L'ordine |
È assai difficile per gli uomini e piuttosto raro, o Zenobio, cogliere a fondo la legge propria di ciascun essere e a più forte ragione chiarirsi e manifestare l'ordinamento dell'universo con cui il mondo è condizionato ai nessi causali e diretto al fine.
Vi si aggiunge anche che se qualcuno potesse riuscirvi, non troverebbe tuttavia un uditore che, per dignità morale e per disposizione al pensiero filosofico, sia capace di verità tanto alte e misteriose.
Tuttavia non v'è problema che gli ingegni migliori trattano con maggiore impegno e che quanti guardano gli scogli e le tempeste della vita con la testa eretta, quanto è consentito, desiderano sentirsi esporre e comprendere quanto quello della possibile composizione fra la cura che Dio si prende degli uomini e il fatto assai comune della deviazione delle azioni umane dal fine.
Sembrerebbe appunto che l'ordine sia da attribuirsi non tanto al governo di Dio quanto a quello di uno schiavo se gli si desse tale potere.
Pertanto coloro che s'interessano del problema potrebbero ritenere come logica conseguenza o che la divina provvidenza non può giungere alle ultime ed infime manifestazioni dell'essere o che tutti i mali dipendono dal volere di Dio.
Blasfema l'una e l'altra ipotesi, ma soprattutto la seconda.
Infatti è indice d'ignoranza e causa di danno spirituale il pensiero che un qualche essere sia da Dio abbandonato.
Tuttavia nessuno fra gli uomini ha imputato a qualcuno come colpa l'impossibilità.
Il rimprovero di trascuranza è infatti molto più mite che quello di malvagità e crudeltà.
Quindi l'umano pensiero, non privo di religiosità, è costretto ad ammettere o che le cose del mondo non possono essere da Dio dirette al fine o che sono da lui trascurate e disdegnate piuttosto che governate in maniera che diventi comprensibile e incolpevole ogni possibile lamentela contro Dio.
Ma chi è tanto cieco di mente da dubitare d'attribuire alla potenza e provvidenza divina la legge razionale che si verifica nel succedersi dei fenomeni indipendentemente dall'intenzione e dall'esecuzione umana?
A meno delle seguenti ipotesi: o le membra di animali anche piccolissimi sono strutturate dal caso in dimensioni tanto proporzionate ed esatte; ovvero si ammette che deriva da un principio razionale ciò che non può esser prodotto dal caso; o infine noi oseremmo, per pregiudizi di vana filosofia, non attribuire all'occulta legge del divino potere l'ordine che ammiriamo in ogni essere nella successione di tutti i fenomeni naturali e indipendentemente dalla razionale produttività dell'uomo.
Ma l'aporia sta appunto nel fatto che le membra della pulce sono disposte con mirabile distribuzione e frattanto la vita umana è travagliata e sconvolta dal succedersi d'innumerevoli crisi.
Ma a questo proposito supponiamo che un tale abbia la vista tanto limitata che in un pavimento a mosaico il suo sguardo possa percepire soltanto le dimensioni di un quadratino per volta.
Egli rimprovererebbe all'artista l'imperizia nell'opera d'ordinamento e composizione nella convinzione che le diverse pietruzze sono state maldisposte.
Invece è proprio lui che non può cogliere e rappresentarsi in una visione d'insieme i pezzettini armonizzati in una riproduzione d'unitaria bellezza.
La medesima condizione si verifica per le persone incolte.
Incapaci di comprendere e riflettere sull'universale e armonico ordinamento delle cose, se qualche aspetto, che per la loro immaginazione è grande, li urta, pensano che nell'universo esiste una grande irrazionalità.
Il motivo principale dell'errore è che l'uomo non si conosce.
E perché possa conoscersi ha bisogno del costante esercizio di distogliersi dalla sensibilità, di raccogliersi spiritualmente e meditare.
Attuano tale esercizio soltanto coloro che o cauterizzano con la solitudine o medicano con le discipline liberali le piaghe dei vari pregiudizi causate dall'esistenza banale.
Così lo spirito restituito a se stesso comprende l'essenza dell'armonia dell'universo che è stato denominato dall'uno.
E pertanto non è consentito contemplarla all'anima che si pone nella variabilità e s'illude di colmare con il flusso dei desideri la privazione poiché ignora che essa non si può superare se non con il distacco dalla molteplicità.
Per molteplicità non intendo una moltitudine di uomini ma tutto il mondo sensibile.
E non devi meravigliarti che tanto maggiormente essa sente la privazione quanto più desidera di raggiungere il molteplice.
In un cerchio, per quanto ampio, unico è il punto mediano, chiamato dai matematici centro.
Ad esso tutte le rette convergono e sebbene la circonferenza si possa dividere in infiniti punti, tuttavia nessuno è fuori dell'unico centro.
Da esso infatti deriva l'esatta misura di tutte le parti e si pone in rilievo fra tutte per la garanzia della giusta scompartizione.
Se al contrario metti in rilievo l'uno o l'altro punto della circonferenza, li perdi tutti per averli voluti tutti rilevare.
Analogamente lo spirito postosi fuori di sé si frantuma in infinite parti e si degrada ad una genuina mendicità perché la sua natura lo stimola a cercare l'unità, ma la molteplicità glielo impedisce.
Tu comprenderai certamente, o Zenobio, la dottrina sull'argomento di cui sto parlando, i motivi della prevaricazione spirituale e il modo per cui tutte le cose si armonizzano nell'unità e raggiungono il fine, e ciò nonostante, la ragione per cui il peccato si deve evitare.
Infatti mi sono noti il tuo ingegno e il tuo spirito innamorato della bellezza ideale, sgombro da smoderata libidine e da macchie.
E tale segno in te della futura saggezza ti segrega, per la tua appartenenza a valori trascendenti, dalle dannose passioni in modo da non farti abbandonare il tuo destino per le attrattive dei falsi piaceri.
Niente si può concepire di più turpe e pericoloso di simile prevaricazione.
Comprenderai questi problemi, devi credermi, quando ti applicherai alla formazione mentale con cui si sarchia e si coltiva lo spirito, prima completamente indisposto a ricevere il seme divino.
Sulla natura di questo problema, sul procedimento che richiede, sui risultati che la ragione garantisce agli individui che vi si dedicano e vivono bene, sul tenore di vita che noi tuoi amici meniamo e quale profitto ricaviamo dalle occupazioni liberali ti informeranno sufficientemente questi libri, come penso.
Ed essi ci saranno più graditi per la dedica al tuo nome che per la nostra elaborazione, specialmente se, scegliendo la parte migliore, ti vorrai inserire e armonizzare a quell'ordine sul quale ti sto scrivendo.
Il dolore di petto mi ha fatto abbandonare l'insegnamento, sebbene già, anche senza tale evenienza, stessi tentando di rifugiarmi nella filosofia.
