Le nozze e la concupiscenza |
La concupiscenza della carne ha una certa attività anche quando non le si dà il consenso del cuore perché regni né le si offrono le membra perché se ne serva come strumenti per compiere ciò che comanda.
E qual è questa attività, se non i desideri cattivi e turpi?
Se fossero buoni e leciti, infatti, l'Apostolo non vieterebbe di ubbidire loro, dicendo: Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, sì da ubbidire ai suoi desideri. ( Rm 6,12 )
Non dice: sì da avere i suoi desideri, ma: sì da ubbidire ai suoi desideri, perché, dal momento che sono in alcuni più forti in altri meno, secondo il progresso fatto da ciascuno nel rinnovamento dell'uomo interiore, ( 2 Cor 4,16 ) continuiamo la lotta per la giustizia e per la castità, per non ubbidire loro.
Dobbiamo tuttavia aspirare alla soppressione di questi desideri, anche se questo è un obiettivo irraggiungibile in questo corpo mortale.
A questo proposito, il medesimo Apostolo anche in un altro passo, portando, per così dire, sulla scena la propria persona, ci istruisce con queste parole: Non quello che voglio, io faccio, ma quello che odio, questo io faccio, ( Rm 7,19 ) cioè ho desideri, perché neppure questi avrebbe voluto provare per essere perfetto sotto ogni punto di vista.
Se faccio quello che non voglio, dice, acconsento alla legge, riconosco che è buona, ( Rm 7,20 ) perché neppure essa vuole ciò che non voglio io.
La legge infatti che dice: Non desiderare ( Es 20,17; Rm 7,7 ) non vuole che io abbia desideri, ciò che non voglio neanch'io.
In questo quindi la volontà della legge e la mia vanno d'accordo.
Tuttavia, poiché non voleva avere desideri e nondimeno li provava, senza però rendersene schiavo con il consenso, prosegue dicendo: Non sono dunque io a farlo, ma il peccato che abita in me. ( Rm 7,20 )
Ma si sbaglia di grosso chi, acconsentendo alla concupiscenza della carne e decidendo liberamente di fare ciò che essa desidera, crede ancora di poter dire: Non sono io a farlo, ( Rm 7, 17.20 ) perché anche se odia acconsente.
È vera l'una e l'altra cosa: odia, perché sa che è male, ma lo compie, perché ha deciso di farlo.
Nel caso poi che aggiungesse anche quello che la Scrittura proibisce, dicendo: Non offrite le vostre membra al peccato come strumenti di iniquità ( Rm 6,13 ) sì da compiere anche con il corpo quanto aveva deciso nel cuore, e ciò nonostante dicesse: Non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me, ( Rm 7,17 ) per il fatto che quando lo decide e lo compie prova dispiacere, si sbaglia fino al punto da non riconoscere neanche se stesso, dal momento che, risultando egli nella sua totalità composto del cuore che decide e del corpo che esegue, crede ancora di non essere se stesso.
29. Chi dunque afferma: Non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me, dice la verità se prova soltanto il desiderio; dice invece il falso, se decide con il consenso del cuore o se giunge anche a compierlo servendosi del corpo.
L'Apostolo aggiunge poi: Io so infatti che il bene non abita in me, cioè nella mia carne, poiché volere il bene è alla mia portata, ma non il suo compimento. ( Rm 7,18 )
La ragione di tale affermazione sta nel fatto che il compimento del bene si raggiunge quando non si ha alcun desiderio cattivo, allo stesso modo che si raggiunge il compimento del male quando si ubbidisce ai desideri cattivi.
Nel caso invece che si hanno desideri cattivi, ma non si ubbidisce loro, non si realizza compiutamente il male, perché non si ubbidisce loro, ma non si realizza interamente il bene, proprio per la loro presenza.
In parte si realizza il bene, perché non si acconsente alla cattiva concupiscenza, in parte resta il male, perché viene almeno desiderato.
Per questo motivo l'Apostolo non dice che non sia alla sua portata il compiere il bene, ma raggiungere il compimento del bene.
