La vera religione |
Così rinasce l'uomo interiore ( 2 Cor 4,16 ) mentre l'uomo esteriore si corrompe di giorno in giorno.
Ma l'interiore guarda l'esteriore e lo trova deforme rispetto a se stesso; eppure lo vede bello nel suo genere, lieto per l'armonia che è propria dei corpi e capace di consumare ciò che trasforma a suo beneficio, cioè gli alimenti della carne.
Questi, una volta che sono stati consumati, cioè che hanno perduta la propria forma, vanno a costituire la materia di cui sono fatte queste membra e ricostituiscono ciò che è stato disgregato, assumendo altre forme ad esse assimilabili.
Mediante l'impulso vitale quindi sono in qualche modo selezionati, così che quelli tra essi che sono adatti vengono assunti nella struttura della nostra bellezza visibile, quelli che non lo sono invece sono espulsi attraverso le opportune vie.
Di questi ultimi alcuni vengono restituiti alla terra come escremento per assumere altre forme, altri fuoriescono per tutto il corpo, altri ancora accolgono in sé gli ordini temporali latenti di tutto l'essere vivente, preparandosi alla procreazione, e, quando sono stimolati o dall'unione di due corpi o dall'immagine di tale unione, defluiscono dalla sommità della testa attraverso gli organi genitali, in un basso piacere.
Nella madre poi, secondo un ordine temporale ben determinato, essi vengono predisposti in un ordine spaziale, di modo che tutte le membra occupino il loro posto.
E se queste hanno mantenuto la giusta proporzione, una volta aggiunto lo splendore del colore, nasce il corpo che si dice ben formato e che è amato intensamente da coloro che lo hanno a caro.
E tuttavia in esso ciò che piace di più non è la bellezza che viene animata, ma la vita che la anima.
Infatti questo essere vivente, se ci ama, ci attira a se con più forza; se invece ci odia, ci adiriamo e non riusciamo a sopportarlo, anche se ci offre la sua stessa bellezza per goderne.
È qui che regna il piacere, e la bellezza più bassa, perché è soggetta a corruzione; se così non fosse, sarebbe ritenuta somma.
40.75 Ma interviene la divina Provvidenza per mostrare che tale bellezza non è di per sé un male, perché sono ben evidenti in essa le tracce delle supreme armonie in cui si manifesta la sapienza infinita di Dio; ma anche per mostrare, col mescolarvi dolori, malattie, deformazioni di membra, pallori, gelosie e discordie tra gli animi, che si tratta di una bellezza infima, in modo che siamo ammoniti a cercare ciò che non muta.
Realizza tutto ciò tramite quegli infimi servitori che provano piacere a farlo, che le Sacre Scritture chiamano angeli sterminatori ed angeli dell'ira, ( 1 Cor 10,10; Ap 15,7 ) i quali provano piacere a farlo, benché non sappiano quale beneficio ne derivi.
Ad essi sono simili quegli uomini che godono delle disgrazie altrui e che si procurano o cercano di procurarsi motivi di riso o divertenti spettacoli con le sciagure e gli errori altrui.
Per i buoni tutto ciò serve di ammonimento e di prova e così essi vincono, trionfano, regnano; i malvagi invece sono ingannati, tormentati, vinti, condannati e costretti a servire non l'unico sommo Signore di tutte le cose, ma gli ultimi suoi servi, ossia quegli angeli che si nutrono dei dolori e della miseria dei dannati e, a causa della loro malvagità, si affliggono per la liberazione dei buoni.
40.76 Così tutti, secondo i rispettivi ruoli e fini, sono ordinati in rapporto alla bellezza dell'universo in modo che quanto, considerato per se stesso, ci fa orrore, se considerato nell'insieme, invece ci piace moltissimo.
Pertanto, nel giudicare un edificio non dobbiamo limitarci a considerare un angolo soltanto, né in un uomo bello i soli capelli, né in un buon oratore il solo movimento delle dita né nel corso della luna le fasi di tre giorni soltanto.
Queste cose infatti, che sono infime perché composte di parti imperfette, sono invece perfette nell'insieme: la loro bellezza può essere percepita sia in quiete sia in movimento; tuttavia bisogna considerarle nell'insieme, se si vuole giudicarle in modo corretto.
Il nostro giudizio vero, infatti, è bello sia che riguardi l'insieme sia una sua parte: in quanto è conforme alla verità, con esso trascendiamo il mondo intero e non restiamo legati a nessuna delle sue parti.
Il nostro errore invece è brutto di per sé, in quanto ci fa aderire ad una sua parte.