Mi condussi subito nella villa del nostro buon amico Verecondo. Dovrei dire col suo consenso?
Conosci bene la sua schietta generosità verso di tutti, ma particolarmente verso di noi.
Ivi discutevamo assieme gli argomenti che ritenevamo giovevoli.
Eravamo ricorsi all'impiego dello stilo per raccogliere tutti gli interventi perché il sistema conferiva alla mia salute.
Infatti io avevo un freno durante la discussione nella preoccupazione di dir bene e così veniva evitata un'animata contesa di parole.
Nello stesso tempo se ci fosse sembrato opportuno di trascrivere qualche parte dei nostri discorsi, si eliminava la necessità di dire un'altra volta e si evitava lo sforzo di ricordare.
Trattavano con me gli argomenti Alipio e Navigio mio fratello e Licenzio che all'improvviso, tanto da destar meraviglia, s'era dato a far versi.
Il servizio militare ci aveva restituito anche Trigezio che come veterano amava la storia.
E qualche cosa avevamo già nei rotoli.
Una notte mi svegliai al solito e in silenzio riflettevo su pensieri che non saprei da dove mi venissero in mente.
Il fatto s'era tramutato in consuetudine per il mio amore di raggiungere il vero.
Se tali problemi mi assillavano, vi riflettevo sopra o durante la prima parte della notte o durante la seconda, comunque per circa una metà della notte.
E non tolleravo di esserne distolto dalle discussioni degli studenti.
Anche essi per tutto il giorno si applicavano tanto da sembrarmi eccessivo se avessero impiegato nella fatica degli studi anche una parte della notte.
Avevano inoltre ricevuto da me l'ordine che, oltre la lettura, imparassero a riflettere e abituassero lo spirito a riconcentrarsi in se stesso.
Dunque, come ho detto, ero sveglio. Ed ecco che il mormorio dell'acqua che scorreva accanto alle terme colpì il mio udito e fu avvertito da me più attentamente del solito.
Mi pareva assai strano il fatto che la medesima acqua scorrendo sulle pietre del greto desse un suono ora più distinto ora più soffocato.
Presi a ricercarne la causa. Confesso che non mi venne in mente nulla.
Ed ecco che Licenzio dal suo letto tentò di porre in fuga alcuni topi importuni battendo un mobile di legno che gli stava accanto.
In tal maniera mi avvertì che era desto. Gli dissi: "Giacché vedo che la tua Musa per farti fantasticare ti ha acceso il suo lume, noti, o Licenzio, come varia il mormorio del ruscello?".
"Il fatto non m'è nuovo, rispose. Una volta mi svegliai di notte col desiderio che fosse sereno.
Prestai allora l'orecchio per avvertire se cadeva la pioggia e l'acqua del ruscello produceva lo stesso fenomeno di adesso".
Trigezio confermò poiché anche egli, che era coricato nella stessa camera, era desto senza che noi lo sapessimo.
Stavamo infatti al buio ed è questa un'economia che in Italia è quasi indispensabile anche ai più facoltosi.
Mi accorsi così che la nostra scuola, quella presente perché Alipio e Navigio erano andati in città, era desta anche a quell'ora.
La stranezza del fenomeno dello scorrere delle acque mi stimolava ad esaminarlo.
Mi rivolsi quindi a loro: "Quale ritenete che sia la causa del variare del mormorio?
Non possiamo certamente pensare che qualcuno a quest'ora o passandovi sopra o lavandovi qualche cosa ne interrompa lo scorrimento".
"E perché non pensare, disse Licenzio, ad un fenomeno prodotto da foglie di varie piante?
Esse in autunno cadono continuamente e abbondantemente qua e là.
Stipate nelle parti più strette del greto, sono di tanto in tanto trascinate via e quando la massa d'acqua che le spingeva è passata, di nuovo si raccolgono e ostruiscono.
Può anche avvenire un altro qualsiasi fenomeno a causa della diversa fortuita posizione di foglie trasportate che è sufficiente ora a rallentare ora ad accelerare lo scorrimento".
A me che altra non ne avevo sembrò probabile tale spiegazione e ammisi, lodando la sua perspicacia, che io non avevo trovato nulla sebbene a lungo ne avessi cercata la causa.
Dopo un breve silenzio gli dissi: "A buona ragione non te ne meravigliavi e te ne stavi raccolto vicino a Calliope".
"Sì, mi rispose, ma ora tu mi hai offerto un motivo di grande meraviglia".
"E quale?" chiesi. "Che te ne sei meravigliato", mi rispose.
"Ma da dove, tornai a chiedere, di solito nascono la meraviglia e l'ignoranza, che è madre di tale imperfezione, se non da un avvenimento che si verifica fuori dell'apparente ordine causale?".
Ed egli: "Ammetto apparente poiché ritengo che nulla avviene fuori dell'ordine".
Mi sentii rinfrancato da una speranza più viva che nelle altre occasioni, in cui uso con loro il metodo maieutico.
L'intelligenza del giovane, dedicatasi da poco a tali studi, aveva concepito con tanta prontezza una verità molto importante senza che fra di noi fosse stata mai agitata una discussione su problemi di tal genere.
"Bene, dissi, bene, proprio bene hai formulato un pensiero assai profondo e ti sei lanciato molto in alto.
Esso, credimi, di un bel tratto va al di sopra dell'Elicona; eppure ti sforzi di arrivare alla sua vetta come se fosse il cielo.
Ma vorrei che tu difenda la tua tesi perché tenterò di demolirla".
"Ti prego, mi rispose, in questo momento lasciami in pace perché ho lo spirito fortemente teso in altra direzione".
Temetti che travolto dalla passione di far versi si allontanasse dall'applicazione alla filosofia.
"Mi dispiace, gli dissi, che vai in cerca di codesti tuoi versi cantando e urlando con forme metriche di ogni genere.
Stanno levando fra te e la verità un muro più insormontabile di quello levato fra gli innamorati della tua favola.
Essi almeno comunicavano attraverso una fessura". Aveva infatti cominciato a cantar la favola di Piramo.
Lo dissi con maggior severità di quanto credesse, ed egli se ne stette in silenzio per un po'.
Io avevo già abbandonato la discussione intrapresa e vi stavo riflettendo da solo perché non volevo preoccupare inutilmente un individuo distratto da altri pensieri.
Ma egli disse: "Io sciocco per aver lasciato indizi come un topo da fogna.1
Il verso è stato posto in Terenzio con minor proprietà di quella con cui oggi lo posso applicare a me.
Ma la sua ultima frase forse si volgerà nel senso contrario.
Egli infatti ha detto: Oggi mi sono perduto, io invece forse oggi mi ritroverò.
Suppongo che non disprezziate il presagio che i superstiziosi sogliono trarre perfino dai topi.
Ora io facendo rumore ho cercato di far capire, se pur capisce qualche cosa, a quel topo comune o da fogna, a causa del quale hai scoperto che ero desto, di tornarsene nel suo covo e di starsene quieto.