In verità, già fa molto bene chi mette in pratica il precetto della Scrittura: Non andare dietro le tue concupiscenze, ( Sir 18,30 ) ma non raggiunge il suo compimento, perché non adempie l'altro precetto: Non desiderare. ( Es 20,17; Rm 7,7 )
Ordinandoci di non desiderare, la legge si proponeva di invitarci a cercare, scoprendoci sofferenti di questa malattia, il rimedio della grazia e di farci sapere con questo precetto verso quale meta dobbiamo dirigere i nostri sforzi durante questa vita mortale e a quale meta potremo arrivare nella beatissima immortalità futura.
Se infatti non dovessimo mai raggiungere questa perfezione, non avrebbe dovuto mai essere comandata.
Per dare maggiore forza alla precedente dichiarazione, l'Apostolo ripete: Infatti io non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio.
Ma se faccio quello che non voglio, non sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me.
E continua: Io trovo dunque questa legge che, quando voglio fare il bene, mi si presenta il male. ( Rm 7,19-21 )
Come se dicesse: trovo che la legge è un bene per me, che voglio fare quello che vuole la legge, giacché non proprio alla legge che dice: Non desiderare, ( Es 20,17; Rm 7,7 ) ma a me si presenta il male che non voglio, perché è contro mia voglia che ho desideri.
Mi compiaccio, dice, nella legge di Dio secondo l'uomo interiore.
Ma vedo nelle mie membra un'altra legge che si oppone alla legge della mia mente e che mi tiene prigioniero sotto la legge del peccato, che è nelle mie membra. ( Rm 7,22-23 )
Questo compiacimento nella legge di Dio secondo l'uomo interiore ci viene dalla grande grazia di Dio.
Con essa davvero il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno, ( 2 Cor 4,16 ) in quanto con essa progredisce con perseveranza.
Non è infatti timore che tormenta, ma amore che dà gioia.
Allora siamo veramente liberi, quando non godiamo contro voglia.
Quanto alla affermazione dell'Apostolo: Vedo nelle mie membra un'altra legge che si oppone alla legge della mia mente, ( Rm 7,23 ) essa si riferisce proprio alla concupiscenza, di cui andiamo parlando, cioè alla legge del peccato presente nella carne del peccato.
Quando poi aggiunge: E che mi tiene prigioniero sotto la legge del peccato, cioè sotto se stessa, che è nelle mie membra, con l'espressione che mi tiene prigioniero intese dire o che essa cerca di farmi prigioniero, ossia che mi spinge al consenso e all'azione, o piuttosto, e questo è fuori discussione, che mi tiene prigioniero secondo la carne.
Se infatti la concupiscenza carnale, che egli chiama legge del peccato, non dominasse sulla carne, non susciterebbe in essa alcun desiderio illecito, al quale la mente non debba ubbidire.
Dal momento però che non disse: che tiene prigioniera la mia carne, bensì: che mi tiene prigioniero, è avvenuto che vi si cercasse un altro senso e che intendessimo quell'espressione nel senso: che cerca di farmi prigioniero.
Ma perché non avrebbe potuto dire: che mi tiene prigioniero, se avesse voluto intendere la sua carne?
Quando non si trovò nel sepolcro il corpo di Gesù, non si disse forse di lui: Hanno portato via il mio Signore e non so dove l'hanno posto? ( Gv 20,2 )
Fu forse inesattezza dire: Il mio Signore, invece di dire: la carne o il corpo del mio Signore?
Sebbene, proprio l'Apostolo poco prima aveva mostrato assai chiaramente come avesse potuto correttamente indicare la sua carne con l'espressione: che mi tiene prigioniero.
Infatti dopo aver detto: So che il bene non abita in me, per spiegarsi aggiunse: cioè nella mia carne. ( Rm 7,18 )
È dunque tenuta prigioniera sotto la legge del peccato quella in cui non abita il bene, cioè la carne.
