Cor 7,7 )
Ecco dunque, anche essa è detta un dono di Dio; sebbene inferiore a quella continenza, nella quale avrebbe desiderato che si trovassero tutti al pari di lui, nondimeno la considera un dono di Dio.
Da qui si comprende come i precetti di praticare queste virtù non significhino altro se non che per riceverle e conservarle ci debba essere in noi anche la nostra volontà.
Quando invece sono presentate come dono di Dio, ci viene indicato a chi dobbiamo chiederle, se ne siamo sprovvisti, e chi dobbiamo ringraziare, se le possediamo; veniamo pure a sapere che le nostre volontà, se non sono aiutate dal cielo, valgono ben poco nel desiderare, nel ricevere e nel conservare queste virtù.
Che dire allora quando troviamo la castità coniugale anche in alcuni uomini infedeli?
Dobbiamo forse pensare che essi pecchino per il cattivo uso che fanno del dono di Dio, non indirizzandolo al culto di Dio, dal quale lo hanno ricevuto?
Oppure la castità degli infedeli non si deve nemmeno considerare dono di Dio, secondo il detto dell'Apostolo: Tutto ciò che non viene dalla fede è peccato? ( Rm 14,23 )
Ma chi osa dire che un dono di Dio è peccato?
L'anima e il corpo, infatti, come ogni altro bene inerente per natura all'anima e al corpo, anche quando si trovano nei peccatori, sono doni di Dio, proprio perché ne è Dio l'autore e non essi.
È delle loro azioni invece che l'Apostolo disse: Tutto ciò che non viene dalla fede è peccato.
Quando, dunque, uomini privi di fede compiono atti che sembrano propri della castità coniugale sia per il desiderio di piacere agli uomini - a se stessi o ad altri -, sia per evitare le umane molestie connesse alle cose che viziosamente bramano, sia per servire i demoni, non reprimono il peccato, ma vincono un peccato con un altro peccato.
Guardiamoci quindi dal chiamare casto in tutta verità colui che osserva la fedeltà coniugale senza l'intenzione di onorare il vero Dio.
Pertanto, l'unione dell'uomo e della donna fatta con l'intenzione di generare è il bene naturale del matrimonio.
Ma di questo bene fa un cattivo uso colui che se ne serve come le bestie, con l'intenzione cioè rivolta al piacere libidinoso, anziché alla volontà di procreare.
Quantunque, perfino alcuni animali privi di ragione, come la maggior parte degli uccelli, osservano una specie di patto coniugale: associano la loro solerzia nel fare il nido, si avvicendano in tempi diversi nella cova delle uova e si alternano nel procurare il cibo ai piccoli.
Questo comportamento sembra mostrare che, quando essi si accoppiano, più che al soddisfacimento della loro libidine adempiono il dovere di perpetuare la specie.
Di questi due modi di agire, uno si ritrova nell'animale a somiglianza dell'uomo, l'altro si ritrova nell'uomo a somiglianza dell'animale.
Quanto al fatto, poi, di considerare proprio della natura del matrimonio che l'uomo e la donna si uniscano in una società per procreare e non si defraudino a vicenda, alla maniera di qualsiasi società che non ammette naturalmente un socio fraudolento, quando gli infedeli sono in possesso di un bene così evidente, dal momento che lo usano senza fede, lo cambiano in male e in peccato.
In quel modo, dunque, anche quella concupiscenza carnale, per la quale la carne desidera contro lo spirito, ( Gal 5,17 ) è rivolta a un uso giusto dal matrimonio dei fedeli.
Essi, infatti, hanno intenzione di generare figli destinati alla rigenerazione, affinché quelli che da essi nascono come figli del secolo rinascano come figli di Dio.
Perciò, coloro che generano figli senza questa intenzione, senza questa volontà e senza questo proposito di farli passare dalle membra del primo uomo alle membra di Cristo, ma da genitori infedeli per gloriarsi di una prole infedele, anche se osservano la legge con tanto scrupolo da unirsi, secondo le Tavole matrimoniali, unicamente per generare figli, non c'è in loro la vera castità coniugale.
Se la castità, infatti, è una virtù alla quale si oppone il vizio dell'impudicizia e se tutte le virtù, anche quelle che vengono praticate per mezzo del corpo, risiedono nell'anima, come si può davvero affermare che il corpo è casto, quando proprio l'anima si prostituisce lontano dal vero Dio?
Questa prostituzione è denunciata dal salmo, che dice: Ecco infatti, coloro che si allontanano da te periranno; hai mandato in rovina chiunque si prostituisce lontano da te. ( Sal 73,27 )
Non si deve, quindi, ritenere vera castità coniugale, vedovile o verginale che sia, se non quella che è a servizio della vera fede.
Se si antepone con retto giudizio la verginità consacrata al matrimonio, quale cristiano assennato non anteporrà le donne cristiane cattoliche, anche rimaritate, non dico alle vestali, ma perfino alle vergini eretiche?