Dunque perché anche io dalle tue brusche parole non dovrei comprendere di dover filosofare anziché far versi?
Infatti la filosofia, come ormai ho cominciato a credere a causa delle tue quotidiane dimostrazioni, è la nostra vera e indemolibile casa.
Pertanto se non ti dispiace e se credi che così si deve fare, chiedi ciò che vuoi: difenderò, per quanto posso, l'universalità dell'ordine e dimostrerò che nulla può avvenire fuori della legge razionale.
Ne ho talmente imbevuto e impregnato lo spirito che se in questa discussione qualcuno mi vincesse, non lo addebiterei a qualche principio irrazionale, ma alla razionalità delle cose.
Infatti non la verità, ma Licenzio sarebbe sconfitto".
Ed io di nuovo con gioia mi restituii a loro. Mi rivolsi a Trigezio: "E tu che ritieni?".
Mi rispose: "Sono certamente favorevole al principio teleologico, ma ho dei dubbi e vorrei esaminare con molta attenzione un argomento tanto importante".
"Quindi, gli ingiunsi, sostieni la tesi favorevole al principio teleologico.
In quanto ai tuoi dubbi penso che li hai in comune con Licenzio e con me stesso".
"Ma io, interruppe Licenzio, ho la piena certezza della mia tesi.
Perché dovrei esitare a demolire la parete, di cui hai parlato, prima che sia stata completamente innalzata?
Non tanto infatti l'applicazione alla poesia mi può allontanare dalla filosofia quanto piuttosto la sfiducia di raggiungere il vero".
Allora, con espressione di gioia, intervenne Trigezio: "Abbiamo finalmente, ed è questo che conta, un Licenzio non più accademico. Prima li difendevi con tanto ardore".
"Ora, ti prego, gli rispose, lascia andare certi argomenti affinché astuzie e adescamenti non mi distolgano e strappino da non saprei quale verità metafisica che mi si sta mostrando e alla quale mi aggancio con ardente desiderio".
A questo punto io, osservando di aver motivi di godimento molto più grandi di quanto avessi mai osato sperare, profferii con accento di gioia il verso: "Lo rendano tale il padre degli dèi e il grande Apollo.2
Egli, che ora ci concede un favorevole auspicio e scende nel nostro spirito, ci condurrà, se vogliamo seguirlo, alla meta che ci indica e nella dimora che ci fissa.
E il grande Apollo non è quegli che negli antri, nei monti, nei boschi, evocato dall'aroma degli incensi e dalle viscere degli animali, invade i manti, ma è un Altro, quel grande che ha detto parole veraci, anzi, a scanso di espressioni ambigue, la stessa Verità.
E i suoi vati sono tutti coloro che possono esser saggi.
Cominceremo dunque, o Licenzio, come dissodatori che prendono fiducia dalla pietà.
Con i nostri passi smorziamo il fuoco incendiario delle fumose passioni".
"Allora, mi rispose, inizia il dialogo. Forse potrò, anche con le mie risposte, chiarire un problema tanto importante e per me incomprensibile".
"Prima di tutto, gli dissi, rispondi a questa domanda: Perché ritieni che l'acqua di questo ruscello non scorre a caso, ma secondo una legge?
Soltanto il fatto che viene convogliata in canali di legno e condotta per i nostri usi può rientrare nei termini di un ordine.
Infatti l'opera è dovuta agli uomini che hanno usato la ragione per ottenere dal suo scorrere il vantaggio di bere e lavare e l'effetto è necessariamente congiunto con la configurazione dei luoghi.
Ma come possiamo pensare che sia dovuto all'ordine anziché al caso il fatto che le foglie siano cadute in maniera da causare, come tu spieghi, il fenomeno che ha destato la nostra meraviglia?".
"Come se, mi rispose, chi afferma senza pregiudizi l'impossibilità dell'effetto senza la causa propria possa ritenere che le foglie sarebbero dovute o potute cadere diversamente da come sono cadute.
E dovrei forse ricercare la posizione degli alberi e dei rami e perfino la quantità del peso che la natura ha stabilito alle foglie?
Ed è forse mia competenza indagare il movimento dell'aria che le fa volare, la lentezza con cui discendono e i vari modi di cadere secondo le condizioni atmosferiche, secondo il loro peso e forma ed altri innumerevoli ed occulti agenti naturali?
Simili circostanze sono nascoste, del tutto nascoste ai nostri sensi.
Ma non è nascosto al pensiero, e non saprei come, il principio dell'impossibilità di un effetto senza la causa.
Ed esso è criterio sufficiente per trattare il problema propostoci.
Un problemizzatore importuno può continuare a chiedere: c'era forse una ragione perché gli alberi siano stati posti proprio lì?
Risponderò che gli uomini si sono insediati in terreni fertili.
E se le piante non sono utili e sono sorte per puro caso?
Ed io risponderò che noi siamo di vista corta e che la natura, la quale le ha fatte germinare, non opera a caso.
Ma perché continuare? O mi si convincerà che qualche fenomeno si produce senza giustificazione o convenite con me che tutto avviene in un determinato ordine di cause".
Gli risposi: "Mi definisci un importuno problemizzatore e in verità potrei appena non esserlo perché ho posto fine ai tuoi colloqui con Piramo e Tisbe.
Tuttavia continuerò il dialogo. Tu ti ostini a far apparire la natura retta da un ordine.
A quale fine allora, per tacere di altri innumerevoli casi, ha fatto generare queste piante che non producono frutto?".
Mentre egli rifletteva sulla risposta da dare, intervenne Trigezio: "Ma che all'uomo deriva utilità dalle piante soltanto a causa dei frutti?
Quanti altri vantaggi provengono, alcuni dall'ombra, altri dal legname ed altri infine dalle fronde e foglie".
"Ti prego, interruppe Licenzio, di non rispondere in questi termini alle sue domande.
Si possono addurre innumerevoli esempi di cose, dalle quali non proviene alcun vantaggio per l'uomo oppure esso è così nascosto o trascurabile che non si dà, soprattutto a noi, possibilità di difesa o scampo.
Egli piuttosto ci esponga la tesi della possibilità di un effetto non dipendente dalla propria causa".
"Questo argomento, dissi, lo tratteremo in seguito.
Comunque non è opportuno che io assuma il compito dell'insegnante quando tu, che ti sei dichiarato certo di un argomento tanto importante, non mi hai ancora insegnato niente.
Eppure ho gran desiderio di apprendere e per tal motivo medito giorno e notte".
"Ma dove vuoi condurmi?, rispose. E ne sarebbe forse motivo il fatto che ti seguo più docilmente di quanto facciano le foglie con il vento che le butta in acqua e le costringe quindi non solo a cadere, ma anche a esser trascinate via?
Difatti sarebbe forse un caso diverso quello di Licenzio che insegna ad Agostino e nientemeno che problemi di fondo della filosofia?".