Qui è stata chiamata carne dove c'è una certa disposizione morbosa della carne, non la struttura stessa del corpo, le cui membra non devono essere offerte come strumenti al peccato, ( Rm 6,13 ) cioè alla stessa concupiscenza che tiene prigioniera questa parte carnale del nostro essere.
Per quanto concerne, infatti, la stessa sostanza e natura del corpo, negli uomini fedeli, sia sposati sia continenti, è già tempio di Dio.
Tuttavia, se non fosse tenuto prigioniero assolutamente niente della nostra carne non dico dal diavolo, giacché anche in essa è avvenuta la remissione del peccato in modo da non essere più imputata a peccato quella che propriamente si chiama legge del peccato; se in una certa misura la nostra carne non fosse tenuta prigioniera dalla stessa legge del peccato, cioè dalla sua concupiscenza, come potrebbe essere vero quello che dice lo stesso Apostolo: Aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo? ( Rm 8,23 )
In tanto siamo ancora in attesa della redenzione del nostro corpo, in quanto ancora e in una certa misura esso è prigioniero della legge del peccato.
Da qui anche la sua esclamazione: Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?
La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 )
Come vorremo intendere questo testo se non nel senso che il corpo che si corrompe appesantisce l'anima? ( Sap 9,15 )
Dunque questo corpo sarà ripreso ormai incorruttibile, si avrà la completa liberazione da questo corpo di morte, dal quale non saranno liberati coloro che risusciteranno per avviarsi al castigo.
È a questo corpo di morte, dunque, che si intende spettare la prerogativa che un'altra legge si opponga nelle membra alla legge della mente, fino a quando la carne desidera contro lo spirito, anche se non giunge a soggiogare la mente, perché anche lo spirito desidera contro la carne. ( Gal 5,17 )
E così, sebbene la stessa legge del peccato tenga prigioniero qualcosa della carne, per cui resiste alla legge della mente, essa tuttavia non regna nel nostro corpo, per quanto mortale, a meno che non si ubbidisce ai suoi desideri.
Accade di solito anche ai nemici contro cui si combatte: di essere sconfitti in battaglia e di restare padroni di qualcosa nonostante la sconfitta.
Questa parte della carne, benché tenuta soggetta alla legge del peccato, è tuttavia in attesa di essere redenta, perché della viziosa concupiscenza non rimarrà assolutamente nessuna traccia, mentre la nostra carne, guarita da quella pestifera malattia e rivestita interamente di immortalità, continuerà a vivere nell'eterna beatitudine.
L'Apostolo continua poi dicendo: Io dunque con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato. ( Rm 7,25 )
Il passo deve essere interpretato così: con la mente servo la legge di Dio, non acconsentendo alla legge del peccato; con la carne invece servo la legge del peccato, perché ho i desideri del peccato, dai quali non sono ancora del tutto libero, benché non vi consenta.
Osserviamo infine la conclusione del suo discorso: Non c'è dunque più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. ( Rm 8,1 )
Anche al presente, dice, quando una legge si oppone nelle membra alla legge della mente e tiene prigioniero qualcosa in questo corpo di morte, non c'è alcuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù.
Ascoltane il motivo: Poiché la legge dello spirito di vita, dice, mi ha liberato in Cristo Gesù dalla legge del peccato e della morte. ( Rm 8,2 )
In qual modo ha liberato, se non cancellando la sua colpa con la remissione di tutti i peccati, di modo che non viene imputata a peccato, sebbene rimanga ancora e diminuisca sempre di più di giorno in giorno?
Fino a quando, pertanto, non avviene nel bambino questa remissione dei peccati, cotesta legge del peccato rimane in lui in modo da essergli imputata anche a peccato, cioè in modo che con essa rimane anche la sua colpevolezza, sì da renderlo debitore di pena eterna.
È questo infatti che trasmette il genitore alla prole carnale, in quanto anch'egli è nato secondo la carne, non in quanto è rinato secondo lo spirito.