Ma come il colore nero in un dipinto diviene bello in rapporto all'insieme, così l'agone della vita nel suo insieme si rivela accettabile perché l'immutabile divina Provvidenza assegna un ruolo ai vinti, un altro a chi lotta, un altro ancora ai vincitori e uno agli spettatori, un ultimo infine ai pacifici che contemplano solo Dio.
In tutti costoro infatti non vi è altro male che il peccato e la pena del peccato, ossia il distacco volontario dalla più alta essenza e l'affanno involontario in quella più bassa o, per dirla in altri termini, l'affrancamento in virtù della giustizia, la servitù in conseguenza del peccato. ( Rm 6,20 )
L'uomo esteriore viene meno o per i progressi di quello interiore o per proprio difetto.
Nel primo caso lo fa in modo da migliorare l'insieme che viene ricostituito nella sua totalità e da essere restituito, al suono dell'ultima tromba, ( 1 Cor 15,52 ) alla sua originaria integrità, per non più né corrompersi né corrompere.
Nel secondo caso invece precipita in mezzo alle bellezze più corruttibili, cioè nell'ordine delle pene.
Non meravigliamoci che le chiami ancora "bellezze"; infatti non vi è nulla che, in quanto rientra nell'ordine, non sia bello, perché, come dice l'Apostolo, ogni ordine viene da Dio. ( Rm 13,1 )
Bisogna riconoscere che un uomo che piange è migliore di un vermiciattolo felice; pur tuttavia con animo sincero potrei tessere un ampio elogio del vermiciattolo, considerando lo splendore del suo colore, la forma ben tornita del corpo, la proporzione fra le parti anteriori e quelle mediane e fra queste e quelle posteriori, la tendenza all'unità che esse conservano, pur nell'umiltà della loro natura: non c'è nessuna parte nel vermiciattolo che non trovi piena corrispondenza nell'altra.
Che dire poi del principio vitale che anima il modo di modularsi del suo corpo, di come lo fa muovere ritmicamente, di come gli fa ricercare ciò che gli è confacente, di come gli fa superare o prevenire, per quanto può, ciò che gli si oppone e di come, riportando tutto al solo istinto di conservazione, lascia intravedere, in maniera molto più evidente del corpo, quell'unità che fa essere tutte le cose?
Eppure parlo di un qualsiasi vermiciattolo vivo.
Molti hanno pronunciato le lodi della cenere e dello sterco in modo ampio e con grande verità.2
Perché allora meravigliarsi se dico che l'anima dell'uomo, migliore di ogni corpo, dovunque sia e come che sia, appartiene all'ordine delle bellezze e che dalle sue pene scaturiscono altre bellezze, pur trovandosi, nella sua miseria, dove conviene che stiano i miseri anziché i beati?
41.78 Non lasciamoci ingannare da nessuno.
Tutto ciò che è giustamente oggetto di disprezzo viene rifiutato in confronto a ciò che è migliore.
Ogni natura, per quanto ultima o infima, è a buon diritto degna di lode in confronto al nulla.
Ed allora nessuno è bene, se può essere migliore.
Perciò per noi, se può essere bene rimanere con la verità stessa, è male rimanere con una sua traccia qualsiasi e, dunque, ancora peggio, con ciò che resta di una traccia, come avviene quando ci attacchiamo al piaceri della carne.
Cerchiamo di vincere quindi sia le lusinghe che le molestie di questa cupidigia: sottomettiamo questa dimensione effeminata, se siamo uomini.
Se siamo noi a comandare, anch'essa diventerà migliore e non si chiamerà più cupidigia, ma temperanza; se invece è essa a comandare e noi le andiamo dietro, si chiamerà cupidigia e libidine e noi non saremo altro che temerità e stoltezza.
Seguiamo Cristo, nostro capo, affinché anch'essa venga dietro a noi, che le siamo guida. ( 1 Cor 11,3; Ef 5,23 )
Quanto detto si può prescrivere anche alle donne, non per diritto coniugale, ma per diritto di fraternità, in base al quale in Cristo non siamo né maschio né femmina. ( Gal 3,28 )
Anch'esse infatti hanno qualcosa di virile per sottomettere i piaceri da femmina, per servire Cristo e dominare la cupidigia.
Nell'economia del popolo cristiano ciò del resto avviene gia non solo in molte vedove e vergini consacrate a Dio, ma anche in molte donne sposate che adempiono ai doveri coniugali con fraterna disponibilità.
Poiché, se di quella parte sulla quale Dio ci prescrive di avere il dominio esortandoci e aiutandoci a tornare in possesso di noi stessi, per negligenza ed empietà l'uomo, cioè la mente e la ragione, diventerà suddito, egli sarà certamente un uomo turpe e infelice.