"Ti prego, gli risposi, non deprimere tanto te stesso e non innalzare me.
Anche io in filosofia sono ancor fanciullo e quando rivolgo domande non m'importa chi sia lo strumento attraverso il quale mi risponde colui che ogni giorno accoglie il mio gemito.
E penso che tu un giorno diverrai suo cantore e quel giorno forse non è lontano.
Tuttavia anche coloro che sono profani a simili studi possono insegnare qualche cosa quando si sentono legati, per così dire, dalle catene del dialogo ad una accolta di uomini che discutono.
E quel qualche cosa e niente non è la medesima cosa. Userò allo scopo il tuo esempio.
Non vedi che le foglie portate dal vento e trascinate sulle acque fanno una certa resistenza nel ruscello che scorre e fanno così riflettere gli uomini sulla legge razionale?
Lo dico nell'ipotesi che la tua tesi sia vera".
A questo punto egli saltò per la gioia sul letto ed esclamò: "Chi, o gran Dio, potrà negare che dirigi razionalmente tutte le cose al fine?
In qual maniera tutte le cose si raccordano! Con quali inderogabili successioni sono costrette ai propri nessi causali!
Quanto grandi e numerosi fatti sono accaduti per indurci a questo colloquio!
Quanto ammirabili cose avvengono perché ti possiamo ritrovare!
E dall'ordinamento al fine non dipende e deriva anche il fatto che ci siamo svegliati, che hai avvertito quel suono, che non hai trovato la spiegazione d'un fatto tanto trascurabile?
Inoltre un sorcio si fa notare perché io mi faccia notare sveglio.
Infine il tuo discorso è condotto in maniera da farmi comprendere che cosa devo risponderti.
Forse non era il tuo intento poiché non è in potere dell'uomo ogni pensiero che viene in mente.
Ed ora, scusa, supponiamo che questi nostri discorsi, una volta pubblicati, ottengano una notevole celebrità nella considerazione degli uomini.
Sarebbe un avvenimento molto importante e un grande indovino ovvero un caldeo interpellato avrebbe dovuto prevederlo molto tempo prima dell'avverarsi.
E se l'avesse preveduto sarebbe stato considerato un grande divinatore ed esaltato da tutti.
E forse che qualcuno avrebbe osato chiedergli perché una foglia cadrà dall'albero o se un sorcio vagabondo molesterà un uomo disteso per dormire?
Forseché qualcuno di coloro predisse spontaneamente avvenimenti di tanto poco rilievo o vi fu costretto?
Ora mettiamo che abbia predetto la pubblicazione d'un libro piuttosto notevole e il certo avverarsi dell'evento poiché altrimenti non sarebbe stata divinazione.
In tal caso il rivoltolarsi di foglie sui campi, le scorribande d'una spregevole bestiola per la casa rientrano negli inderogabili nessi dell'ordine come il fatto letterario.
Esso infatti si compone di parole che tuttavia, senza quei trascurabili avvenimenti che l'hanno preceduto, non sarebbero potute venire in mente né esser profferite né consegnate ai posteri.
E per questo, scusami, non mi si chieda il motivo per cui un fenomeno avviene.
Mi basta che non avviene fenomeno che non sia stato prodotto e attuato da una qualche causa.
"Si vede bene, gli risposi, o ragazzo, che non sai quante cose e da quali uomini sono state dette contro la divinazione.
E adesso rispondimi non sul problema della possibilità d'un effetto senza la causa, poiché osservo che non intendi darvi risposta, ma se l'ordine da te sostenuto è un bene ovvero un male".
Ed egli sommessamente: "Non hai posto la domanda in maniera che io possa affermare o l'uno o l'altro.
Osservo che si dà qualche cosa di mezzo. Infatti opino che l'ordine non sia né bene né male".
"Per lo meno, soggiunsi, cosa pensi che sia contrario all'ordine?". "Nulla, mi rispose.
Com'è possibile che si dia qualche cosa di contrario al principio che tutto comprende, tutto subordina?
Infatti ciò che è contrario alla legge razionale ne è necessariamente fuori.
Ora io non concepisco che si dia cosa fuori razionalità.
Quindi è ovvio il pensiero che non si dia cosa contraria alla legge razionale".
"Allora, intervenne Trigezio, neanche l'errore è contrario a razionalità?".
"Certamente, egli rispose. Infatti senza ragione non si dà neanche l'errore.
Ora la serie delle ragioni rientra nella legge razionale.
E l'errore non solo è prodotto da una sua ragione, ma produce anche un qualche cosa di cui diviene ragion d'essere.
Quindi, per il fatto che non è fuori razionalità, non può esser contrario a razionalità".
Trigezio non soggiunse. Ed io non riuscivo a contenere la gioia nel vedere che un giovanetto, figlio di un amico carissimo, stava diventando anche mio figlio e non solo, ma si stava formando e crescendo come mio amico.
E pensare che non avevo fiducia neanche del suo interesse per gli inferiori studi liberali.
Ma egli, dopo aver preso, per così dire, visione d'un suo diritto, aggrediva d'impeto problemi di fondo della filosofia.
E mentre in silenzio me ne faccio le meraviglie e ardo di gioia, egli all'improvviso, come preso da un'ispirazione, esclama: "Oh potessi dire quel che sento.
Vi prego, dove siete, o parole? venitemi incontro.
Nella legge razionale v'è il bene e il male. Credetelo se volete. Io non so come spiegarlo".
Io ero meravigliato e tacevo. Ma Trigezio, quando s'accorse che l'altro, come smaltita una ubriachezza, s'era reso disposto a farsi rivolgere la parola e pronto al dialogo, disse: "Ritengo assurdo, o Licenzio, e molto lontano dalla verità quanto stai dicendo.
E, ti prego, lasciami dire per un po' e non m'interrompere con le tue enfasi".
"Dì pure, quegli rispose; non temo che mi sottrai la verità che scorgo e quasi posseggo".
"Magari, rispose Trigezio, non ti fossi allontanato dalla razionalità che difendi.
Non mancheresti di riguardo verso Dio. E parlo con moderazione.
Cosa infatti si è potuto dire di più irreligioso che anche il male rientra nell'ordine?
Ora Dio ama l'ordine". "Certo che l'ama, rispose l'altro; da lui deriva e in lui si fonda.
Ma, per favore, medita nel tuo intimo se si possono esprimere concetti più convenienti su un problema tanto difficile.
Io non sono ancora preparato ad insegnarteli". "Che dovrei meditare?, rispose Trigezio.
Comprendo bene la tua tesi e mi basta ciò che capisco.
Ora tu hai detto che il male rientra nella legge razionale e che essa deriva dal sommo Dio e che è da lui voluta.
Ne consegue che il male procede dal sommo Dio e che egli lo vuole".
Una dimostrazione simile mi fece temere per Licenzio.
