L'ordine

Indice

Razionalità che dipende dall'uomo

La razionalità nella vita ( 1,1 - 8,25 )

a) Razionalità nella vita del saggio ( 1,1 - 3,10 )

1.1 - Riprende la disputa ed è presente la madre

Dopo pochi giorni tornò Alipio. S'era levato un sole splendente.

La serenità del cielo e la mite temperatura, quale poteva darsi d'inverno in quei luoghi, ci invitò a scendere nel prato.

Lo facevamo assai spesso quasi per abitudine. C'era anche mia madre.

Ne avevo già notato, a causa della lunga convivenza e di una continua attenzione, le belle doti e l'anima ardente per le cose di Dio.

Ma durante una disputa importante che ebbi con i miei commensali nel mio genetliaco e che ho raccolto in un opuscolo mi si manifestò la sua intelligenza in maniera tale da farmi ritenere che non ve n'era altra più idonea al vero filosofare.

E poiché non aveva preoccupazioni avevo fatto in maniera che non mancasse al nostro colloquio.

D'altronde ne sei già stato informato nel primo libro di quest'opera.

1.2 - La legge razionale è da Dio …

Seduti che fummo nel luogo suddetto, più comodamente che potemmo, mi rivolsi ai due giovanetti: "Mi sono adirato con voi che avete trattato argomenti importanti con fanciullesca immaturità.

Tuttavia mi pare che col favore divino il fatto non è avvenuto casualmente.

Col discorso di rimprovero alla vostra leggerezza è stato impiegato del tempo sicché sembra quasi che un argomento tanto importante sia stato differito proprio per il ritorno di Alipio.

Gli ho già esposto la discussione avuta e i risultati da noi conseguiti.

Quindi, o Licenzio, sei pronto a difendere la causa che hai cominciato a patrocinare con la tua definizione?

Per quanto mi pare di ricordare, hai detto che razionalità è il principio secondo cui Dio muove l'universo".

"Sono pronto secondo le mie forze", rispose. "In qual maniera, chiesi, Dio muove l'universo?

Anche egli si muove secondo razionalità ovvero secondo razionalità muove tutti gli altri esseri fuor di se stesso?".

"Dove si ha pienezza di bene, rispose, non c'è legge. V'è infatti somma eguaglianza che non esige affatto ordinamento razionale".

"Non neghi, chiesi, che in Dio c'è pienezza di bene?". "No", rispose.

"Ne consegue, incalzai, che né Dio né i suoi attributi rientrano nella legge razionale". Lo ammise.

"E riterresti forse, soggiunsi, che la totalità del bene sia da considerarsi un nulla?". "Anzi, rispose, essa soltanto è fuori del divenire".

"Quale senso ha allora, chiesi, che l'universo è mosso al fine e che nulla v'è che sia fuori dell'ordinamento?".

"Ma si dà, rispose, anche il male e per esso avviene che l'ordinamento includa anche il bene.

Il bene come tale non soggiace a legge, ma insieme il bene e il male.

Quando diciamo l'universo, non intendiamo soltanto il bene.

Ne consegue che l'universo intiero che Dio dirige al fine è diretto al fine mediante legge razionale".

1.3 - … quindi l'uomo è nella razionalità se è con Dio

Gli chiesi: "Ritieni che gli esseri diretti e mossi al fine sono soggetti ovvero non soggetti a divenire?".

"Ritengo, rispose, che gli esseri generati in questo mondo sono soggetti a divenire".

"Il resto no?" chiesi. Gli esseri che sono con Dio non sono nel divenire, mi rispose; tutto il resto, penso, è soggetto a divenire".

"Allora, obiettai, ritieni che gli esseri che sono con Dio non sono soggetti a divenire e ammetti che il resto diviene.

Così stai affermando che tutti gli esseri soggetti a divenire non sono con Dio".

"Ripeti, mi pregò, lo stesso concetto in forma più comprensibile".

Ebbi l'impressione che esprimesse il suo desiderio non perché mosso dall'esigenza di capire ma di prender tempo per trovare la risposta.

"Hai detto, ripetei, che gli esseri con Dio non sono soggetti a divenire e che il resto diviene.

Dunque gli esseri divenienti non sarebbero tali se fossero con Dio.

E poiché affermi che gli esseri con Dio non sono soggetti a divenire, ne consegue che gli esseri divenienti sono fuori di Dio".

Dopo queste parole continuò a tacere. Alfine disse: "Ritengo che, se in questo mondo si diano esseri non soggetti a divenire, essi sono con Dio".

"Non m'interessa, risposi. Vuoi ritenere, a mio avviso, che alcuni esseri di questo mondo non sono soggetti a divenire.

Ne consegue che non tutti gli esseri di questo mondo sono con Dio". "Lo ammetto, non tutti", rispose.

Dunque v'è qualche cosa fuori di Dio", obiettai. "No", protestò. Dunque tutto è con Dio".

Un po' perplesso replicò: "Scusa, non ho inteso dir questo poiché nulla è fuori di Dio".

"Dunque, obiettai, il cielo visibile è fuori di Dio dal momento che nessuno dubita del suo muoversi".

"Il cielo, rispose, non è fuori di Dio". "Dunque qualche cosa soggetto al divenire è con Dio".

"Non posso spiegare, protestò, il mio pensiero come vorrei.

Chiedo tuttavia che comprendiate, con la maggiore intelligenza possibile, i concetti che intendo esprimervi senza soffermarvi sulle parole.

Opino che nulla è fuori di Dio e nello stesso tempo ritengo che non soggiace a cangiamento ciò che è con Dio.

Non posso affermare che il cielo è fuori di Dio non solo perché ritengo che nulla è fuori di Dio, ma anche perché sono d'avviso che il cielo ha una parte fuori del divenire che forse è Dio stesso, o per lo meno è con Dio, sebbene non ho dubbi nell'ammettere i giri e i movimenti del cielo".

2.4 - Essere con Dio e conoscere Dio

"Definisci allora, gli dissi, per favore che cosa significa essere con Dio e che cosa non essere fuori di Dio.

Se il nostro dissenso dipende dalle parole, sarà facilmente superato, purché possiamo comprendere il tuo concetto".