Ma in questa vita egli ha un destino e, dopo questa vita, un posto là dove il supremo Reggitore e Signore ritiene giusto destinarlo e collocarlo.
Perciò, nessuna deformità può macchiare il creato nel suo insieme.
Camminiamo dunque, mentre è per noi il giorno, ( Gv 12,35 ) cioè fino a che possiamo servirci della ragione, in modo che, rivolti a Dio, ci rendiamo degni di essere illuminati dal suo Verbo, che è la vera luce, e di non essere mai avvolti dalle tenebre. ( Gv 12,35 )
Il giorno infatti è per noi la presenza di quella luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. ( Gv 1,9 )
"Uomo" è detto, perché può valersi della ragione e, dove è caduto, lì può appoggiarsi per rialzarsi.
Se dunque si ama il piacere della carne, vi si presti maggiore attenzione e, quando si siano riconosciute in esso le tracce di alcune armonie, si ricerchi dove si trovino nella loro forma originaria, perché lì è maggiore il grado di unità del loro essere.
E se tali tracce sono presenti nello stesso impulso vitale, che agisce nel semi, è lì che vanno ammirate più che nel corpo.
Qualora, infatti, i ritmi vitali dei semi avessero un'espansione simile a quella dei semi stessi, da mezzo granello di fico nascerebbe mezzo albero di fico e da semi animali non integri nascerebbero animali non integri e completi e un solo e piccolissimo seme non avrebbe l'illimitata forza riproduttiva propria della sua specie.
Da un solo seme invece, secondo la sua natura, si possono propagare, attraverso secoli, messi di messi, selve di selve, greggi di greggi, popoli di popoli, senza che vi sia, in una così ordinata successione, una foglia o un pelo la cui ragion d'essere non sia stata in quel primo ed unico seme.
Si considerino poi le ordinate e soavi bellezze di suoni che l'aria trasmette quando vibra al canto dell'usignolo: di certo l'anima di quell'uccellino non potrebbe crearle spontaneamente a suo piacimento, se non le portasse impresse, in un modo non materiale, nel suo impulso vitale.
Quanto detto si può riscontrare anche negli altri animali i quali, seppur privi di ragione, tuttavia non lo sono dei sensi.
Tra loro infatti non vi è nessuno che, o nel suono della voce o in altro movimento e azione delle membra, non produca qualcosa di armonico e di misurato nel suo genere, non per effetto di qualche scienza, ma per un ordine intrinseco alla sua natura, regolato da quell'immutabile legge dell'armonia.
Ritorniamo a noi e lasciamo da parte quel che abbiamo in comune con le piante e gli animali.
La rondine infatti nidifica in un solo modo e cosi pure ciascuna specie di uccelli.
Che c'è dunque in noi che, a proposito di tutte queste cose, ci consente di giudicare a quali forme mirino e fino a che punto le realizzino e che, negli edifici e nelle altre opere materiali, ci permette di inventarne innumerevoli, come se fossimo i signori di tutte le forme?
Che c'è in noi che ci fa interiormente comprendere che queste stesse masse visibili dei corpi sono grandi o piccole in proporzione; che ogni corpo, per quanto piccolo, può essere diviso in due parti e che, anche così diviso, può esserlo ancora in innumerevoli parti; che ogni granello di miglio, rispetto ad una sua parte, la quale occupa in lui tanto spazio quanto il nostro corpo in questo mondo, è tanto grande quanto lo è il mondo rispetto a noi?
E ancora, che ci fa capire che tutto questo mondo è bello non per la grandezza, ma per il rapporto tra le sue forme; che esso appare grande non per la sua ampiezza ma per la piccolezza nostra, cioè degli esseri viventi di cui è pieno, i quali, a loro volta, poiché possono essere divisi all'infinito, non sono così piccoli per se stessi, ma rispetto agli altri e soprattutto all'universo stesso?
In modo del tutto simile avviene per il tempo, perché, come ogni estensione spaziale, così ogni durata temporale può essere divisa per due e, per breve che sia, ha un inizio, uno sviluppo e un termine.
Dunque, deve comprendere inevitabilmente due metà, dal momento che si divide nel corso del suo procedere verso la fine.
Per questo motivo la durata di una sillaba breve è breve in rapporto a quella di una più lunga, e l'ora invernale è più corta in rapporto a quella estiva.
Come pure sono durate brevi quelle di una sola ora rispetto al giorno, di un giorno rispetto al mese, di un mese rispetto all'anno, di un anno rispetto al lustro, di un lustro rispetto a periodi più lunghi e di questi rispetto alla totalità del tempo.