Ma egli era contrariato dalla difficoltà ad esprimersi e non cercava affatto una risposta ma la formulazione conveniente della risposta.
Disse: "Dio non vuole il male se non altro perché non appartiene a razionalità che anche Dio voglia il male.
E per questo vuole la legge razionale poiché mediante essa non vuole il male.
Ma se Dio non vuole il male, com'è possibile che il male non rientri nell'ordine?
Infatti giustificazione del male è che esso non è voluto da Dio.
E tu non puoi ritenere che si ha un'insufficiente legge razionale del mondo nel principio che Dio vuole il bene e non vuole il male.
Quindi il male che Dio non vuole non è fuori della legge razionale che Dio vuole.
Infatti egli vuole che si voglia il bene e non si voglia il male; il che è l'essenza della razionalità del tutto e dell'ordinamento divino.
E poiché questa razionalità e questo ordinamento garantiscono, per il dissidio stesso, l'armonia dell'universo, ne consegue la necessità dell'esistenza del male.
Così in certo senso l'armonia dell'universo si manifesta nei termini di un'antitesi, nei contrari.
Ed essa è figura di armonia anche nel nostro discorso".
Dopo queste parole tacque un momento. E all'improvviso ergendosi e volgendosi nella direzione del letto di Trigezio, proruppe: "Ti chiedo, scusami, se Dio è giusto".
Ma l'altro mantenne il silenzio, profondamente meravigliato e soggiogato, come confessò in seguito, dal discorso di nuovo improvvisamente ispirato dal condiscepolo e amico.
E poiché egli taceva l'altro continuò: "Se risponderai che Dio non è giusto, ci penserai tu, che poco fa mi hai accusato di irreligiosità, come cavartela.
Se poi Dio è giusto, come ci è trasmesso dalla fede e come la nostra stessa ragione afferma per la validità del principio teleologico, egli è giusto perché distribuisce ad ogni essere il suo.
Ma si dà distribuzione senza distinzione? E si dà distinzione se tutto è bene?
E che cosa trasgredisce la razionalità se dalla giustizia di Dio si dà a ciascuno il suo secondo i meriti dei buoni e dei cattivi?
Ora tutti ammettono che Dio è giusto. Tutto dunque rientra nell'ordine".
Dopo tali parole si sollevò sul letto e poiché nessuno gli rispondeva, con voce più tranquilla soggiunse: "Neanche tu, che mi hai spinto alla discussione, mi dici una parola?".
Gli dissi: "Me ne sto zitto perché in te è sopraggiunto codesto nuovo fervore religioso.
Ma esporrò la mia tesi durante il giorno che mi pare stia sorgendo, se non è della luna il chiarore che ammanta le finestre.
Nello stesso tempo bisogna raccogliersi nel silenzio perché l'oblio, o Licenzio, non inghiottisca le tue bellissime parole.
Le nostre tavolette reclameranno senz'altro che esse siano loro consegnate.
Ti esporrò, sta' tranquillo, la mia tesi. Disputerò contro di te secondo le mie possibilità e se riporterai vittoria su di me, sarà per me il più bel trionfo.
Io tenterò di sostenere le parti della scaltrezza sofistica e d'un certo sottile errore umano.
E se la tua insufficiente preparazione, assai poco nutrita di conoscenza scientifica, non potrà difendere le ragioni di un Dio tanto grande, il fatto stesso ti renderà cosciente che devi acquisire altre energie per tornare più sicuro a lui.
C'è anche il mio desiderio che questa nostra discussione abbia un procedimento rifinito perché non la destino a orecchie incolte.
Infatti il nostro Zenobio spesso ha discusso con me sulla razionalità delle cose.
Non ho potuto mai rispondere esaurientemente alle sue profonde domande sia per l'oscurità del soggetto sia per la scarsezza di tempo.
Egli non ha tollerato il mio continuo rimandare fino a che, per costringermi a rispondere più diligentemente e diffusamente, mi ha perfino sollecitato con una poesia.
Ed è anche una bella poesia che dovrebbe indurti ad essergli maggiormente amico.
Non fu possibile leggertela perché a quel tempo eri assai lontano dall'attenzione a simili problemi ed è tuttora impossibile.
Infatti la sua partenza fu così improvvisa ed avvenne in tanto scompiglio che non potemmo affatto richiamarci alla mente simili particolari.
Aveva promesso di farmela avere qualora io avessi risposto.
Ed ora concorrono parecchie circostanze a che gli sia mandato questo nostro discorso.
Prima di tutto perché glielo abbiamo promesso; inoltre perché è conveniente all'affetto che gli portiamo indicargli per tale mezzo il tenore di vita che meniamo; infine perché non è secondo a nessuno nel gioire delle speranze che prometti.
Infatti durante la sua presenza, a causa dell'amicizia verso tuo padre o meglio verso tutti noi, considerava attentamente un certo scintillare del tuo ingegno e si preoccupava vivamente che non fosse troppo avvivato dalla mia premura o soffocato dalla tua noncuranza.
E quando saprà che anche tu sei amante della poesia, ne avrà tanto piacere. Mi par già di vederlo esprimere la sua gioia.
Rispose: "Non mi potrai fare cosa più gradita. Ma voi forse deridete la mia incostanza e puerile leggerezza o meglio c'è qualche cosa che avviene in noi per disposizione e ordinamento divino.
Comunque non ho perplessità nel confessarvi che all'improvviso sono diventato apatico verso la poesia.
Un non so che mi si è manifestato con ben altra luce.
È più bella, lo confesso, la filosofia che Tisbe e Piramo, che Venere e Cupido ed altri soggetti amorosi del genere".
E con un sospiro ringraziò il Cristo. Ed io ascoltai queste parole, mi limito a dire, con piacere.
Ma perché non dovrei dirlo? La prenda ciascuno come vorrà, non m'importa. Ero sopraffatto dalla gioia.
Poco dopo apparve il giorno. Essi si levarono ed io pregai a lungo nel pianto.
All'improvviso odo Licenzio cantare a voce lieta e spiegata il versetto del salmista: O Dio della fortezza, volgici a te, mostraci il tuo volto e saremo salvi ( Sal 80,8 ).
Il giorno prima, dopo cena, essendo uscito fuori per un bisogno naturale, l'aveva cantato a voce molto alta.
Mia madre non tollerava che in quel luogo si cantassero, e ripetute volte, tali parole.
Egli ripeteva sempre le stesse poiché aveva appreso da poco la modulazione e si dilettava, com'è costume, di una melodia nuova.
La donna molto pia, come sai, lo rimproverò perché il luogo era sconveniente a quel canto.
Ed egli aveva risposto scherzosamente: "Quasi che se un nemico mi avesse chiuso qui dentro, Dio non avrebbe udito la mia voce".
Quella mattina entrambi erano usciti per lo stesso motivo.
Ed egli rientrato solo si accostò al mio letto e mi disse: "Dimmi la verità sulla stima che hai di me e sia di me come tu la intendi".
