Il paradosso delle Beatitudini |
di Luigi Accattoli
Nel Vangelo di Luca Gesù chiama beata la povertà e maledice la ricchezza: il paradosso è più netto che in Matteo, anche se è ragionevole ammettere - con gli esegeti più avveduti - che la « prima beatitudine » sia sostanzialmente la stessa nei due Vangeli.
Matteo 5,3: « Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli ».
Luca 6,20.24: « Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio ( … ). Ma guai a voi ricchi, poiché avete già la vostra consolazione ».
È stata scritta una biblioteca sulla differenza tra « poveri » e « poveri di spirito »: ma non è la differenza che più mi interessa.
Io sto con un caro vecchio volume di Francesco Vattioni ( il massimo responsabile della Bibbia della Cei ), intitolato: Beatitudini, povertà e ricchezza ( Ancora, Milano 1966 ): Gesù « probabilmente » ha detto « beati i poveri » e i due evangelisti hanno usato due frasi diverse, stante la diversità dei destinatari, ma « dal valore interamente uguale ».
La differenza, a mio parere, principale tra la beatitudine di Luca e quella di Matteo ( e la mia tendenza a preferire, nella meditazione personale, il testo lucano ) sta nella presenza in Luca del rafforzamento per rovesciamento: « guai a voi ricchi ».
Se ne tiene poco conto, nella riflessione corrente, non è vero?
Proviamo dunque a tenerne conto, in questa nostra riflessione.
E in questa dirEzione: che il Vangelo non ci indica soltanto l'ideale della povertà, ma ci proibisce l'arricchimento.
Quella proibizione è fondamentale per comprendere - per individuare: perché tende a sfuggirci, tanto vi siamo abituati - la tentazione del denaro e del potere nella nostra società.
Cioè di ogni forma di sicurezza e di supremazia, che mai come oggi possono essere efficacemente riassunte nell'idolo della ricchezza.
Il denaro e il potere - come il sesso - tendono a sedurre e non bastano mai a se stessi.
Quando conquistano totalmente un uomo, essi assumono figura di idoli e prendono - in quell'anima - il posto di Dio.
Quell'esito è inevitabile, se la seduzione del denaro e del potere non viene combattuta.
Ed è in risposta a tale radicalità della tentazione che Gesù afferma la radicale condanna implicita nella beatitudine ed esplicita nella maledizione.
Diciamo subito che la radicalità di quella tentazione non è avvertita dal cristiano comune della nostra epoca: e questa non avvertenza rende scipita la sua testimonianza.
Ovvero: la riduce a un terzo delle sue possibilità.
Come gli fosse chiesto unicamente di testimoniare la purezza del cuore contro la tentazione della carne e non anche la purezza dell'anima e della vita contro la tentazione della ricchezza e del dominio.
Il cristiano comune teme la seduzione sessuale, ma avverte appena quella del denaro e si ritiene al riparo da quella del potere.
Mentre in materia sessuale conosce la radicalità del messaggio di cui è destinatario, in materia di denaro e di potere vive - con relativa buona coscienza - una specie di doppio alibi:
- come se la beatitudine evangelica della povertà proibisse soltanto la disonestà nell'acquisto del denaro e non riguardasse anche ogni suo uso e soprattutto la condizione fondamentale del distacco;
- e come se la messa in guardia dal potere fosse destinata soltanto ai governanti e non riguardasse invece la natura pervasiva del dominio e la sua presenza dissimulata in ogni rapporto umano.
Oltre che dal comportamento sessuale, un cristiano si dovrebbe riconoscere anche da come guadagna il denaro e da come lo spende.
La partita doppia del cristiano è importante per la sua profezia.
Ma siamo onesti: oggi in Italia c'è una differenza evidente nell'uso della sessualità tra credenti e no, ma quella differenza non appare quasi mai nell'uso del denaro.
I politici cristiani hanno una vita sessuale più castigata di quelli laici, ma in tangentopoli stanno alla pari, o peggio.