Però questa stessa armonica successione e, in qualche modo, gradazione di intervalli di luoghi e di tempi, è giudicata bella non per l'estensione o la durata, ma per l'ordinata disposizione.
43.81 Il criterio stesso che presiede a quest'ordine vive nell'eterna verità, inesteso di mole e immutabile quanto a durata; ma, in potenza, è più grande di tutti i luoghi e, nella sua eternità, più stabile di tutti i tempi.
Senza di esso non sarebbe possibile ricondurre ad unità l'ampiezza di nessuna mole, né si potrebbe sottrarre alla dispersione lo svolgimento di nessun tempo: non vi potrebbe essere nulla, né un corpo che sia un corpo, né un movimento che sia un movimento.
Tale criterio è l'Unità originaria, senza estensione e senza mutamento, tanto in senso finito quanto in senso infinito.
Non ha infatti una parte qui ed una là, oppure una ora ed un'altra dopo, perché sommamente uno è il Padre della Verità, Padre della sua Sapienza, che, in quanto gli è simile in ogni sua parte, viene detta sua immagine e somiglianza, giacché deriva da Lui.
A buon diritto pertanto è chiamata anche il Figlio che procede da Lui, mentre tutte le altre cose sono per mezzo di Lui.
Infatti la forma di tutte le cose, che realizza pienamente l'Uno dal quale procede, venne prima, perché tutte le altre cose che sono, in quanto sono simili all'Uno, fossero fatte per mezzo suo.
Alcune di queste cose sono fatte mediante tale forma e in modo da essere in vista di essa, come è il caso di tutte le creature dotate di ragione e di intelletto, fra le quali l'uomo, che molto giustamente si dice fatto ad immagine e somiglianza di Dio: ( Gen 1,26-27 ) altrimenti non sarebbe in grado di contemplare con la mente l'immutabile verità.
Altre invece sono fatte mediante essa ma non in modo da essere in vista di essa.
Perciò, se l'anima razionale si sottomette al suo Creatore, dal quale, mediante il quale e per il quale è fatta, tutte le altre cose le saranno sottomesse: sia la vita al suo livello più alto, che le è tanto simile e le funge da aiuto per dominare il corpo; sia il corpo stesso, che è la più bassa delle nature ed essenze, che essa dominerà in quanto è pienamente disponibile alla sua volontà e dal quale non riceverà alcuna molestia, perché non cercherà la felicità né in esso né per mezzo di esso, ma la riceverà da Dio per la sua stessa natura.
L'anima perciò governerà il corpo, rigenerato e santificato, senza il danno della corruzione e senza il peso delle difficoltà.
Alla resurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo. ( Mt 22,30 )
I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!
Ma Dio distruggerà questo e quelli, ( 1 Cor 6,13 ) perché il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia. ( Rm 14,17 )
Perciò, in questo stesso piacere del corpo troviamo ciò che ci sollecita a disprezzarlo; non perché il corpo sia per sua natura un male, ma perché colui al quale è consentito di elevarsi al beni più alti e di goderne, si voltola turpemente nell'amore per un bene infimo.
Quando l'auriga viene trascinato via e paga le conseguenze della sua sconsideratezza, incolpa qualunque cosa di cui si serviva; piuttosto invochi aiuto, rimettendosi al Signore di tutte le cose, e arresti i cavalli già pronti a far vedere a tutti la sua caduta e ad ucciderlo, se non viene soccorso; si rimetta al suo posto, si sistemi sopra le ruote, riprenda il controllo delle briglie, guidi con più prudenza le bestie sottomesse e domate: allora si accorgerà quanto bene sia costruito il carro nelle sue varie componenti, quale guasto l'abbia fatto cadere, facendo perdere alla sua corsa l'andatura giusta e moderata.
Infatti nel paradiso terrestre ciò che rese debole questo corpo fu l'avidità dell'anima che male operò quando si appropriò del cibo proibito, contro la prescrizione del Medico in cui è riposta la salvezza eterna.
45.84 Se, dunque, nella stessa debolezza della carne visibile in cui la felicità non può essere, troviamo un ammonimento a cercare la felicità, in virtù della bellezza che dal livello più alto si diffonde fino a quello più basso, quanto più lo troveremo nel desiderio di notorietà e di eccellenza e in ogni superbia e vanagloria di questo mondo?
In tutto ciò infatti l'uomo che altro cerca, se non di essere, se possibile, il solo a cui tutto è sottomesso, in una perversa imitazione dell'onnipotenza divina?
Se lo imitasse sottomettendosi a Lui e vivendo secondo i suoi precetti, mediante Lui avrebbe ogni cosa sottomessa e non giungerebbe a tanta turpitudine da temere una bestiola qualunque, lui che pretende di comandare gli uomini.