"Sono contrario a far definizioni", mi disse. "Che fare allora?" replicai.

"Definisci tu, te ne prego, mi disse. È più facile per me rilevare nella definizione di un altro motivi che non approvo anziché chiarire il mio concetto con una buona definizione". "Farò come vuoi, dissi.

Ritieni che è con Dio tutto ciò che è da lui mosso e diretto al fine?".

"Non intendevo dir questo, mi rispose, quando affermavo che gli esseri non soggetti a divenire sono con Dio".

"E adesso dimmi, soggiunsi, se ti va a genio questa definizione: è con Dio ogni essere che lo conosce".

"D'accordo", mi rispose. "E allora, replicai, non ritieni che il filosofo conosce Dio?". "Si", ammise.

"Quando allora i filosofi si muovono non solo entro una casa o una città, ma viaggiano per terra o per mare in regioni molto estese, in qual senso è vero che l'essere con Dio non si muove?".

"Mi fai ridere, motteggiò, quasi avessi detto che sono con Dio le azioni del filosofo.

È con Dio soltanto il contenuto del suo pensiero".

"Allora il filosofo, soggiunsi, non conosce il suo libro, il mantello, la tunica, la suppellettile, se la possiede, e altre cose del genere che anche gli indotti conoscono bene?".

"Ma io ritengo che la conoscenza della tunica e del mantello non è con Dio".

2.5 - L'interiorità e l'essere con Dio del filosofo-saggio

"In definitiva, spiegai, tu vuoi dire che non ogni pensiero del filosofo è con Dio, ma che oggetto del pensiero del filosofo è tutto ciò che del filosofo è con Dio".

"Giusto, rispose; infatti tutto ciò che conosce col senso non è con Dio, ma soltanto ciò che si rappresenta col pensiero.

Forse sarò audace nel mio dire, ma lo dirò egualmente. Con voi quali giudici o contribuirò ad accertare il tema o imparerò.

Ritengo che l'individuo il quale conosce soltanto i sensibili non solo non è con Dio, ma neanche con la propria interiorità".

Mi accorsi che Trigezio aveva un'espressione, dalla quale mostrava di voler dire non saprei che cosa, ma era trattenuto dal timore d'entrare, per così dire, in casa d'altri.

Lo autorizzai, poiché Licenzio aveva finito di parlare, a manifestare il proprio pensiero.

"Sarei d'opinione, disse, che non si ha conoscenza dell'oggetto sensibile. Altro è avere sensazione e altro avere conoscenza.

Pertanto se abbiamo conoscenza di un oggetto, penso che è contenuto del solo pensiero e che soltanto da esso può essere rappresentato.

Ne consegue che se è con Dio l'oggetto che il filosofo conosce mediante pensiero, tutto ciò che il filosofo conosce possa essere con Dio".

Licenzio approvò ed aggiunse un altro motivo che per nessuna ragione potrei riprovare.

"Il filosofo, soggiunse, è con Dio poiché ha coscienza della propria interiorità.

Risulta dal motivo da te espresso che l'essere il quale conosce Dio è con Dio, e dall'altro motivo accertato da noi due risulta che è con Dio l'oggetto di cui il filosofo ha pensiero.

Per la parte poi della sua natura per cui soggiace al sensibile non so nulla e non saprei proprio che cosa pensare.

Ritengo comunque che non va presa in considerazione quando parliamo del filosofo".

2.6 - Senso, pensiero e memoria nel filosofo

"Tu dunque verresti a negare, intervenni io, che il filosofo non solo è composto di anima e di corpo, ma anche dell'anima con tutte le sue funzioni.

Sarebbe infatti da pazzi negare che è dell'anima la parte per cui egli è capace di sensazione.

Non l'udito e la vista sono soggetti senzienti, ma non saprei quale principio è soggetto senziente mediante la vista.

E se non riferiamo la sensazione alla facoltà di pensare, rischiamo d'escluderla dall'anima.

Rimarrebbe d'attribuirla al corpo, ma ritengo che non si dia affermazione più assurda".

"L'anima del filosofo, intervenne Licenzio, resa pura per la presenza della virtù e unita a Dio, è anche degna di essere considerata come filosofante, e non v'è altro di lui che si è convinti di considerare filosofante.

Ma il filosofo si è liberato, per così dire, come di spoglie e di scorie e si è ritirato nella propria interiorità.

Ed esse sono soggette all'anima o, se sono da considerare parti integranti dell'anima, sono soggette e sottomesse a quella parte dell'anima che sola si può considerare come filosofante.

Alla parte soggetta, a mio parere, appartiene anche la memoria.

Difatti il filosofo se ne serve come di uno schiavo, le impartisce ordini e, considerandola sottomessa, le impone i limiti della legge.

E quando essa si serve dei sensi per esigenze proprie e non per quelle del filosofo, non deve osare d'innalzarsi e inorgoglirsi contro chi ha il dominio né usare a caso e senza moderazione di quegli stessi poteri che le competono.

Alla parte più bassa appartengono le cose che sono nel divenire.

E la memoria appunto serve soltanto alle cose mutevoli, anzi fuggevoli.

Il filosofo dunque si unisce a Dio e si sente felice in lui che è immutabile, di cui non si attende l'apparire, non si teme lo scomparire, che è sempre presente per il fatto stesso che è fuori del divenire.

E il filosofo, quieto nella sua interiorità, amministra, per così dire, il peculio del suo schiavo affinché come servo moderato e diligente ne usi bene e lo conservi per l'opportunità".

2.7 - La memoria come rimembranza nella missione del filosofo

Prestai attenzione all'esposizione di Licenzio con meraviglia perché mi ricordai di avere, tempo addietro, esposto brevemente gli stessi concetti alla sua presenza.

Dissi ridendo: "O Licenzio, ringrazia questo tuo schiavo perché se non ti avesse rifornito del suo peculio, ora forse non avresti nulla da darci.

Infatti se la memoria appartiene a quella parte che si lascia dirigere come serva da retta ragione, adesso proprio da essa, credimi, sei stato aiutato a dire quel che hai detto.

Dunque prima di tornare all'ordine, non ti pare che la memoria è indispensabile al filosofo anche per le discipline liberali e professionali?".