Gli studenti cattolici si distinguono dagli altri per la loro attesa dell'amore, ma non si distinguono da come spendono o per come cercano il denaro.
Evitare scorciatoie nel guadagno, evitare mondanità nella spesa.
Ma soprattutto mantenere, nell'uno e nell'altro capitolo, una serenità che viene dal distacco: ed è qui che la tentazione oggi si fa più radicale.
Se abbiamo di che mangiare e di che vestire e un tetto, ma ugualmente non siamo contenti, vuoi dire che qualcosa non va.
L'inquietudine per il denaro toglie la pace che è necessaria per accogliere e far germinare in noi e portare a maturità il seme e la pianticella della Parola.
Lo dice Gesù nella parabola del seminatore, regalandoci uno dei suoi detti più moderni e penetranti: « La preoccupazione del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la Parola ed essa non da frutto » ( Mt 13,22 ).
Il cristiano dice sì al risparmio che garantisca una vita sobria, senza la necessità di moltiplicare gli impegni di lavoro; ma dice no all'accumulazione del denaro per l'arricchimento.
L'avaro moderno è il carrierista che compie sacrifici terribili per avanzamenti motivati esclusivamente dall'aumento di stipendio.
La forma più sofisticata e recente dell'avarizia, degna del duemila, è poi quella del risparmiatore creativo, che acquista i fondi di investimento e studia contratti personalizzati con le banche e compra e vende azioni secondo il mercato.
Qui la tentazione del denaro diviene ragione di vita.
Egli non vive il suo tempo nella gratitudine per i beni ricevuti, ma nell'ansia di moltiplicarli.
Non conosce il tempo lento della preghiera e dell'amore.
Specula sull'andamento della Borsa e non scruta i segni dei tempi.
La sua condanna era già nell'Antico Testamento: « Chi ama il denaro, mai di denaro è sazio e chi ama la ricchezza non ne ha che basti: anche questa è un'illusione» ( Qo 5,9 ).
C'è un testo di Paolo che sembra scritto oggi e di cui dovremmo fare una lettura preferita, se ci sta a cuore la resistenza alla tentazione del denaro: « Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo.
Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione.
L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali: per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori » ( 1 Tm 6,8-10 ).
Lo scatenamento della tentazione del denaro produce oggi una pazzia diffusa: il doppio lavoro, la doppia casa, la doppia pensione non fanno dormire, non fanno amare, non permettono d'avere figli, infelicitano la vita.
Ma conviene individuare ogni fattispecie concreta dell'odierna tentazione della ricchezza.
I giochi speculativi con il denaro.
E il gioco d'azzardo: cioè il rischio di una somma con il solo scopo di vederla moltiplicata, senza che ciò implichi attività lavorativa di nessun genere.
È cupidigia allo stato puro.
E il lotto, il totocalcio, il casinò.
Anche se sono giochi legali e tassati e se tutti li fanno: non si è cristiani per fare come tutti, ma per attendere la venuta dello Sposo.
Per educare i figli a resistere alla tentazione del denaro ( come padre di cinque figli, so che è la prima che sentono e la più invasiva ) occorre che non prenda corpo - nella coppia e nella famiglia - nessuna complicità truffaldina, per innocente che possa sembrare, specie in materia fiscale e nella retribuzione di quanti lavorano per noi: i ragazzi capiscono tutto, in questa materia prima che in altra.
E l'insegnamento lo prendono dai fatti, non dalle parole.
Fa parte di questa educazione il chiedere e dare prestiti con libertà.
Allo scrupolo nei tempi e modi della restituzione di ciò che ci è stato prestato, che è diffuso, dovrà accompagnarsi la disponibilità - che invece è rara - a prestare anche a coloro che hanno reale bisogno e forse non potranno restituire.
Se può fare un prestito a rischio, il cristiano lo fa.