Dunque anche nella superbia è presente un certo desiderio di unità e di onnipotenza; tuttavia nel puro dominio delle realtà temporali, le quali passano tutte come ombra. ( 1 Cor 9,15 )
45.85 Vogliamo essere invincibili, e a buon diritto: il nostro animo infatti per natura trae questa aspirazione da Dio, che l'ha creato a sua immagine.
Ma dovevamo osservare i suoi precetti; se li avessimo osservati, nessuno ci avrebbe vinto.
Ora invece, mentre colei, alle cui parole turpemente acconsentimmo, è costretta a sopportare i dolori del parto, ( Gen 3,16-17 ) noi ci affanniamo sulla terra, e con grande vergogna siamo sopraffatti da tutto ciò che riesce a turbarci e sconvolgerci.
Così, non vogliamo essere vinti dagli uomini, e non riusciamo a vincere l'ira.
C'è una vergogna più detestabile di questa?
Diciamo che l'uomo è quello che noi stessi siamo: anche se ha vizi, tuttavia non è egli stesso il vizio.
Non è perciò più onorevole che ci vinca un uomo, anziché il vizio?
Chi dubita poi che l'invidia sia un vizio orribile dal quale è inevitabilmente tormentato e sottomesso chi non vuole essere vinto nelle cose temporali?
È meglio, dunque, che ci vinca un uomo piuttosto che l'invidia o un qualsiasi altro vizio.
Ma chi ha vinto i suoi vizi, non può più essere vinto da un uomo: è vinto infatti soltanto colui al quale l'avversario porta via ciò che ama.
Chi dunque ama soltanto ciò che non gli può essere portato via, inevitabilmente è invincibile e non è tormentato in nessun modo dall'invidia.
Ama infatti un essere il quale, quanti più sono coloro che giungono ad amarlo e possederlo, tanto più abbondantemente egli se ne rallegra con loro.
Ama Dio appunto con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente.
Ed ama il prossimo come se stesso. ( Mt 22,37 )
Per questo non invidia che sia come egli stesso è, ma piuttosto, per quanto può, lo aiuta.
Né può perdere il prossimo che ama come se stesso, perché ciò che ama in se stesso non sono le cose che cadono sotto gli occhi o sotto qualche altro senso del corpo.
Ha dunque in se stesso quello che ama come se stesso.
46.87 La regola dell'amore consiste nel volere che i beni che vengono a noi vengano anche all'altro e nel non volere che capitino all'altro i mali che non vogliamo che capitino a noi stessi, ( Tb 4,16 ) e nel conservare questa disposizione d'animo verso tutti gli uomini.
Nei confronti di nessuno infatti va compiuto il male, e l'amore non fa nessun male al prossimo. ( Rm 13,10 )
Amiamo dunque, come ci è stato comandato, anche i nostri nemici, ( Mt 5,44 ) se vogliamo essere veramente invincibili.
Nessun uomo è invincibile per se stesso, ma per quella immutabile legge, per la quale solo coloro che la rispettano sono liberi.
Poiché, in tal modo, non può essere loro portato via quello che amano, e questo soltanto li rende uomini invincibili e perfetti.
Infatti, se l'uomo ama l'uomo non come se stesso, ma come si ama un giumento o un bagno o un uccellino variopinto e garrulo, ossia per ricavarne qualche piacere o vantaggio materiale, inevitabilmente si sottomette non all'uomo, ma, cosa ancora più turpe, ad un vizio tanto vergognoso e detestabile, per cui non ama l'uomo come dovrebbe essere amato.
Se questo vizio in lui domina, lo accompagna fino alla fine della vita, anzi alla morte.
46.88 L'uomo tuttavia non deve essere amato dall'uomo come si amano i fratelli carnali o i figli o i coniugi o i parenti o gli affini o i concittadini: anche questo amore è temporale.
Infatti non conosceremmo nessuno di questi legami, che ci provengono dal nascere e dal morire, se la nostra natura, rispettando i precetti e l'immagine di Dio, non si fosse avvolta in questa corruzione.
Per questo motivo la stessa verità, richiamandoci alla primitiva e perfetta natura, ci ordina di resistere alle abitudini della carne, insegnandoci che non è adatto al regno di Dio chi non odia questi vincoli carnali. ( Lc 9,62 )
A nessuno ciò deve sembrare cosa inumana; infatti è più inumano non amare nell'uomo ciò che è uomo, ma amare ciò che è figlio, giacché questo vuol dire amare in lui non ciò che lo lega a Dio, ma ciò che lo lega a se stesso.
Che c'è dunque di straordinario se non perviene al regno di Dio chi ama non ciò che appartiene a tutti, ma ciò che è suo soltanto?