"Perché, rispose, gli sarebbe indispensabile la memoria se ha in atto e tiene presenti tutte le sue idee?

Non chiamiamo in aiuto la memoria neanche nella sensazione per l'oggetto che è davanti ai nostri occhi.

Ora il filosofo ha tutto davanti agli occhi interiori della mente, ha cioè visione sempre in atto e immutabile di Dio, nel quale risiede la totalità dell'intelligibile.

Come dunque, scusa, gli è indispensabile la memoria?

A me è stata necessaria per ritenere le parole udite da te perché non sono ancora padrone di un tale servo, ma ora sono io a servirla, ora m'impegno a non servirla e oso talora quasi affermare la mia piena autonomia.

Talvolta riesco anche a dominarla ed essa mi obbedisce e mi fa spesso credere che l'ho vinta.

Ma di nuovo in altre circostanze si ribella ed io giaccio vinto sotto i suoi piedi.

E per questo desidero che tu, quando indaghiamo sul filosofo, non mi chiami in causa".

"Me neanche, risposi. Ma il filosofo può trascurare i suoi amici ovvero, mentre è in questo corpo, in cui tiene legato con la legge della ragione questo suo servo, può trascurare il dovere di aiutare quanti gli è possibile e soprattutto d'insegnare a filosofare?

È l'opera appunto che massimamente da lui ci si aspetta. E quando la compie, per insegnar bene e non apparire un incapace, dispone volta per volta dei pensieri da esporre e trattare con ordine.

E se non li affida alla memoria, è ineluttabile che vadano perduti.

Quindi o affermi che non spettano al filosofo i doveri d'umanità o dovrai ammettere che alcune nozioni dovranno essere ritenute nella memoria del filosofo.

E forse affida al servo parte dei suoi pensamenti, non per una sua esigenza ma perché gli sono indispensabili per i suoi alunni.

E quegli sottomesso, anche a causa dell'autorità ottimamente esercitata dal padrone, custodirà, se non altro per indurre gli ignoranti al filosofare, ciò che comunque il padrone gli ordinerà di tenere in serbo".

"Il filosofo, contestò Licenzio, non gli affiderà nulla perché è sempre fisso in Dio tanto nella solitudine che nel colloquio con gli altri uomini.

Ma lo schiavo ormai bene istruito tiene in serbo qualche elemento da suggerire al padrone che disputa e per render gradito il proprio dovere a lui, giusto padrone, poiché si accorge che vive in virtù del suo potere.

Tuttavia non compie tale funzione con procedimento razionale proprio, ma in forza delle disposizioni di una legge e ragione sovrana".

"Per adesso, conclusi, non ribatto i tuoi ragionamenti perché si deve continuare l'argomento iniziato.

In altra occasione, quando Dio ci concederà un momento propizio, esamineremo i termini di tale problema.

Non è infatti un problema di poco conto da trattarsi in così brevi parole.

3.8 - È in Dio il non pensato? Impossibilità di concettualizzare l'ignoranza. L'ignoranza è il non pensiero

È stato definito che significa essere con Dio. Da me è stato detto che è con Dio l'essere che ne ha conoscenza.

Voi avete aggiunto che vi è anche l'oggetto della conoscenza del filosofo.

Ed in proposito mi pare assurda l'affermazione con cui, senza avvedervene, avete posto in Dio anche l'ignoranza.

Difatti se in Dio sono i contenuti del pensiero del filosofo e questi non può sfuggire all'ignoranza se non la conosce, ne consegue che in Dio v'è un simile limite. Ed è bestemmia a dirlo".

Preoccupati della conclusione se ne stettero un po' in silenzio.

Poi Trigezio disse: "Partecipi al dialogo anche quegli del cui arrivo a questa disputa noi, come penso, ci siamo rallegrati".

"Dio mi aiuti, disse Alipio. Il mio lungo silenzio doveva aspettarsi un simile risultato.

Ma ormai la tregua è rotta. Comunque ora mi sforzerò di rispondere in qualche maniera a questa domanda dopo essermi assicurato in precedenza almeno per il futuro e dopo avere ottenuto da voi che da me esigiate soltanto questa risposta".

"Non conviene, o Alipio, gli dissi, alla tua benevolenza e cortesia rifiutare la tua parola in questa nostra discussione anche perché è richiesta.

Ma ora comincia e dì ciò che hai stabilito. Il resto seguirà nei termini preordinati dalla legge razionale".

"Per giustizia, rispose, dalla legge razionale mi sarei aspettato un trattamento migliore.

Al contrario avete deciso che frattanto io vi sostituisca nell'esporla.

Salvo errore, hai affermato con questa tua dimostrazione che costoro abbiano associata a Dio l'ignoranza con l'affermazione che tutti i contenuti del pensiero del filosofo sono con Dio.

Per ora passo sopra all'interpretazione da darsi a tale affermazione. Piuttosto considera alquanto la tua dimostrazione.

Hai detto: Nell'ipotesi che con Dio sia l'oggetto del pensiero del filosofo e che questi non possa sfuggire all'ignoranza se non la conosce.

Al contrario è evidente che non si può onorare del nome di filosofante l'individuo prima che abbia superato l'ignoranza.

È stato inoltre detto che l'oggetto della conoscenza del filosofo è con Dio.

Dunque, quando uno ha coscienza d'ignoranza al fine di superarla, ancora non è filosofo.

Quando sarà divenuto filosofo, l'ignoranza non deve essere annoverata fra i contenuti del suo pensiero.

E poiché il già pensato dal filosofo è congiunto a Dio, giustamente la privazione di scienza non viene attribuita a Dio".

3.9 "O Alipio, gli dissi, hai risposto con acutezza come al solito, ma alla stregua di chi s'è cacciato nelle difficoltà altrui.

Penso tuttavia che ancora non disdegni di essere come me fra gli ignoranti.

E allora perché non trovare un filosofo che, insegnando e disputando, con umanità ci liberi da tanto male?

Non gli chiederò altro dapprima, come suppongo, se non che mi mostri l'entità, la natura e le proprietà dell'ignoranza.

Su di te non mi pronuncerei tanto facilmente. In quanto a me, essa mi trattiene tanto e da tanto, quanto e da quanto io non riesco a capire.