La realtà stessa, infatti, per cui è nato secondo la carne, sebbene non gli impedisca di portare frutto una volta che la colpevolezza è stata cancellata, vi rimane tuttavia nascosta come nel seme di olivo, anche se a causa della remissione dei peccati non nuoce affatto all'olio, ossia a quella vita per la quale secondo Cristo, che ha ricevuto il nome dall'olio, cioè dal crisma, il giusto vive di fede. ( Rm 1,17; Eb 10,38; Ab 2,4 )
Ciò che nel genitore rigenerato rimane nascosto, come nel seme di ulivo, senza alcuna colpa perché è stata rimessa, si ritrova certamente nel figlio non ancora rigenerato, come nell'oleastro, insieme alla colpevolezza, fino a quando non venga rimesso anche in lui con la medesima grazia.
Dal momento infatti in cui Adamo da olivo qual era, in cui cioè non c'era un seme dal quale potesse nascere l'amaro oleastro, si mutò peccando in oleastro, perché il suo peccato fu talmente grave da produrre una grossa degenerazione della natura, rese oleastro tutto il genere umano.
Cosicché, come ora vediamo anche negli alberi, se la grazia divina ne trasforma in olivo qualche individuo, il vizio della prima nascita, che era il peccato originale trasmesso e contratto dalla concupiscenza carnale, è in lui rimesso, ricoperto e non imputato; da esso tuttavia nascerà l'oleastro a meno che anch'egli non rinasca a olivo con la medesima grazia.
Beato dunque l'olivo le cui iniquità sono state rimesse e i cui peccati sono stati ricoperti; beato colui al quale il Signore non ha imputato il peccato. ( Sal 32,1-2 )
Ma quel peccato che è stato rimesso e ricoperto e che non è più imputato, finché non avverrà la completa trasformazione nell'eterna immortalità, conserva una certa forza misteriosa, da cui è prodotto l'amaro oleastro, a meno che anche in esso per il medesimo intervento di Dio non sia rimesso, ricoperto, e non più imputato.
Non ci sarà più nulla di vizioso, neppure nel seme carnale, quando, purificati e guariti sino in fondo tutti i mali dell'uomo con la medesima rigenerazione che ora avviene con il lavacro sacro, la stessa carne, per la quale l'anima è diventata carnale, diventerà anch'essa spirituale: ( 1 Cor 15,44 ) non avrà più nessuna concupiscenza carnale che si opponga alla legge della mente e non emetterà più seme carnale.
Questo è il significato che si deve dare alle parole dell'Apostolo: Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per essa, per santificarla con il lavacro dell'acqua mediante la parola e per farsi comparire davanti una Chiesa gloriosa senza macchie né rughe o cose del genere. ( Ef 5,25-27 )
Così, dicevo, si devono intendere queste parole: con lo stesso lavacro di rigenerazione e con la parola di santificazione sono purificati e mondati assolutamente tutti i peccati degli uomini rigenerati, non solo tutti i peccati che ora vengono rimessi nel battesimo, ma anche quelli che si commettono dopo per ignoranza o per fragilità umana, non nel senso che si debba ripetere il battesimo ogni qualvolta si commette un peccato, ma perché, per il fatto stesso che è stato amministrato una sola volta, accade che i fedeli ottengano il perdono di qualsivoglia peccato, non solo di quelli commessi prima, ma anche di quelli commessi dopo.
Quale giovamento infatti si avrebbe dalla penitenza prima del battesimo, se il battesimo non la seguisse, o dopo, se il battesimo non la precedesse?
Perfino nella preghiera del Signore, nella quale troviamo la nostra quotidiana purificazione, con quale frutto, con quale risultato si potrebbe dire: Perdona i nostri debiti, ( Mt 6,12 ) se non fossero dei battezzati a dirla?
Così pure per quanto riguarda la generosità nel fare elemosine e la beneficenza, per quanto grandi esse fossero; a chi otterrebbero la remissione dei peccati, se chi le fa non è battezzato?
Infine, la felicità stessa del regno dei cieli, dove la Chiesa non avrà né macchie né rughe né cose simili, ( Ef 5,27 ) dove non ci sarà niente da rimproverare, niente da nascondere, dove non ci sarà più non solo la colpa ma neppure la concupiscenza del peccato, da chi sarà goduta, se non da coloro che sono stati battezzati?