Afferrai la destra del giovanetto: "Tu, gli dissi, hai esperienza, ti sei fatta un'opinione e una certezza sulla mia stima.
Penso che non invano ieri hai cantato più volte che il Dio della fortezza, dopo averti volto a sé, ti si manifesti".
Egli se ne ricordò con meraviglia. "Dici una grande verità, mi rispose; e mi convince assai il fatto che poco fa mi si distoglieva a stento dalla bagatella della mia composizione poetica.
Ed ora ne ho rincrescimento e vergogna poiché mi sento trasportato verso valori grandi e mirabili.
Non è questo esser volto verso Dio? Godo anche se senza risultato si è tentato di farmi avere scrupolo perché canticchiavo il versetto in quel luogo".
"A me, gli risposi, il fatto non dispiace e penso che rientra nell'ordine, ché anche da esso s'è presa occasione per esprimere dei concetti.
Scorgo appunto che il luogo, da cui mia madre ha avuto motivi di scandalo, e la notte si adeguano al versetto.
Infatti da quali cose noi dobbiamo pregare di esser volti verso Dio e vedere il suo volto se non dal fango e dalle sozzure della sensibilità ed insieme dalle tenebre con cui l'errore ci avviluppa?
E che cos'è esser volto se non voltar le spalle all'immoderatezza dei vizi e rimaner saldi nella fortezza e nella temperanza?
E che cos'è il volto di Dio se non la verità a cui sospiriamo e per la quale, nell'atto che l'amiamo, ci rendiamo puri e belli?".
"Non si poteva dir meglio", rispose quasi in un grido.
Poi a voce sommessa come se parlasse all'orecchio: "Vedi, scusa, quante circostanze sono concorse per farmi credere che per noi si stanno verificando degli eventi secondo un ordine provvidenziale".
"Se vuoi rientrare nell'ordine, gli risposi, devi tornare ai tuoi versi.
Infatti l'apprendimento delle discipline liberali, per quanto modesto e rudimentale, rende gli amatori della verità più solleciti nel desiderarla vivamente, più costanti nel ricercarla assiduamente, più disposti ad aderirvi con serenità.
Questa appunto, o Licenzio, si chiama felicità. Al suo nome tutti si levano in piedi e, per così dire, ti guardano sulle mani come se avessi qualche cosa da dare a persone bisognose e affette da vari malanni.
E se la saggezza comincia ad ammonirli che lascino venire il medico e si facciano curare con un po' di sopportazione, si riafflosciano nei propri cenci.
Impiagati dalla loro putrida fermentazione preferiscono grattare la rogna dei tristi piaceri anziché essere restituiti alla salute e alla luce sopportando e accettando le prescrizioni del medico anche se un po' dure e gravose per il loro male.
E così vivono nell'infelicità, contenti del solo nome del sommo Dio e d'averne sentito parlare a titolo d'elemosina. Comunque vivono.
Ma lo sposo infinitamente buono e bello sceglie altri uomini, o per meglio dire, altre anime, ancor poste nella vita terrena, degne del suo talamo.
Per esse non basta vivere, ma occorre vivere nella felicità. Frattanto torna alle tue Muse.
Sai tuttavia ciò che voglio da te?". "Comanda ciò che vuoi", mi rispose.
"Nel punto del tuo carme, soggiunsi, in cui Piramo e la sua innamorata si uccidono, stretti l'uno all'altra, è regola che il tuo carme si ravvivi fortemente di sentimento drammatico.
Proprio qui hai l'occasione propizia. Canta il motivo dell'esecrazione per il basso sentimento amoroso e per la fiamma delle passioni.
Per essi si verificano simili fatti detestabili. Quindi lèvati alla celebrazione dell'amor puro e sincero.
Per esso le anime fornite di sapere e belle nella virtù si uniscono al pensiero mediante la filosofia e non solo evitano la morte, ma vivono d'una vita sommamente felice".
A queste parole Licenzio rifletté a lungo in silenzio. Poi fatto un cenno d'assenso, se ne andò.
Mi alzai anche io. Fatte le preghiere del mattino, ci avviammo verso le terme.
Il luogo, quando non potevamo scendere al prato a causa del tempo inclemente, ci parve adatto alle sedute e accogliente.
Ed ecco che davanti alla porta scorgemmo due galli che avevano cominciato ad azzuffarsi ferocemente.
Ci piacque osservarli. Che cosa non scorgono, dove non si volgono gli occhi degli amatori di saggezza per cogliere da ogni parte i cenni dell'armonia della ragione che impone ordine e misura a tutti gli esseri coscienti e incoscienti?
Essa conduce i propri seguaci che a lei anelano per qualsiasi via e in qualsiasi luogo voglia esser cercata.
Dunque da ogni fatto e dovunque si può scorgerla.
Ad esempio, in quei galli era possibile scorgere le teste intente al colpo, le penne arruffate, il rapido assaltare, l'accorto schivare.
Niente v'era di disarmonico in animali privi della ragione appunto a causa d'una ragione che da un ordine superiore tutto armonizza.
Infine era possibile scorgere le intimazioni del vincitore nel canto superbo e nelle membra raccolte, per così dire, a cerchio, come in esaltazione del dominio, e gli indizi del vinto nelle penne sollevate sulla testa e nella difformità completa della voce e del passo che per ciò stesso era conformata e proporzionata, non so come, alle leggi naturali.
Ci ponevamo molte domande: perché tutti i galli fanno così, perché lo fanno per dominare le galline loro soggette, perché la sequenza della zuffa ci ha fatto provare alquanto, al di là della considerazione di carattere superiore, il piacere dello spettacolo, qual è il principio che nel nostro spirito si pone molti problemi che trascendono i sensi e a sua volta che cosa si apprende per la testimonianza dei sensi?
Ci dicevamo: C'è qualche cosa in cui manca la legge, in cui il dominio non sia dato al migliore, in cui non sia l'apparire della permanenza, in cui non si dia la somiglianza con l'armonia ideale, in cui non ci sia la misura?
E ammoniti appunto che era indispensabile la misura nel godere lo spettacolo, ci dirigemmo verso la meta.
Quivi, per quanto ci fu possibile, ma certamente con diligenza, trascrivemmo i risultati della nostra disputa notturna in questa parte del libro.
Erano fatti recenti e non potevano argomenti tanto importanti sfuggire alla memoria di tre studiosi.
In quel giorno, per risparmiare la salute, non feci altro.
Ero solito tuttavia ogni giorno leggere, prima di pranzo assieme a loro, metà di un libro di Virgilio.
Ma per il resto non facevamo che meditare ogni occasione sulla misura della realtà.
Averne la nozione è possibile a tutti, ma scoprirla, quando ci si applica intensamente, è assai difficile e raro.
Il giorno dopo, di buon mattino, ci adunammo nel luogo solito e ci sedemmo.