Tu interpellerai quel filosofo ed egli dirà: "Perché vi potessi insegnare, dovevate venire da me quando ero ancora ignorante.

Ora dovete essere maestri di voi stessi perché non so più che cos'è ignoranza".

Se udissi tali parole, non mi periterei d'avvertire simile individuo a farsi nostro compagno e a cercare insieme un altro maestro.

Anche se non so chiaramente che cos'è ignoranza, comprendo che tale risposta è indice della massima ignoranza.

Ma forse si vergognerà tanto di abbandonarci quanto di seguirci.

Allora comincerà ad esporre e accumulerà in abbondanza i mali dell'ignoranza.

E noi preoccupati per noi stessi, o ascolteremo attentamente un individuo che non sa quel che dice, o crederemo che egli ha scienza di qualche cosa che non è oggetto del suo pensiero, o infine, secondo la dimostrazione dei tuoi patrocinati, che l'ignoranza è congiunta a Dio.

Nessuna delle prime due affermazioni può essere sostenuta. Rimane l'ultima che a voi non piace".

"Non mi sono mai accorto, rispose, che sei invidioso. Se infatti, secondo l'uso, avessi ricevuto da costoro, che tu definisci patrocinati, il dovuto onorario, sarei costretto a renderlo subito poiché tu insisti eccessivamente nel ribattermi.

Quindi si contentino del fatto che discutendo con te ho accordato loro parecchio tempo a riflettere.

Se poi vogliono ascoltare il consiglio del loro avvocato sconfitto senza sua colpa, si arrendano a te anche su questo argomento, e siano più cauti negli altri".

3.10 "Non trascurerò, risposi, il non so che Trigezio, durante la tua arringa, mostrava di voler dire perfino agitandosi.

Cercherò di ascoltarli pazientemente, come avevo cominciato, mentre senza difensore sosterranno la propria causa.

Te ne chiedo licenza poiché tu, che da poco hai preso parte alla discussione, non ne sei informato".

Licenzio era completamente distratto. Intervenne allora Trigezio: "Prendetevela come volete e fatevi pure gioco della mia ignoranza.

Ritengo che non si deve considerar pensiero l'atto con cui si pensa l'ignoranza.

Essa è appunto la sola o per lo meno la più grande responsabile del non pensare".

"Non m'è facile, io risposi, rifiutarmi di prendere in considerazione codesta affermazione.

Mi convince la tesi di Alipio sull'impossibilità che un individuo possa insegnare le proprietà d'un concetto che non è oggetto del suo pensiero.

Infatti quel qualcosa che non è oggetto del suo pensiero è negazione del suo pensare.

Anche Alipio, tenendo presente il motivo, non ha osato esporre la tesi da te sostenuta sebbene gli fosse nota dai libri dei filosofi.

Prendo l'esempio dal senso poiché è strumento dell'anima ed in essa, unico soggetto, ha una certa analogia col pensiero.

Dico dunque che è impossibile vedere le tenebre. Ora il pensare è per l'intelligenza ciò che il vedere per la vista.

Ma è impossibile vedere le tenebre anche se si hanno gli occhi aperti, sani e limpidi.

Quindi non è assurdo dire che l'ignoranza non si può pensare poiché non v'è altro che noi possiamo denominare tenebre dell'intelligenza.

Ed ora non mi preoccupa più la possibilità d'evitare l'ignoranza anche se non è oggetto di pensiero.

Per quanto riguarda la vista, evitiamo le tenebre per il fatto stesso che vogliamo vedere.

Allo stesso modo chi vorrà evitare l'ignoranza non si sforzi di farla oggetto di pensiero, ma si dolga che, per causa sua, non pensa ciò che può pensare e si renda cosciente che essa gli è presente non perché la pensa di più, ma perché pensa di meno.

b) La vita dell'insipiente e altri irrazionali ricondotti a razionalità ( 4,11 - 5,17 )

4.11 - Anche la vita dell'insipiente rientra nella razionalità

Ma torniamo alla razionalità con la speranza che Licenzio torni in mezzo a noi.

Vi chiedo adesso se ritenete che le azioni dell'insipiente siano compiute secondo una legge razionale.

Ma badate che la domanda è insidiosa. Se risponderete affermativamente e cioè che le azioni dello stolto sono compiute secondo razionalità, a che serve la definizione che razionalità è il principio per cui Dio dirige tutti gli esseri?

Se poi non c'è razionalità nelle azioni dello stolto, vi sarà qualche cosa che non rientra nella legge razionale.

Voi non ammettete né l'una né l'altra tesi. State attenti, vi prego, a non irrazionalizzare tutto nel tentativo di difendere la razionalità".

Intervenne ancora Trigezio. L'altro era tuttora distratto.

"È facile, disse, rispondere al tuo dilemma, ma per il momento mi manca la similitudine con cui noto che la mia teoria dovrebbe essere chiaramente esposta.

Dirò egualmente il mio pensiero. Tu in seguito completerai come hai fatto dianzi.

L'analogia delle tenebre ci ha chiarito non poco quanto era stato da me esposto in forma confusa.

La vita degli insipienti non è resa coerente e razionalizzata da loro stessi.

Tuttavia dalla divina provvidenza viene fatta rientrare nell'inderogabile ragione sufficiente e, per così dire, mediante disposizione di determinate situazioni dovute a una legge ineffabile ed eterna, in nessuna maniera le si permette di essere dove non deve essere.

Avviene così che chi unilateralmente la considera isolata, come respinto da una visione orrida, ne ha ribrezzo.

Ma se, alzando gli occhi e facendoli spaziare, ha uno sguardo d'insieme dell'universo, troverà tutto razionale, distribuito e ordinato al dovuto posto".

4.12 - Altri irrazionali della vita

"Quante grandezze, dissi, quante meraviglie Dio e la stessa, non saprei quale, occulta legge razionale dell'universo mi manifesta per vostro mezzo!

Sono indotto ormai a credervi sempre di più. Esprimete infatti certi pensieri ed io non saprei proprio come possiate esprimerli senza intuizione né come possiate averne intuizione, tanto, come suppongo, sono veri e sublimi.

Tu richiedevi, mi pare, una similitudine in prova di codesta tua teoria.