Si ami l'uno e l'altro, dirà qualcuno; no, solo l'uno, dice Dio; la Verità, infatti, molto giustamente afferma: Nessuno può servire a due padroni. ( Mt 6,24 )
Nessuno dunque può amare in maniera compiuta ciò a cui è chiamato, se non odia ciò da cui è sollecitato a tenersi lontano.
Noi siamo chiamati alla natura umana perfetta, quale fu creata da Dio prima del nostro peccato; siamo invece sollecitati a non amare quella che abbiamo meritato col peccato.
Perciò dobbiamo detestare la natura dalla quale desideriamo essere liberati.
46.89 Se ardiamo d'amore per l'eternità, dunque dobbiamo detestare i vincoli temporali.
L'uomo ami il prossimo come se stesso. ( Lc 10,27 )
Poiché certamente nessuno è a se stesso o padre o figlio o parente o qualcosa del genere, ma soltanto uomo, chi ama qualcuno come se stesso, in lui deve amare ciò che egli è per se stesso.
Ora, i corpi non sono ciò che noi siamo; non è perciò il corpo che si deve ricercare o desiderare nell'uomo.
A questo proposito vale anche il precetto: Non desiderare i beni del tuo prossimo. ( Es 20,17 )
Perciò, chiunque nel prossimo ama altro da quello che egli è per se stesso, non lo ama come se stesso.
Dunque, ciò che si deve amare è la natura umana in se stessa, indipendentemente dalla sua condizione carnale, tanto se è già perfetta quanto se è da perfezionare.
Sotto l'unico Dio Padre, sono tutti parenti coloro che lo amano e fanno la sua volontà.
Tra di loro poi essi sono l'uno per l'altro padri quando si aiutano, figli quando si ubbidiscono reciprocamente e soprattutto fratelli, perché l'unico Padre con il suo testamento li chiama ad un'unica eredità. ( Mt 12,48-50 )
Di conseguenza, perché non dovrebbe essere invincibile chi, amando l'uomo, in lui non ama che l'uomo, cioè la creatura di Dio, fatta a sua immagine, in quanto non può essere privo della natura perfetta che ama, quando egli stesso è perfetto?
Così, ad esempio, se qualcuno ama chi canta bene, non questo o quello, ma soltanto uno che canti bene, essendo egli stesso un perfetto cantore, vuole che tutti siano come lui, in modo però che non gli venga a mancare quel che ama, perché egli stesso canta bene.
Pertanto, se invidia qualcuno che canta bene, non è il canto che ama, ma la lode o qualcosa d'altro che desidera ottenere cantando bene o che può perdere, in parte o interamente, in presenza di un altro che canta bene.
Dunque, chi invidia un buon cantore, non lo ama; per contro, chi manca di tali capacità, non è un buon cantore.
Tutto ciò si può dire, in maniera molto più appropriata, di chi vive rettamente, perché non può invidiare nessuno; infatti, il fine a cui pervengono coloro che vivono rettamente conserva le stesse dimensioni per tutti e non subisce diminuzioni anche se lo possiedono in molti.
Ci possono essere circostanze nelle quali il buon cantore non è in grado di cantare in modo adeguato e può aver bisogno della voce di un altro, il quale perciò gli offre ciò che ama; come quando, per esempio, si tiene un banchetto in un luogo in cui per lui sarebbe disdicevole cantare e onorevole invece ascoltare uno che canta.
Al contrario, vivere giustamente è sempre onorevole.
Quindi, chiunque ama vivere giustamente e lo attua, non solo non invidia i suoi imitatori, ma anche, per quanto può, si presenta loro con grande disponibilità e cortesia, pur senza averne bisogno: infatti quel che in loro ama, lo possiede in se stesso in maniera totale e perfetta.
Così, quando ama il prossimo come se stesso, non prova invidia per lui, perché non la prova neppure per se stesso; gli dà ciò che può, perché lo dà a se stesso; non ha bisogno di lui, perché non ne ha di se stesso: ha bisogno soltanto di Dio, perché, unendosi a Lui, è beato.
Nessuno, infatti, gli può togliere Dio.
Senza alcun dubbio, perciò, è un uomo invincibile colui che sta unito a Dio, non perché ottiene da Lui qualche altro bene, ma perché per lui non c'è nessun altro bene all'infuori dello stare unito con Dio. ( Sal 73,28 )
47.91 Un uomo così, nel corso della sua vita, si serve degli amici per ricambiare la gratitudine, dei nemici per esercitare la pazienza, di quelli ai quali può far del bene per far loro del bene, di tutti per dar prova della sua bontà.