Quando entrambi ebbero gli occhi fissi su di me, cominciai: "Sta' attento per quanto t'è possibile, o Licenzio, e anche tu, o Trigezio.
Non si tratta di un problema di poco conto. Stiamo indagando sull'ordine.
Non devo certo addurvi motivi in favore dell'ordine in un discorso lungo e metodico come se mi trovassi ancora nella scuola da cui godo d'essere uscito.
Ascoltate, se volete, anzi impegnatevi ad ascoltare un motivo che è il più breve e, a mio avviso, il più vero per la valutazione dell'ordine.
La legge razionale è valore che attuato da noi in vita ci conduce a Dio; non attuato, non ci lascia raggiungere Dio.
Noi abbiamo fede e speriamo di poterlo raggiungere a meno che il mio affetto non m'induca in inganno sul vostro conto.
Quindi il problema si deve da noi trattare e risolvere con la massima diligenza possibile.
Vorrei che fossero presenti anche gli altri che di solito attendono con noi a queste dispute.
Vorrei, se fosse possibile, avere ora con me a prendervi parte, con interesse come voi, non solo costoro, ma per lo meno tutti i nostri amici di cui ammiro sempre l'intelligenza.
Ma almeno fosse presente Zenobio che si affatica tanto sul problema.
Ma dacché non esercito più la professione, non l'ho più incontrato a causa del suo posto altolocato.
E siccome ben altri sono i fatti, leggeranno i nostri scritti.
Abbiamo stabilito di non perdere una parola delle nostre dispute e di stringere con i ceppi della trascrizione, per ricondurli indietro, i concetti che fuggono dalla memoria.
E forse così richiedeva la legge razionale che ha determinato la loro assenza.
Infatti voi vi accingete a trattare un argomento tanto importante con maggiore impegno per il fatto che dovete svolgerlo da soli.
E questa nostra disputa ne susciterà altre se coloro che ci stanno tanto a cuore, dopo aver letto, troveranno motivo di contraddirci.
Così la serie dei discorsi s'inserirà nel sistema ordinato del sapere.
Ma ora, come ho promesso, mi porrò come avversario di Licenzio, per quanto l'argomento lo permette.
Egli avrà causa vinta se potrà trincerarla stabilmente e validamente con un muro di difesa".
A queste parole mi accorsi, dal silenzio, dall'espressione del viso e degli occhi, dalla tensione e immobilità del corpo, che erano interessati dall'importanza dell'argomento e desiderosi d'udire.
"Allora, o Licenzio, dissi, se sei disposto raccogli tutte le energie che puoi, aguzza l'ingegno e definisci che cos'è l'ordine".
Appena udì che lo si invitava a definire l'ordine, rabbrividì come se fosse stato inzuppato d'acqua gelata, quindi guardandomi con viso più turbato e sorridendo per l'emozione, come di solito avviene, proruppe: "Ma che scherzo è questo?
Cosa credi che possa svelarti? Ovvero mi credi ispirato da qualche demone benigno?".
E all'improvviso prendendo coraggio soggiunse: "Ma forse davvero qualche cosa c'è in me".
Si raccolse un momento in silenzio per richiamare alla definizione tutto quello che sapeva sull'ordine.
Quindi senza incertezze disse: "L'ordine è il principio per cui sono mosse al fine tutte le cose che Dio ha creato".
"E, secondo il tuo parere, domandai, anche Dio è mosso al fine?". "Certamente", mi rispose.
"Dunque Dio è mosso", obiettò Trigezio. "E vorresti negare, ribatté l'altro che Cristo è Dio?
Eppure egli venne a noi per un fine e afferma che fu mandato da Dio Padre.
Se dunque Dio ha mandato a noi il Cristo per un fine e se non neghiamo che il Cristo è Dio, non solo Dio muove l'universo, ma egli stesso è mosso al fine".
Trigezio un po' sconcertato rispose: "Non saprei giudicare codesta affermazione.
Nel nominare Dio, non ci viene in mente, per così dire, il Cristo, ma il Padre.
Ci viene in mente lui quando nominiamo il Figlio di Dio".
"Stai combinando un bel pasticcio, obiettò Licenzio. Dovremmo dunque affermare che il Figlio di Dio non è Dio?".
Rispondere sembrò azzardato a Trigezio, tuttavia non seppe contenersi e affermò: "Anche egli è Dio; comunque noi in senso proprio diciamo Dio soltanto il Padre".
"Sappi contenerti piuttosto, lo rimproverai; il Figlio non è detto Dio in senso improprio".
Ed egli, preso da religioso timore, voleva che le sue parole non fossero trascritte.
Al contrario Licenzio insisteva perché fossero conservate.
Si stavano comportando come fanciulli o meglio, ed è vergognoso, come quasi tutti gli uomini.
Sembrava che si discutesse per vanagloria. Rimproverai Licenzio con aspre parole per la sua disposizione d'animo e egli arrossì, ma mi accorsi che Trigezio sogghignava soddisfatto del suo disagio.
Mi rivolsi ad entrambi: "Così vi comportate? Non vi preoccupate del peso delle passioni da cui siamo gravati e delle tenebre dell'ignoranza da cui siamo avvolti?
Poco fa volevate innalzarvi a Dio e alla verità. Ne è questo il modo?
Ed io, sciocco che sono, ne ho gioito. Oh! se poteste vedere, magari con gli occhi miopi come me, a quali condizioni di pericolo siamo soggetti e di quale male il vostro riso indica l'incoscienza. Oh! se lo poteste vedere.
Quanto presto, anzi subito, e quanto a lungo lo cambiereste in pianto! Infelici, non avete coscienza del luogo in cui ci troviamo?
È sorte comune che lo spirito degli stolti e ignoranti sia carcerato nelle tenebre, ma la sapienza non porge aiuto e non stende la mano, in ugual modo, a tutti i carcerati.
Credetemi, vi sono alcuni che sono chiamati alla luce ed altri che sono abbandonati nella fonda oscurità.
Non raddoppiatemi la pena, vi prego. Mi bastano le mie piaghe.
Perché siano rimarginate io prego Dio quasi tutti i giorni nelle lacrime.
Tuttavia spesso mi convinco dentro di me che sono meno degno di essere guarito così presto come desidero.
Non comportatevi così, vi prego, se mi dovete un po' d'amore e di benevolenza, se comprendete l'affetto e la stima che ho per voi, la preoccupazione che mi prende per la vostra formazione morale, se sono degno della vostra attenzione, se infine non mentisco, e Dio m'è testimonio, nell'affermare che io non desidero nulla di più per me che per voi.
Datemi la vostra, gratitudine e se di buon grado mi riconoscete vostro maestro, datemi in compenso la vostra bontà".
A questo punto le lacrime m'impedirono di continuare il discorso.
Licenzio, assai corrucciato che ogni parola veniva trascritta, proruppe: "Ma, scusa, che abbiamo fatto?".