Me ne vengono in mente molte che mi convincono ad accettarla.

Che cosa v'è di più cupo di un carnefice? Che cosa di più truce ed efferato della sua mentalità?

Tuttavia ha un posto indispensabile fra le leggi e rientra nell'ordinamento di uno Stato ben governato.

E sebbene nel proprio animo faccia del male, è tuttavia la pena dei malfattori per ordinamento a lui estraneo.

Che cosa di più sconcio, di più vuoto di dignità, di più colmo d'oscenità delle meretrici, dei ruffiani e simile genia?

Eppure togli via le meretrici dalla vita umana e guasterai tutto col malcostume.

Mettile al posto delle donne oneste e disonorerai tutto con la colpa e la vergogna.

E così tale genia di persone, a causa dei propri costumi, è la più laida nella vita, per disposizione di legge la più bassa di condizione.

Non avviene che se consideri a parte certi organi nel corpo degli animali, ti rifiuti quasi di guardarli?

Tuttavia la legge naturale ha disposto che non manchino perché sono necessari, ma non ha permesso che apparissero di troppo perché non soli belli a vedersi.

E queste parti deformi, occupando il posto competente, hanno lasciato il migliore alle parti più degne.

Quale fenomeno più bello, quale spettacolo più conveniente alla vita in campagna fu per noi di quello della zuffa e della lotta dei galli?

Ne abbiamo parlato nel primo libro. E che cosa abbiamo osservato di più avvilito della difformità del vinto?

Ma per suo mezzo s'era ottenuta la perfetta armonia della zuffa stessa.

4.13 - Significato dell'irrazionale nel discorso

Così sono tutte le cose, a mio avviso. Bisogna saperle osservare.

I poeti hanno usato solecismi e barbarismi e hanno preferito, cambiando i nomi, denominarli figure e trasformazioni anziché evitarli come difetti evidenti.

Tuttavia levali dalla poesia e noi risentiremmo della mancanza di suggestive eleganze.

Imbastiscine in abbondanza in un solo discorso ed io avrò in uggia l'intera composizione perché immatura, frivola e affettata.

Trasportali nella prosa forense e chi non le ordinerà di fuggire e di rifugiarsi in teatro?

La legge razionale, che ne regola e modera l'uso, non ne permette né la ridondanza in sé né l'impiego in qualsiasi discorso.

Un certo linguaggio dimesso e vicino al trasandato, avvicendandosi, pone in evidenza le espressioni sublimi e i passi leggiadri.

Se è soltanto dimesso, lo butti via perché trascurato.

Se manca, le parti belle non sono poste in evidenza, non signoreggiano, per così dire, nei rispettivi posti e competenze, si contrastano a vicenda col proprio splendore e rendono l'insieme disarmonico.

All'armonia si è debitori in un altro punto.

Chi non teme, chi non detesta i paralogismi e sofismi che per eccesso o per difetto inducono all'errore?

Ma, durante le dispute, collocati nei posti convenienti e propri hanno tanta validità che, non so come, l'inganno stesso ne assume leggiadria.

Ed anche qui è l'ordine che si fa ammirare.

5.14 - Dall'insipienza si emerge con le discipline …

Nella musica poi, nella geometria, nell'astronomia, nelle leggi aritmetiche l'armonia è sovrana.

E se qualcuno ne vuol vedere, per così dire, la sorgente e il recesso o li trova in esse o, mediante esse, senza errore v'è condotto.

Tale cultura, se si usa nella giusta misura, poiché anche qui il troppo si deve evitare, nutrisce un gregario, anzi un condottiero del filosofare.

Ed egli potrà elevarsi liberamente e giungere alla misura ideale, al di là della quale non può, non deve, non desidera ricercare altro.

E a molti farà da guida. Quindi, anche se è preso dalle preoccupazioni della vita, le disprezza e dà ad ogni cosa il giusto posto e non lo turba affatto se uno desidera aver figli e non li ha, mentre un altro è preoccupato dalla eccessiva fecondità della moglie; se manca di denaro chi è pronto a dare con liberalità, mentre l'usuraio lo sotterra e vi dorme sopra macilento e cupo; se il libertinaggio dissipa e scialacqua ingenti patrimoni, mentre il poverello riesce appena ad ottenere una moneta dopo aver supplicato tutto il giorno; se la fama esalta un individuo indegno, mentre gli onesti costumi si perdono nella massa.

5.15 - … ovvero mediante la fede

Questi e altri fatti nella vita umana spingono spesso gli uomini a credere empiamente che noi non siamo governati dalla legge della divina provvidenza.

Al contrario gli uomini religiosi, onesti e veramente intelligenti non possono convincersi che noi siamo abbandonati dal sommo Dio.

Tuttavia turbati dalla foschia, per così dire, e dalla disarmonia del mondo, non riescono a intuirne l'armonia, ma nel tentativo di scoprirne l'occulta ragione sufficiente, lamentano spesso anche con carmi i propri errori.

Ma chi potrebbe dare una risposta a coloro che chiedessero perché gli italiani invochino inverni sereni3 mentre la nostra povera Getulia è in continua siccità?

E come nel nostro pensiero si potrà ricercare una pur vaga ragione di un tale ordine di cose?

Io, se posso dare un consiglio ai miei secondo il mio pensiero e il mio sentimento, ritengo che essi devono essere formati alla pienezza del sapere.

Altrimenti è assolutamente impossibile che si abbia vera intelligenza del problema.

Eppure potrebbe essere più luminoso del giorno.

Ma se sono piuttosto pigri o presi dagli affari o duri ad apprendere, si accaparrino la difesa della fede affinché colui che non permette la rovina di chi esprime bene la fede nella pratica religiosa, mediante questo legame, li tragga a sé e li liberi da questi mali temibili e oscuri.

5.16 - Ragione e fede in ordine a Dio …

Duplice è la via che seguiamo quando ci pone nel dubbio l'oscurità dell'oggetto: la ragione e la fede.

La filosofia garantisce la ragione ma ne libera pochi assai.

Tuttavia essa non solo non li induce a disdegnare le verità rivelate, ma è sola a farcene formulare, nei limiti consentiti, il puro pensiero.