I nostri figli respirano nell'aria e prendono dalla pubblicità televisiva un senso precoce del denaro e del denaro facile: è necessario un corpo a corpo quotidiano, lungo la loro crescita, per contrastare questa educazione ambientale alla « cupidigia », che un giorno potrebbe loro impedire totalmente di avvertire la tentazione della ricchezza.
Piccoli stratagemmi anticupidigia: non regalare ai bambini una somma in conto corrente bancario.
Insegnare con l'esempio la necessità di compiere scelte di vita in contrasto con il criterio del massimo guadagno.
Aiutarli a scegliersi e a scegliere per gli altri doni simbolici e non mondani: e mai doni in denaro, da accumulare e far fruttare.
Se il cristiano ha, deve dare.
A volte si è trattenuti dalla preoccupazione del domani e dall'avvenire dei figli: ma è anche questa - se impedisce ogni impegno gratuito oltre la cerchia familiare - una forma della tentazione della ricchezza.
Riassumo quanto toccato, dicendo che il denaro, idolo totale e proteiforme ( come Proteo muta forma, ogni volta che credi d'averlo afferrato: diventa casa, seconda casa, azioni, bot, seconda pensione, barca, gioielli, viaggi e ogni comodità ), è insidia massima, oggi, per la fede.
È il luogo della lotta più serrata per la conquista di ogni sobrietà.
Ma è anche il luogo di massima visibilità di quella testimonianza di distacco dai beni presenti in vista del Regno, che è chiesta anche al cristiano che vive nel mondo: è il segno più atteso in quest'epoca dominata dalla cupidigia.
Il cristiano comune oggi deve mandare a memoria questo passo del Nuovo Testamento, che definisce la cupidigia come idolatria: « Fate dunque morire le membra che sono sulla terra: fornicazione, impudicizia, passione, desideri malvagi, come pure la cupidigia, che è idolatria » ( Col 3,5 ).
Come abbiamo abbozzato una tipologia della tentazione del denaro per il cristiano comune di questa epoca, così ora tenteremo di guardare alla tentazione del potere cui questo cristiano si trova esposto: il potere quale si manifesta nella vita privata e non quello del cristiano investito di autorità nella vita pubblica.
Ci occupiamo cioè del potere del cristiano nei confronti di se stesso, nella coppia, verso i figli, con ogni prossimo.
Perché un potere e un'autorità l'abbiamo tutti, non solo i governanti.
Basta che due uomini si parlino per cinque minuti perché si avviino tra loro dinamiche di potere.
Anche l'età e la cultura danno potere, nella forma dell'ascendenza.
Al potere economico, sociale e politico accenneremo solo per ciò che attiene alla soggettività di chi ne assume il peso.
Anche il potere su se stesso, che si manifesta nella forma dell'indipendenza assoluta, ha caratteristiche pericolose, analoghe a quelle degli altri poteri.
La tendenza a una piena autonomia da ogni legame e responsabilità è la forma oggi più comune della tentazione del potere per l'uomo comune.
L'indipendenza è come una droga e richiede sempre dosi maggiori.
I giovani vogliono piena autonomia già nella casa dei genitori.
Più tardi saranno tentati di rifiutare il matrimonio per non assumere responsabilità definitive.
E preferiranno non avere figli per non avere doveri.
Il « single » che vuoi godersi la vita e rifiuta ogni assunzione di responsabilità nelle relazioni affettive, ogni servizio associativo o politico, è un'immagine efficace della natura idolatrica di questa tentazione, oggi così diffusa, della piena indipendenza.
Il cristiano che respinge la tentazione dell'autonomia assoluta e sposa la persona che ama, incontra immediatamente un'altra sfida del potere: quella di esercitare forme improprie di autorità nei confronti dell'altro.
Nella coppia, qualsiasi forma di potere che non sia reciproco offende l'amore.
Più precisamente, ogni rivendicazione di autorità che non sia raccomandata dalla legge della reciproca sottomissione, forza il dialogo d'amore dei coniugi.