E, sebbene non ami i beni temporali, ne fa un giusto uso, aiutando gli uomini secondo la loro condizione, se non può farlo in modo eguale per tutti.
Pertanto, se parla più volentieri con qualcuno dei suoi intimi che con il primo venuto, non significa che lo ami di più, ma che ha con lui maggiore confidenza e più occasioni.
Tratta infatti tanto meglio quelli che sono occupati nelle questioni terrene quanto meno egli vi è impegnato.
Poiché, dunque, non può essere di giovamento per tutti, che pure ama in egual misura, sarebbe ingiusto se non preferisse esserlo per coloro che gli sono più vicini.
Il legame spirituale poi è più forte di quello di luogo e di tempo, nel quale siamo generati come esseri corporei, ed è un legame fortissimo, che prevale su tutti.
Un tale uomo, perciò, non si affligge per la morte di nessuno, perché chi ama Dio con tutto il cuore sa che quanto non perisce per Dio neppure per lui perisce.
Ora, Dio è il Signore dei vivi e dei morti. ( Rm 14,9 )
Perciò, come la giustizia altrui non lo rende giusto, così l'infelicità altrui non lo rende infelice.
E come nessuno può portargli via la giustizia e Dio, così nessuno può portargli via la felicità.
E se talora è turbato dal pericolo, dall'errore o dal dolore di qualcuno, è disposto a farne l'opportunità per soccorrerlo, correggerlo o consolarlo, ma non per distruggere se stesso.
47.92 In nessuna delle sue doverose incombenze viene fiaccato, sicuro nell'attesa della pace futura.
Che cosa infatti potrà nuocere a colui che è in grado di trarre vantaggio anche dal nemico?
Protetto e sostenuto da Dio per il cui precetto e dono ama i suoi nemici, non teme la loro inimicizia.
Un uomo del genere non si rattrista troppo nelle tribolazioni; anzi addirittura ne gode, sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,3-5 )
Chi potrà nuocere a costui? Chi potrà sottometterlo?
L'uomo che progredisce nella prosperità, nell'avversità impara a conoscere i progressi che ha compiuto.
Non confida infatti nei beni mutevoli, quando abbondano; perciò quando gli sono tolti scopre che se ne era lasciato afferrare: Perché per lo più, quando li abbiamo, pensiamo di non amarli; ma quando cominciano a mancare, scopriamo chi siamo.
Infatti perdiamo senza dolore ciò che possedevamo senza amarlo.
Sembra dunque che vinca, mentre in realtà è vinto chi, prevalendo, ha raggiunto ciò che dovrà lasciare con dolore; al contrario, vince, mentre sembra che sia vinto chi, rinunciando, raggiunge ciò che non potrà perdere senza la sua volontà.
Dunque, chi ama la libertà, cerchi di essere libero dall'amore per le cose mutevoli; e chi ama il potere, si sottometta come suddito a Dio, l'unico che regna su tutto, amandolo più di se stesso.
Questa è la perfetta giustizia, per la quale amiamo di più le cose di maggior conto e di meno quelle di minor conto.
Ami dunque l'anima sapiente e perfetta, così come la vede, e quella stolta non in quanto tale, ma in quanto può essere perfetta e sapiente, giacché non deve amare neppure se stesso in quanto stolto.
Infatti, chi ama se stesso in quanto stolto non farà progressi verso la sapienza.
E nessuno diventerà quale desidera essere, se non avrà odiato se stesso come è.
Ma, fino a che non avrà raggiunto la sapienza e la perfezione, sopporti la stoltezza del prossimo con la stessa disposizione d'animo con la quale sopporterebbe la propria, se fosse stolto e amasse la sapienza.
Perciò, se la stessa superbia è un'ombra della vera libertà e del vero regno, anche per mezzo di essa la divina Provvidenza ci ricorda di che cosa noi peccatori siamo segni e dove dobbiamo ritornare, una volta ripresa la giusta via.
Che altro, poi, hanno di mira gli spettacoli e tutto ciò che chiamiamo curiosità, se non la gioia di conoscere le cose?
Che c'è, dunque, di più ammirevole e di più bello della verità stessa, a cui ogni spettatore dà prova manifesta di voler pervenire, quando vigila attentamente per non farsi ingannare e poi, si vanta se nello spettacolo riesce a cogliere qualcosa e a giudicarla con maggior acume e prontezza degli altri?
Guardano con molta attenzione anche il prestigiatore, benché non prometta nient'altro che inganno, e lo osservano con grande impegno; se poi vengono ingannati, si compiacciono della sagacia di colui che li inganna, non potendolo fare della propria.