E la vera e genuina filosofia ha l'esclusiva funzione d'insegnare l'esistenza d'un Principio imprincipiato del mondo, l'immensità dell'intelligenza che in lui esiste e il valore che da lui dimana alla nostra salvezza senza che egli si ponga nel divenire.

E le verità rivelate aggiungono che egli è un solo Dio onnipotente ed insieme tripotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.

Esse mediante la fede sincera liberano dall'errore tutti gli uomini senza confondersi con le verità razionali, come alcuni dicono, ma anche senza dissidio, come molti vorrebbero.

Grande è poi il mistero che un Dio così alto ha voluto rivestire e portare per noi la forma sensibile della natura umana.

Ed esso, quanto più appare umiliante, tanto più è conveniente alla sua bontà e profondamente lontano dall'orgoglio di certi uomini d'ingegno.

5.17 - … e all'anima

E si ha, a vostro avviso, grande ragione d'indagare i problemi dell'origine dell'anima, della sua unione col corpo, dei gradi che la separano da Dio, delle funzioni che esercita nel composto umano, delle proprietà che cesseranno con la morte, delle prove della sua immortalità?

Se ne ha una grande e vera ragione. Ne parleremo in seguito se ci sarà tempo.

Per il momento sappiate, è mio desiderio, che se qualcuno, senza criterio e senza metodo garantito da scienza, osa irrompere nello studio di tali argomenti, diviene non studioso ma curioso, non dotto ma credulone, non critico ma incredulo.

E per questo mi meraviglio da dove derivino i concetti con cui voi dianzi avete risposto tanto bene e con tanta proprietà alle mie domande.

Sono costretto comunque a darvene atto. Ma vediamo fin dove può giungere questa vostra nascosta capacità d'intuizione.

Ed ormai ci si faccia sentire anche la voce di Licenzio. Preso da qualche pensiero, non saprei quale, è stato estraneo a questo discorso sicché penso che, come i nostri amici assenti, dovrà leggere le nostre parole.

Ma torna a noi, o Licenzio, e procura di prestare tutta l'attenzione; dico a te.

Tu infatti hai approvato la mia definizione con la quale si stabilì che cosa significa essere con Dio.

E mi hai voluto insegnare, per quanto riesco a capirne, che la mente del filosofo rimane immobile in lui.

c) Sintesi: i due contrari nella legge razionale eterna come giustizia e provvidenza ( 6,18 - 8,25 )

6.18 - Il filosofo fra soggezione alla sensibilità e dominio razionale

È assurdo affermare che finché il sapiente vive fra gli uomini non soggiace al suo corpo.

Ma mi rende dubbioso la possibilità che, mentre il suo corpo si sposta da un luogo a un altro, la mente rimane immobile.

Allora si potrebbe anche affermare che, muovendosi la nave, non si muovono gli uomini che stanno a bordo sebbene dobbiamo ammettere che essa è da loro dominata e guidata.

Ed anche se la muovessero e guidassero alla meta col solo pensiero, tuttavia coloro che sono a bordo non possono non esser mossi col muoversi della nave".

"Lo spirito, obiettò Licenzio, non è nel corpo in condizioni tali che il corpo lo domini".

"Ma io non dico questo, risposi; anche chi cavalca è sopra il cavallo senza che il cavallo lo domini, tuttavia, sebbene diriga il cavallo alla meta voluta, è indispensabile che si muova col muoversi del cavallo".

"Ma può sedere immobile", ribatté. "Ci costringi, dissi, a definire che cosa sia l'essere mosso.

Se ti è possibile, desidero che tu stesso lo faccia". "Ti prego, mi rispose, continui la tua munificienza perché continua la mia petizione.

E non domandar più se sono disposto a definire. Se lo potrò fare, lo farò spontaneamente".

Dopo queste parole, il servitorello della casa, cui avevamo affidato l'incarico, venne da noi e ci avvertì che era ora di pranzo.

Dissi: "Questo servitorello non c'induce a definire che cos'è il muoversi, ma a chiarircelo attraverso la vista.

Andiamo dunque e passiamo da questo luogo a un altro luogo.

Salvo errore il muoversi è proprio questo". Essi sorrisero e ce ne andammo.

6.19 - Il filosofo-saggio eticamente è nella razionalità

Appena refocillati ci sedemmo al luogo solito nelle terme poiché il cielo s'era coperto di nubi.

Cominciai: "Ammetti dunque, o Licenzio, che il movimento non è altro che il passaggio da un luogo ad un altro?". "Si", mi rispose.

"Ammetti, ripresi, che non ci si può trovare in un luogo in cui non ci si trovava senza essersi mosso".

"Non capisco", disse. "Ammetti, spiegai, che se un oggetto precedentemente era in un luogo e adesso è in un altro, è stato mosso?". Fece cenno d'assenso.

"Dunque, soggiunsi, il corpo vivo del sapiente potrebbe essere ora qui con noi e lo spirito esserne lontano?". "Certamente", rispose.

"Anche se, replicai, parlasse con noi e ci insegnasse?".

"Anche se, rispose, ci insegnasse a filosofare, non direi che è con noi, ma con la propria interiorità".

"Non col corpo dunque?" chiesi. "No", mi rispose.

"Ma non ammetti, gli obiettai, che il corpo privo dello spirito è morto? Io ho parlato d'un corpo vivo".

"Non so spiegarmelo, rispose. Comprendo che il corpo dell'uomo non può esser vivo se in esso non esiste lo spirito.

D'altra parte non posso affermare che lo spirito del filosofo non è con Dio dovunque ne sia il corpo".

"Ed io, gli dissi, farò in maniera che te lo spieghi. Poiché Dio, secondo probabilità, è in ogni luogo, dovunque il sapiente vada, trova Dio con cui essere.

Ci si rende possibile quindi affermare che egli passa da un luogo a un altro, che è un divenire, e che mantiene l'essere con Dio".

"Ammetto, rispose, il passaggio da un luogo a un altro per il suo corpo, ma lo nego per quella coscienza cui corrisponde l'appellativo di filosofante".

7.20 - L'insipiente è nella razionalità per necessità metafisica

"Per adesso, dissi, accetto. Il problema molto oscuro e da trattarsi a lungo e con molta diligenza potrebbe in questo momento impedire il risultato propostoci.