E la reciproca sottomissione si proietterà all'occasione nella reciproca obbedienza.
L'obbedienza reciproca ( che è regola neotestamentaria: « Siate sottomessi gli uni agli altri » Ef 5,21 ) non è incomprensibile a chi ama: perché l'amore obbedisce all'amore.
Previene o segue la richiesta del coniuge, attiva una gara al consenso reciproco.
La sospensione della decisione non blocca la coppia vitale, anzi da il via a una ricerca dell'altrui punto di vista che non solo avvicina, ma spesso rovescia le posizioni: chi non voleva quell'acquisto l'accetta, mentre l'altro vi rinuncia.
E generalmente ne viene un abbraccio.
Più forte, o almeno più frequente, è la tentazione del potere nei confronti dei figli: che non sono sudditi, né sottoposti, né una proprietà nostra su cui ci sia stata data piena autorità.
Non ci appartengono: ci sono stati affidati per accompagnaRli all'età adulta e mostrare loro - nelle modalità proprie dell'amore materno e paterno - la tenerezza con cui li guarda il Signore.
Un esercizio dell'autorità con i figli minori - come con ogni più giovane membro della comunità umana - è necessario.
Esso non dovrà mai avere la forma impositiva, del comando dall'alto in basso.
I genitori che sanno resistere alla tentazione del potere sui figli si riconoscono da questo: se sanno - all'occasione - chiedere scusa ai loro ragazzi, quando capiti che abbiano sbagliato in una decisione che li riguardava.
Con le persone che ci aiutano in casa, se abbiamo una segretaria o un autista, con i più giovani, con i sottoposti, con quanti svolgono per noi una prestazione occasionale, con ogni prossimo: il cristiano deve sorvegliare ogni rapporto in cui sia implicato qualcosa che somiglia all'autorità, al potere, al dominio, alla proprietà.
Combattere la tentazione del potere - in tutte queste relazioni - significa fare in modo che sia sempre chiaro un rapporto essenziale di parità, che non sarà vero per l'anagrafe o l'azienda, ma vero davanti al Signore: sia sempre alla pari il « tu » o il « lei », mai « dare ordini » rimarcando il rapporto di superiorità, mai accettare una soggezione anche solo formale o involontaria.
Quando sia possibile, creeremo le condizioni per una reciprocità umana ( inviteremo una persona sottomessa a una festa, o faremo e accetteremo doni alla pari ) che sia suscettibile di una valenza cristiana.
Dovremmo sempre avere lo scrupolo di trattare ogni persona in modo così schietto e pulito, da poterle proporre - se fosse il caso: ed è bene che il caso sia, qualche volta - di pregare con noi, come con noi lavora.
Quanto più rapido è il contatto ( poniamo con un tassista ), tanto maggiore dev'essere lo scrupolo di non mancare di rispetto: con gli abituali si può rimediare, con gli occasionali lo sgarbo resta.
Faremo attenzione anche alla responsabilità che viene dall'ascendente che si può esercitare con ogni prossimo e che è una forma di potere.
Ha scritto Italo Calvino ne Il barone rampante: « Quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano; e questo è comandare ».
Se ci vengono offerte promozioni, o nuovi incarichi, o candidature ( dal condominio al Parlamento ), occorre esaminare l'offerta anche dal punto di vista della tentazione del potere e non solo da quello economico, professionale e familiare.
Occorre chiedersi se siamo preparati a svolgere un ruolo d'autorità: « Impara a ubbidire prima di comandare », diceva una massima di Solone.
Se quel potere è interpretabile nella dimensione del servizio: altrimenti esso è un'insidia per il credente, se la materia è lieve; un peccato, se grave.
Se siamo avvicinati dai rischi di seduzione e corruzione.
Se domani saremo capaci di lasciare quell'incarico, quando l'imponesse la morale cristiana.
O semplicemente di lasciarlo con serenità quando scadrà il mandato, o arriverà il pensionamento.
Perché la tentazione del potere produce attaccamento.
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