Per conseguenza, non soltanto tutti i peccati, ma assolutamente tutti i mali degli uomini vengono eliminati dalla santità del lavacro cristiano, con il quale Cristo purifica la sua Chiesa, per farsela comparire davanti, non in questo secolo, bensì in quello futuro, senza macchie né rughe né cose simili.
Ci sono di quelli che la ritengono tale già al presente e tuttavia ne fanno parte.
Ma poiché anch'essi riconoscono di essere peccatori, se dicono la verità, dal momento che non sono immuni dai peccati, senza dubbio almeno in essi la Chiesa ha una macchia; se invece dicono il falso, perché non parlano con cuore sincero, in essi la Chiesa presenta delle rughe.
Se poi insistono nel dire che questi difetti li possiedono loro e non la Chiesa, confessino allora di non essere sue membra e di non appartenere al suo corpo, affinché siano condannati dalla loro stessa confessione.
Mi sono adoperato con un lungo discorso a distinguere la concupiscenza carnale dai beni del matrimonio, costrettovi dai nuovi eretici, i quali quando sentono biasimarla lanciano accuse come se fosse biasimato lo stesso matrimonio.
Ovviamente, lodandola come un bene naturale, essi vogliono rafforzare la loro pestifera eresia, secondo la quale la prole che nasce per essa non contrae alcun peccato originale.
Ma di questa concupiscenza carnale già il beato Ambrogio, vescovo di Milano, per il ministero sacerdotale del quale io ho ricevuto il battesimo, parlò brevemente, quando accennò alla nascita carnale di Cristo, nell'esposizione del profeta Isaia: "Perciò, scrive, in quanto uomo egli fu tentato in tutte le maniere e a somiglianza degli uomini sostenne tutte le prove, ma in quanto nato dallo Spirito si astenne dal peccato; ogni uomo infatti è menzognero ( Sal 116, 2 ) e nessuno, tranne il solo Dio, è senza peccato.
Rimane dunque valida la regola per cui nessuno che sia nato dall'uomo e dalla donna, cioè mediante quell'unione corporale, risulta immune dal peccato.
Se uno poi risulta immune dal peccato, è immune anche da un simile concepimento".1
Forse che anche il santo Ambrogio ha condannato la santità del matrimonio o non piuttosto con la verità di questa sua affermazione ha condannato la falsità di questi eretici, anche se in quel tempo non erano ancora apparsi all'orizzonte?
Ho creduto opportuno ricordare questa testimonianza di Ambrogio, perché Pelagio ne fa il seguente elogio: "Il beato Ambrogio, nei cui libri risplende particolarmente la fede romana, lui che tra gli scrittori latini si è distinto come un bel fiore, la cui fede e il purissimo senso delle Scritture neppure un avversario ha osato criticare".2
Si penta dunque di aver avuto idee contrarie a quelle di Ambrogio, se non vuole pentirsi di averne fatto un simile elogio.
Eccoti, dunque, un libro che per la molestia della lunghezza e per la difficoltà del tema trattato, quanto fu laborioso a me il dettarlo tanto sarà per te leggerlo nelle briciole di tempo, in cui ti ha potuto o ti potrà trovare libero da impegni.
L'ho elaborato, per quanto il Signore si è degnato di aiutarmi, in mezzo alle mie preoccupazioni pastorali e non avrei certo osato presentarlo a te impegnato nei pubblici affari, se non avessi saputo da un uomo di Dio, che ti conosce bene, che ti dai alla lettura tanto volentieri, da passare nella veglia perfino alcune ore della notte.
Indice |
1 | Ambros., Expos. in Is. Cf. Aug., Contra duas. epist. Pel., IV, 11, 29; Contra Iul., 1, 4, 11 |
2 | Pel., Pro lib. arbitrio, III; cf. Aug., De gratia C. et de peccato orig., 42, 46 |