È stato già stabilito che cosa significa essere con Dio. Esaminiamo ora, se riusciamo a comprenderlo, che cosa significa essere senza Dio.

Suppongo tuttavia che sia già evidente. Infatti sei d'opinione, come penso, che siano senza Dio coloro che non sono con Dio".

"Se non mi mancassero le parole, rispose, esprimerci pensieri che forse non dovresti riprovare.

Ma ti chiedo di sopportare la mia immaturità e di cogliere i concetti con vivace intuizione da pari tuo.

Ritengo che costoro non sono con Dio, ma che Dio li rende partecipi di sé.

Non posso quindi dire che sono senza Dio coloro che Dio rende di sé partecipi.

Tuttavia non dico che sono con Dio perché essi non partecipano di Dio.

E già in una precedente discussione, quella assai piacevole che avemmo nel tuo genetliaco, decidemmo che avere Dio in sé significa goderlo.

Ma ho timore, lo confesso, dell'antitesi del non essere senza Dio e del non essere con Dio".

7.21 - Le distrazioni di Licenzio

"Non aver timore, dissi. Se si va d'accordo sul concetto, non teniamo conto della terminologia.

Ritorniamo quindi alfine alla definizione di razionalità.

Hai detto che razionalità è il principio secondo cui Dio muove il mondo al fine.

Ora, come opino, Dio muove tutto al fine e per questo hai ritenuto che niente può esistere fuori dell'ordinamento".

"È sempre quella la mia opinione, rispose. Ed ora so che mi chiederai se Dio governa anche le cose che, come dobbiamo ammettere, non sono ben governate".

"Ottimamente, dissi. Hai proprio visto il mio pensiero. Ma come hai intuito la mia domanda, ti prego d'intuire la risposta conveniente".

Ed egli scuotendo la testa e le spalle, disse: "Siamo al difficile".

Per caso mia madre era sopraggiunta proprio durante la mia domanda.

Ed egli, dopo un po' di silenzio, chiese che gli venisse riproposta.

Non s'era accorto affatto che la risposta era già stata data da Trigezio.

Gli dissi: "Che cosa e perché dovrei riproporre? Dicono gli scrittori: Non fare il già fatto.4

Ti prego piuttosto che ti prenda pensiero di leggere se non hai potuto udire.

Ho permesso volentieri l'assenza del tuo pensiero dalla nostra disputa e ho sopportato che così ti comportassi per non impedire i pensieri che, concentrato in te e distratto per noi, tu rimuginavi per tuo conto.

Frattanto abbiamo continuato la discussione che il nostro stilo non ti permette di perdere.

7.22 - Licenzio non comprende che la giustizia come misura di distribuzione è sempre stata in Dio …

Ora propongo l'indagine su un argomento che non abbiamo ancora provato a sottoporre a un'attenta analisi.

Al principio, quando non saprei quale ordine ci ha proposto il problema dell'ordine, tu hai detto, per quanto ricordo, che la giustizia divina è l'attributo con cui egli distingue i buoni dai malvagi e distribuisce a ciascuno il suo.

È, per quanto ne penso io, la più evidente definizione della giustizia.

Ora vorrei che tu risponda se vi fu un tempo in cui Dio non sia stato giusto". "Sempre", rispose.

"Se dunque Dio è stato sempre giusto, sempre sono esistiti il bene e il male".

"A mio avviso, intervenne mia madre, è una conseguenza ineluttabile.

Non s'è dato infatti atto della divina giustizia finché non è esistito il male.

E non si può ritenere che sia giusto se non distribuisce ai buoni e ai malvagi quanto loro spetta".

Le obiettò Licenzio: "Pensi dunque debba dirsi che sempre v'è stato il male".

"Non intendo dir questo", si scusò lei.

"Dunque, intervenni, nell'ipotesi che Dio sia giusto perché giudica fra buoni e malvagi, dovremmo forse dire che quando non v'era il male, non sia stato giusto?". Tutti tacquero.

Ma mi accorsi che Trigezio voleva rispondere. Glielo permisi.

Disse: "Dio era certamente giusto. Aveva potere di distinguere fra il bene e il male, se fossero esistiti, e in questo suo potere era giusto.

Noi infatti diciamo che Cicerone con prudenza svelò la congiura di Catilina, con temperanza non si lasciò corrompere da doni per risparmiare i malvagi, con giustizia li fece condannare a morte mediante decreto del senato, con fortezza sopportò le frecce dei nemici e, come egli stesso ha detto, il peso dell'invidia.5

Ma non intendiamo dire che in lui non vi fossero tali virtù se Catilina non avesse preparato tanta rovina allo Stato.

La virtù va considerata in se stessa e non tanto in una sua eventuale manifestazione, sia nell'uomo e a più forte ragione in Dio, se ci è permesso, data la limitatezza dei concetti e delle parole, congiungere i due termini.

Infatti per farci comprendere che è stato sempre giusto, Dio non differì a distribuire a ciascuno il suo quando si verificò il male da distinguersi dal bene.

Non dové infatti apprendere la giustizia ma usarla giacché sempre l'ha avuta".

7.23 - … ma il male non ha origine dal razionale ed è quindi irrazionale e irreale

Licenzio e mia madre, afferrata l'evidenza, approvarono. "Che ne dici, o Licenzio? dissi io.

Dov'è andata a finire la tua insistente affermazione che niente avviene fuori dell'ordine?

Il fatto dell'origine del male non è derivato dall'ordinamento di Dio, ma essendosi verificato è stato incluso nell'ordinamento divino".

Egli si meravigliò e mal sopportò che la sua buona causa gli fosse tolta di mano così all'improvviso.

"Ma io dico, ribatté, che l'ordinamento è cominciato dal momento in cui è cominciato ad esistere il male".

"Dunque, gli risposi, l'inizio dell'esistenza del male non fu prodotto da una ragione sufficiente, ma dopo che il male ebbe inizio, cominciò ad esisterne la ragione sufficiente.

[ La ragione sufficiente fu sempre in Dio. Inoltre quel nulla che si denomina il male o è sempre esistito o si suppone che sia cominciato nel tempo.