Tanto grande è il valore della fede, di cui l'Apostolo dice: Tutto ciò che non viene dalla fede è peccato ( Rm 14,23 ) e di cui ancora nella lettera agli Ebrei è scritto: Senza la fede non si può piacere a Dio. ( Eb 11,6 )
Stando così le cose, sono senz'altro nell'errore coloro che all'udire biasimare la libidine carnale pensano che sia condannato lo stesso matrimonio, come se questo male fosse conseguenza del matrimonio e non del peccato.
Forse che quei primi sposi, dei quali Dio benedisse il matrimonio dicendo: Crescete e moltiplicatevi, ( Gen 1,28 ) non erano nudi e non si vergognavano? ( Gen 2,25 )
Per quale motivo, dunque, dopo il peccato nacque una confusione da quelle membra, se non perché da esse ebbe origine un movimento sconveniente, che il matrimonio certamente non avrebbe provato se gli uomini non avessero peccato?
O per caso, come pensano alcuni che prestano scarsa attenzione a quello che leggono, gli uomini da principio furono creati ciechi come i cani e, cosa ancora più assurda, acquistarono la vista non crescendo, come avviene ai cani, ma peccando?
Lungi da noi una simile idea! Ma ciò che li spinge a una tale credenza è il seguente passo della Scrittura: Prendendo il suo frutto lo mangiò e lo diede a suo marito che era con lei e lo mangiarono; e si aprirono gli occhi ad entrambi e si accorsero di essere nudi. ( Gen 3,6-7 )
Da questo testo gente poco intelligente immagina che avessero inizialmente gli occhi chiusi, perché la divina Scrittura attesta che si aprirono in quella circostanza.
Ma Agar, la serva di Sara, aveva forse gli occhi chiusi quando alle grida del figlio che aveva sete aprì gli occhi e vide il pozzo? ( Gen 21,19 )
E quei due discepoli, dopo la risurrezione del Signore, camminavano forse con lui ad occhi chiusi per il fatto che di loro il Vangelo dice che alla frazione del pane si aprirono i loro occhi e lo riconobbero? ( Lc 24,31 )
Ciò che è scritto dei primi uomini: Si aprirono gli occhi ad entrambi, ( Gen 3,7 ) dobbiamo quindi intenderlo nel senso che divennero attenti a considerare e a riconoscere la novità prodotta nel loro corpo, il quale corpo ovviamente era esposto nudo ai loro occhi tutti i giorni ed era ben conosciuto.
In caso contrario, come avrebbe potuto Adamo ad occhi chiusi imporre il nome a tutti gli animali terrestri e a tutti i volatili che gli venivano presentati? ( Gen 2,19 )
Non avrebbe potuto compiere questa operazione senza distinguerli e non avrebbe potuto distinguerli senza vederli.
E poi, come gli poteva essere mostrata la stessa donna, quando disse: Questa finalmente è osso delle mie ossa e carne della mia carne? ( Gen 2,23 )
Infine, nel caso che uno fosse tanto ostinato da dire che avrebbe potuto fare ciò non servendosi della vista ma del tatto, cosa dirà di quello che si legge nello stesso testo, che cioè la donna vide quanto fosse bello a vedersi quell'albero, ( Gen 3,6 ) il cui frutto era sul punto di mangiare contro l'ordine ricevuto?
Erano, dunque, nudi e non si vergognavano, ( Gen 2,25 ) non già perché non ci vedessero, ma perché non avvertivano alcun motivo di vergogna nelle membra che vedevano.
La Scrittura non dice: erano ambedue nudi e non lo sapevano, bensì: e non si vergognavano.
Non c'era stato niente, in effetti, che non fosse lecito, niente ne era seguito, di cui si dovessero vergognare.
Quando l'uomo trasgredì la legge di Dio fu allora che incominciò ad avere per la prima volta nelle sue membra un'altra legge contraria al suo spirito ( Rm 7,23 ) e, quando provò la disubbidienza della sua carne, che gli era stata retribuita con pieno merito, sperimentò il male della sua disubbidienza.
D'altronde, una siffatta apertura degli occhi l'aveva promessa, per sedurre, anche il serpente, tale cioè da far conoscere qualcosa che sarebbe stato meglio ignorare.
Allora davvero l'uomo sentì in se stesso quello che aveva fatto; allora distinse il male dal bene, non già perché ne fosse esente, ma perché ne soffriva.
Non sarebbe stato giusto che colui che aveva disubbidito al proprio Signore fosse ubbidito dal proprio servo, cioè dal corpo.
Come spiegare, infatti, che allorquando abbiamo un corpo libero da impedimenti e in salute, è in nostro potere muovere gli occhi, le labbra, la lingua, le mani, i piedi, piegare il dorso, il corpo e i fianchi secondo le funzioni di ciascun membro, mentre quando si tratta della procreazione dei figli, le membra create a questo scopo non ubbidiscono al comando della volontà?