Infatti, qualora il prestigiatore non sapesse per quali motivi gli spettatori si ingannano, o desse l'impressione di non conoscerli, nessuno lo applaudirebbe, essendo anch'egli in errore.
Se però qualcuno del pubblico da solo ne scopre il trucco, ritiene di meritare una lode maggiore della sua, se non altro perché è riuscito a non farsi raggirare e ingannare.
Se invece l'inganno è chiaro a molti, il prestigiatore non viene lodato, ma vengono derisi tutti gli altri che non sono capaci di scoprirlo.
La palma della vittoria così è data sempre alla conoscenza, alla perizia tecnica, alla capacità di comprendere la verità: essa però in nessun modo è raggiunta da coloro che la cercano al di fuori i se stessi.
49.95 Pur tuttavia siamo immersi in frivolezze e turpitudini cosi grandi che, alla domanda se sia preferibile il vero o il falso, ad una sola voce rispondiamo che è preferibile il vero; ma poi ci attacchiamo al giochi e agli svaghi, dove di certo sono le cose false che ci dilettano, non quelle vere, con molta più inclinazione che non al precetti della verità.
Così siamo puniti dal nostro stesso giudizio e dalla nostra parola, perché con la ragione riconosciamo buona una cosa, mentre per vanità ne seguiamo un'altra. ( Rm 7,14-23 )
Ma una cosa ci diverte e ci rende allegri fino a quando sappiamo in rapporto a quale verità essa provoca il riso.
Ora, con l'amare i giochi e gli svaghi ci allontaniamo dalla verità e non troviamo più di quali cose essi siano imitazioni; li desideriamo intensamente come se fossero bellezze supreme e, anche quando ce ne allontaniamo, abbracciamo le nostre immaginazioni.
E queste, se poi torniamo a cercare la verità, ci vengono incontro lungo il cammino e non ci consentono di procedere oltre, assalendoci senza violenza ma con abili insidie, poiché non abbiamo compreso in tutto il suo valore il significato del detto guardatevi dai falsi dèi. ( 1 Gv 5,21 )
49.96 Per questo motivo alcuni sono stati portati per innumerevoli mondi dal loro errabondo pensiero.
Altri hanno ritenuto che Dio non potesse essere che un corpo di fuoco.
Altri ancora, con le loro fantasie, hanno immaginato che lo splendore della luce fosse esteso ovunque per infiniti spazi, ma che da una parte fosse interrotto come da un cuneo nero, e perciò hanno congetturato due opposti regni, ponendoli come principi delle cose.
Se li obbligassi a giurare sulla verità di queste idee, forse non oserebbero farlo, ma a loro volta mi direbbero: "Mostraci tu, dunque, cosa è vero".
E se rispondessi loro che debbono cercare solo quella luce per la quale appare loro, ed è certo, che una cosa è credere e un'altra comprendere, ( Is 7,9b ) anch'essi giurerebbero che questa luce non si può vedere con gli occhi né si può pensare come diffusa in un ampio spazio, e che è dovunque a disposizione di chi la cerca, e che non si può trovare niente di più certo e di più chiaro di essa.
49.97 D'altro canto, tutto ciò che ora ho detto di questa luce della mente, risulta manifesto solo in virtù di questa stessa luce.
Per mezzo di essa, infatti, comprendo che sono vere le cose dette, e ancora per mezzo di essa comprendo che le comprendo: così avviene sempre di nuovo, quando ciascuno comprende di comprendere qualcosa e ancora comprende questo suo comprendere.
Comprendo che si può andare all'infinito e che in tutto ciò non c'è nessuno sviluppo né in senso spaziale né in senso temporale; comprendo inoltre che non potrei comprendere se non vivessi e con maggior certezza comprendo di vivere in maniera più intensa quando comprendo: è per la sua intensità appunto che la vita eterna supera quella temporale.
E non riesco a percepire in cosa consista l'eternità, se non con l'intelligenza.
Con lo sguardo della mente, infatti, distinguo l'eternità da tutto ciò che è mutevole e in essa non vedo alcun intervallo di tempo, perché gli intervalli di tempo scaturiscono dal movimenti passati e futuri delle cose.
Nell'eternità, invece, nulla passa e nulla deve avvenire, perché ciò che passa cessa di essere e ciò che deve avvenire non ha ancora cominciato ad essere.
L'eternità è soltanto: né fu, come se ormai non sia più, né sarà, come se ancora non sia.
Perciò essa sola poté dire alla mente umana con piena verità: Io sono colui che sono; ( Es 3,14 ) e con altrettanta verità di lei si poté dire: È Colui che è che mi ha mandato. ( Es 3,14 )
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2 | Cicerone, Cato 15, 54 |