In tale ipotesi, poiché la ragione sufficiente è bene e deriva dal bene, non v'è mai stato né vi sarà nel futuro un essere che sia senza ragione sufficiente.

M'era venuto in mente non saprei quale altro pensiero più opportuno, ma m'è sfuggito a causa della solita smemoratezza.

E penso che è avvenuto con ragione sufficiente a norma del merito, della dignità e della disciplina della mia vita" ].

"Non so, disse Licenzio, come mi sia potuta sfuggire la teoria che ora rifiuto.

Non avrei dovuto dire che la ragione sufficiente ha avuto inizio dopo l'origine del male, ma che la ragione sufficiente come la giustizia, di cui ha parlato Trigezio, fu sempre in Dio ma non fu applicata se non dopo l'origine del male".

"E ci ricaschi, gli obiettai. Il principio che non vuoi accettare rimane inconcusso.

Infatti sia che la ragione fu in Dio sia che cominciò ad essere da quel momento del tempo in cui ebbe origine il male, il male ha avuto comunque origine fuori della legge razionale.

Se lo concedi, devi ammettere che qualche cosa può avvenire fuori della ragione sufficiente, e questo indebolisce e invalida la tua tesi.

Se non lo concedi, si prospetta l'opinione che il male abbia avuto origine dalla provvidenza di Dio e dovrai ammettere che Dio è autore del male. Non mi sovviene bestemmia più esecranda".

Spiegai e dilucidai più volte il concetto poiché non capiva o fingeva di non capire.

Ma egli non aggiunse altro e se ne stette zitto.

Intervenne mia madre: "Io penso che nulla può avvenire fuori dell'ordinamento divino.

Il male stesso, in quanto all'origine, l'ha avuta fuori dell'ordinamento divino, ma la giustizia divina non ha lasciato che rimanesse fuori dell'ordinamento e l'ha ricondotto e costretto a rientrare nella legge che gli è competente".

7.24 - La razionalità induce ad acquisizione di scienza

A questo punto osservai che tutti, con molto ardore e secondo le proprie capacità, si proponevano problemi su Dio, ma senza rispettare l'ordine di cui stavamo trattando.

Eppure soltanto mediante esso si giunge alla conoscenza di quella ineffabile maestà.

"Vi prego, dissi, di non essere confusionari e disordinati se, come osservo, amate molto l'ordine.

L'ineffabile ragione delle cose promette di farci comprendere che nulla avviene fuori della legge razionale.

Se ascoltassimo un insegnante elementare che tenta d'insegnare le sillabe a un fanciullo a cui nessuno ha insegnato le lettere, penseremmo che non solo si deve schernire come stolto, ma anche legare perché matto furioso.

E l'unico motivo, come penso, sarebbe che non rispetta la norma dell'insegnamento.

Ma gli ignoranti fanno delle cose biasimate e schernite dai dotti; gli imbecilli poi ne fanno di tali che non possono sfuggire neanche alla condanna degli ignoranti.

In proposito non c'è dubbio. Tuttavia anche tali fatti, che riconosciamo come irrazionali, non sono fuori della ragione sufficiente.

Un'altissima disciplina promette di far comprendere tale verità agli spiriti coscienti di sé e che amano soltanto Dio e lo spirito, e in maniera che le addizioni numerali non potrebbero essere più certe.

La massa non ne ha neppure un vago indizio.

8.25 - Educazione morale e civile dei giovani

Questa disciplina è la stessa legge di Dio che in lui rimane immutabile e inderogabile.

Essa tuttavia è, per così dire, trascritta nelle anime filosofanti in maniera che esse sanno di vivere tanto meglio e tanto più dignitosamente quanto più perfettamente la meditano con l'intelligenza e quanto più diligentemente l'osservano nella vita.

Questa disciplina propone quindi a coloro che vi si applicano un duplice procedimento da seguire, quello della pratica e quello della cultura.

I giovanetti che vi si applicano devono vivere in maniera da astenersi dalla libidine, dalle lusinghe del ventre e della gola, dall'esagerata cura e ornamento della persona, dalle frivole occupazioni nei giuochi, dal torpore dell'accidia e della pigrizia, dall'emulazione, maldicenza e invidia, dall'ambizione agli onori e ai poteri e perfino dal desiderio smoderato della fama.

Siano convinti che l'amore al denaro è sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione.

Non agiscano né da codardi né da temerari. Nei confronti delle colpe dei soggetti cerchino di superare l'ira o la frenino in maniera da poterla considerare superata.

Non portino odio ad alcuno. Trovino rimedio ad ogni vizio.

Si guardino, nell'usare la sanzione, da ogni eccesso e, nel perdonare, da ogni difetto.

Non puniscano se non giova al meglio, non siano indulgenti se può volgere al peggio.

Considerino come famigliari coloro su cui è dato loro il potere.

Considerino di essere a loro servizio in maniera di vergognarsi di aver potere su di loro ed usino il potere in maniera d'aver piacere di servirli.

Nei torti ricevuti da estranei non siano molesti a chi non li riconosce.

Evitino con molta circospezione gli odi, li tollerino con molta liberalità, li facciano cessare quanto prima è possibile.

In ogni rapporto e relazione con le persone basta tener presente il detto popolare: Non facciano ad altri ciò che non vogliono sopportare.

Non entrino nell'amministrazione dello Stato se non hanno raggiunto la piena formazione e si adoperino per raggiungerla nell'età in cui possono esser senatori o meglio in gioventù.

E se qualcuno ha avuto una vocazione tardiva, non s'illuda che questi consigli non lo riguardano poiché li osserverà più facilmente in età avanzata.

In ogni genere di vita, luogo e tempo abbiano degli amici o si adoperino per averli.

Rendano omaggio ai degni anche se non lo sollecitano. Non si preoccupino dei superbi e non lo siano.

Vivano nei limiti della possibilità e convenienza. Onorino, meditino e cerchino Dio fondati sulla fede, la speranza e la carità.

Procurino la serenità e un effettivo svolgimento del proprio impegno e di quello degli amici e, per sé e per quanti possono, coscienza tranquilla e vita serena.

Indice

3 Virgilio, Georg. 1, 100
4 Terenzio, Phormio, 419
5 Cicerone, In Cat. 1, 9, 23