Si deve invece attendere che la libidine, come se fosse indipendente, le ecciti: cosa che talvolta non fa, benché l'animo lo desideri, mentre tal'altra fa nonostante l'opposizione dell'animo.
Non dovrebbe di questo arrossire la libertà dell'arbitrio umano, per aver perduto il dominio anche sulle proprie membra a causa del disprezzo del comando di Dio?
E dove si potrebbe manifestare con maggior convenienza che la natura umana è degenerata a motivo della disubbidienza, se non nella disubbidienza di quegli organi per mezzo dei quali la natura sussiste perpetuandosi?
È questo il motivo per cui queste parti del corpo vengono chiamate con proprietà natura.
Quando, dunque, quei primi uomini avvertirono nella propria carne questo movimento sconveniente, proprio perché ribelle, e si vergognarono della propria nudità, essi coprirono quei medesimi organi con foglie di fico, affinché ciò che si muoveva senza l'arbitrio della loro volontà fosse almeno celato dall'arbitrio del loro pudore e, poiché si vergognavano di un piacere sconveniente, avvenisse nell'ombra ciò che era conveniente.
Poiché, dunque, neppure con l'aggiunta di questo male poté venir meno la bontà del matrimonio, gente sconsiderata pensa che esso non sia un male, ma faccia parte essenziale di quel bene.
Se ne distingue invece, non solo con sottili ragionamenti, ma con il comunissimo giudizio naturale, come apparve in quei primi uomini e come oggi sono convinte le persone coniugate.
Ciò che fecero, infatti, in seguito per la procreazione, questo è il bene del matrimonio; ciò che, invece, coprirono prima per vergogna, questo è il male della concupiscenza, che evita dappertutto gli sguardi e cerca per pudore un luogo appartato.
Il matrimonio pertanto si può vantare di ricavare un bene anche da quel male, ma arrossisce che non si possa fare senza di esso.
Poniamo il caso che uno con un piede in cattivo stato raggiunga qualcosa di buono, zoppicando: non già perché la zoppia è un difetto, è male raggiungere quel bene né per il fatto di aver raggiunto quel bene, la zoppia cessa di essere un difetto.
Allo stesso modo non dobbiamo condannare il matrimonio perché la libidine è cattiva né lodare la libidine perché il matrimonio è buono.
È proprio questo il morbo del quale l'Apostolo, parlando anche ai fedeli coniugati, diceva: Questa infatti è la volontà di Dio: che vi santifichiate, che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio vaso in santità e onore, non nel morbo del desiderio, come i pagani che non conoscono Dio. ( 1 Ts 4,3-5 )
Non solo quindi il coniuge fedele non deve usare del vaso altrui, come fanno quelli che desiderano la donna d'altri, ma sappia che non si deve possedere neanche il proprio vaso nel morbo della concupiscenza carnale.
Ciò non vuol dire che l'Apostolo abbia proibito l'unione coniugale, che è lecita e onesta, ma significa che questa unione, alla quale non si sarebbe aggiunta alcuna traccia di morbosa libidine, se per un precedente peccato non fosse perito in essa l'arbitrio della libertà, al presente è accompagnata da questo male, che non deve essere fatto oggetto della volontà, ma subito come una necessità, senza la quale tuttavia nella procreazione dei figli non si può giungere al frutto desiderato dalla stessa volontà.
Questa volontà, poi, nel matrimonio cristiano non è determinata dal fine di dar vita a figli destinati a passare su questa terra, ma da quello di dar vita a figli che rinascano in Cristo per l'eternità.
Se lo scopo sarà raggiunto, otterranno dal matrimonio la ricompensa di una perfetta felicità; se non sarà raggiunto, gli sposi godranno la pace della buona volontà.
Chi possiede il proprio vaso, cioè la propria moglie, con questa intenzione del cuore, senza dubbio non la possiede nel morbo del desiderio, come i pagani che non conoscono Dio, bensì in santità e onore, come fedeli che sperano in Dio.
In effetti, di quel male della concupiscenza l'uomo si serve senza esserne sopraffatto, quando la frena e la reprime nel momento in cui arde con movimenti disordinati e indecenti e le allenta un poco le briglie per farne uso soltanto in vista della procreazione, per generare secondo la carne coloro che dovranno essere rigenerati secondo lo spirito, non per sottomettere lo spirito alla vergognosa schiavitù della carne.
Nessun cristiano può dubitare che i santi patriarchi, vissuti dopo e prima di Abramo, e ai quali Dio rende testimonianza che gli sono stati graditi, abbiano usato in questo modo delle loro spose.
Se ad alcuni di essi fu concesso di avere ciascuno più mogli, il motivo fu di accrescere il numero dei figli e non la preoccupazione di variare il piacere.
Indice |