"Ancora non riconosci la tua mancanza?, ribattei. Sai che nella scuola io di solito ero mosso alla nausea dal fatto che i giovanetti erano spinti non dall'interesse e dalla nobiltà dell'apprendere, ma dall'amore di una vuota lode.
Alcuni non si vergognavano neppure di declamare discorsi altrui per accaparrarsi lodi dagli autori stessi dei discorsi declamati.
Era, un obbrobrio da far piangere. Voi, per quanto ne so, non avete commesso mai simile colpa, ma state tentando d'introdurre e far crescere nello studio stesso della saggezza e nel sistema di vita, che ho alfine scelto, un costume corrotto.
È appunto l'insana rivalità e sciocca ostentazione che è il vizio ultimo a sopraggiungere ma il più nocivo fra tutti.
E forse perché tento di allontanarvi da questa passione sciocca e morbosa diverrete indolenti allo studio della filosofia e, respinti dall'amore per una rinomanza priva di significato, vi irrigiderete nel torpore dell'inerzia.
Povero me se dovrò sopportarvi ancora in condizioni che da voi le passioni non scompaiano se non col sopraggiungere di altre".
"Vedrai, rispose Licenzio, che ne saremo più liberi. Ma ora ti scongiuriamo, per tutto ciò che ami, di perdonarci e di far cancellare tutto l'episodio anche per risparmiare le tavole di cui non disponiamo a sufficienza.
Infatti dei molti argomenti che abbiamo trattato nulla ancora è stato trascritto nei libri".
"Ma rimanga pure il nostro castigo, disse Trigezio, affinché la rinomanza, che ci ha solleticato, col colpirci ci distolga dall'amarla.
D'altronde dovremo darci parecchio da fare perché questi nostri scritti siano noti per lo meno ai nostri amici e famigliari". L'altro acconsentì.
Frattanto entrò mia madre e ci chiese sui risultati conseguiti. Le era infatti noto l'argomento.
Io ordinai che al solito fossero annotati il suo ingresso e la sua domanda. "Ma che fate?, disse.
Ho forse mai sentito dire che nei libri da voi letti anche le donne sono invitate a simili discussioni?".
"Non tengo in considerazione, risposi, i pareri degli orgogliosi e degli ignoranti che si gettano a legger libri con lo stesso spirito con cui adulano le persone.
Non considerano infatti le doti, ma le vesti che coloro indossano e lo sfarzo delle ricchezze e possedimenti che sfoggiano.
Costoro nel leggere non pongono attenzione all'origine del problema, alla soluzione che i disputanti intendono dare e ai risultati delle loro analisi e sintesi.
Fra essi tuttavia vi sono alcuni le cui disposizioni non sono da disprezzarsi.
Hanno infatti qualche spruzzo di cultura e facilmente possono essere introdotti nel santuario della filosofia attraverso le porte dorate e decorate.
Li hanno tenuti in considerazione anche i nostri predecessori e veggo che i loro libri ti sono noti attraverso la nostra lettura.
Anche oggi, per tacere di altri, v'è Teodoro, uomo insigne per il carattere, l'eloquenza e per doni di fortuna e, sopra ogni altra cosa, eccellente per doti d'intelligenza.
Tu stessa ben lo conosci. Egli fa sì che oggi e presso i posteri nessuna epoca possa a buon diritto screditare la cultura del nostro tempo.
Ma supponiamo che i miei libri per puro caso capitino in mano a qualcuno.
Appena legge il mio nome, si chiede: E chi è costui? e butta via il volume.
Ma individui pedanti o veramente colti, non facendo caso alla modesta apparenza della porta, potrebbero entrare e non proveranno sdegno che io parlo con te di filosofia e forse non disprezzeranno alcuno di costoro i cui discorsi sono riportati dai miei scritti.
Intanto essi sono liberi, ed è quanto basta per ogni disciplina liberale e a più forte ragione per la filosofia, e sono anche d'illustre discendenza nel loro paese natale.
Gli scritti di uomini assai colti tramandano che anche i ciabattini ed uomini d'ancor più bassa condizione sociale hanno atteso alla filosofia.
Furono tuttavia tanto illustri per ingegno e dignità morale che, pur potendolo, non vollero affatto e a nessuna condizione mutare i propri beni con qualsiasi altra grandezza.
E, credimi, non mancheranno lettori i quali apprezzeranno di più il fatto che tu parli di filosofia con me che se trovassero in questi scritti un contenuto dilettevole ed eloquente.
Inoltre anche le donne, secondo la tradizione classica, hanno atteso alla filosofia. Infine la tua filosofia assai mi piace.
E poiché tu, o madre, nulla abbia ad ignorare, la parola greca "filosofia" in latino si traduce amore di saggezza.
Anche le divine Scritture, che tu ami tanto, non insegnano ad evitare e schernire gli amatori di saggezza in senso assoluto, ma gli amatori della saggezza di questo mondo.
Ma v'è un altro mondo sovrasensibile, oggetto di visione per il pensiero di pochi sani.
Lo afferma il Cristo stesso che non dice: Il mio regno non appartiene al mondo; ma: Il mio regno non appartiene a questo mondo ( Gv 18,36 ).
Chiunque dunque ritiene che la filosofia si deve evitare in senso assoluto, pretende semplicemente che noi non amiamo la saggezza.
In questi miei scritti dunque ti esporrei al disprezzo se tu non amassi la saggezza; non ti disprezzerei se l'amassi soltanto un po' e molto meno se tu l'amassi quanto l'amo io.
Ma tu l'ami più di quanto ami me, e so quanto mi ami, e in essa hai tanto progredito che non ti lasci atterrire dalla paura di una eventuale sventura e perfino della morte.
Tale disposizione fu difficile anche in filosofi eminenti ed è, per unanime consenso, la vetta dell'amore di saggezza.
Ed io non dovrei consegnarmi a te come discepolo?".
A questo punto, con espressione gentile e caritatevole, mi rispose che io non avevo mai detto tante bugie.
Mi accorsi d'altronde che avevamo proferito molte parole le quali dovevano essere trascritte, che il libro aveva raggiunto la giusta misura e che non c'erano più tavolette.
Deliberai allora di rimandare la discussione anche per risparmiare il mio petto.
L'avevano affaticato più di quanto volevo le parole di rimprovero che avevo ritenuto di dover inderogabilmente rivolgere ai due giovanetti.
Mentre ce ne andavamo, Licenzio mi disse: "Ricordati quanti e quanto indispensabili favori ci vengono somministrati dall'occulta provvidenza di Dio attraverso la tua opera, anche se tu non ne sei cosciente".
"Me ne accorgo, dissi, e gliene sono grato. E prevedo che voi stessi diverrete migliori per il fatto che ve ne accorgete".
Per quel giorno non mi occupai di altro.
Indice |
1 | Terenzio, Eun. 1024 |
2 | Virgilio Aen. 10, 875 |