Il paradosso delle Beatitudini |
di Mario Rollando
Introdurci ad una riflessione, possibilmente non scontata, sulle beatitudini, significa entrare in un « universo » biblico, ove il beato è colui che è benedetto, visitato da Dio e reso partecipe della sua comunione di vita.
Dall'Antico Testamento, ove, specie nei salmi, leggiamo che è « beato l'uomo la cui speranza è il nome del Signore » ( Sal 40,5 ) come beato « è chi abita nella sua casa » ( Sal 84,5 ) o « colui che Dio ha scelto e chiamato vicino » ( Sal 65,5 ) fino all'ultimo dei libri del Nuovo Testamento, ove si affermano « beati gli invitati alle nozze dell'Agnello » ( Ap 19,9 ), le beatitudini costituiscono lo stato di predilezione di quanti si sono lasciati circoncidere il cuore dal mistero santo e ineffabile della carità divina.
Per questo se, da una parte, le beatitudini dell'evangelo secondo Matteo sono la « sorgente » da cui scaturisce rigoglioso tutto il discorso della montagna, esse, al tempo stesso, sono il « culmine » del discorso stesso pronunciato da Gesù.
Sono il frutto dell'opera compiuta dallo Spirito Santo nei discepoli.
Le beatitudini non sono condizioni etiche per entrare nel regno, ma l'epifania dell'esistenza etica di coloro che già appartengono al regno.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica recita: « Le beatitudini sono al centro della predicazione di Gesù.
La loro proclamazione riprende le promesse fatte al popolo eletto a partire da Abramo » ( CCC 1716 ).
Le beatitudini sono la visione capovolta del mondo: descrivono l'esistenza dell'uomo secondo la gerarchia di valori del Vangelo.
Come in ogni pagina evangelica è raccolto l'essenziale della buona notizia di Gesù, così nel testo delle beatitudini è contenuto tutto il Vangelo.
Esse proclamano che a Dio è possibile ciò che gli uomini ritengono impossibile.
Quando realtà « maledette » come la povertà, il pianto, la persecuzione, o « impraticabili » come la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore, la pace, la giustizia costituiscono il tessuto quotidiano del vivere, allora davvero il Regno è in mezzo a noi e la Pasqua del Signore continua a celebrarsi nella tragedia del mondo.
Nel CCC leggiamo ancora: « Le beatitudini dipingono il volto di Cristo e ne descrivono la carità » ( CCC 1717 ).
Proponendo le beatitudini ai discepoli, Gesù di Nazareth si autopropone.
Egli propone un'esistenza secondo il Regno di Dio ed egli è il Regno presente tra gli uomini.
Nelle beatitudini egli da il tracciato della propria storia, da Betlemme al Calvario.
Egli è l'unico povero, l'unico afflitto, l'unico mite, l'unico che ha avuto radicalmente fame e sete di giustizia, l'unico misericordioso, l'unico autentico puro di cuore, l'unico genuino operatore di pace, l'unico che ha veramente conosciuto la persecuzione a causa della giustizia, l'unico insultato e percosso a motivo di Dio.
L'esistenza etica dei discepoli del Signore consiste nel rivivere l'esperienza interiore vissuta dal loro stesso Maestro.
Per questo la vita morale del cristiano, a partire dal racconto delle beatitudini nel Vangelo di Matteo, sembra delinearsi con queste cinque connotazioni:
- una morale di relazione interpersonale, sul fondamento della relazione tra il Figlio e il Padre
- una morale di partecipazione al dinamismo stesso che anima la vita del Cristo
- una morale di assimilazione-conformazione interiore al Cristo
- una morale di trasfigurazione secondo un processo rielaborativo dell'ostacolo in veicolo
- una morale di orientamento valoriale delle facoltà su significati storicamente definibili.
La vita cristiana è comunione.
Essa consiste nel rivivere l'intima relazione del Figlio col Padre nello Spirito Santo.
Solo all'interno d'una comunicazione di bene nasce un determinato comportamento etico.
La scelta valoriale non può essere indotta dall'esterno, ma germoglia dall'interiorità d'un rapporto.
Il decalogo è, in questo senso, normativo.
Infatti i dieci precetti, le dieci parole, consegnate da Dio a Mosé sono introdotte dall'assioma perentorio e irriducibile: « Io sono il Signore Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù » ( Es 20,2; Dt 5,6 ).
Ciò significa che solo sul fondamento della relazione prioritaria con Dio i dieci precetti che seguono trovano il loro significato e la loro praticabilità.
Morale di relazione è morale dell'ascolto poiché, nella tradizione giudaico - cristiana, un determinato costume del credente germoglia all'interno dell'ascolto che questi presta al suo Dio che gli parla.
La preghiera dello « shemà», ascolto, è celebrata tre volte al giorno dal pio ebreo, per tenere desta la memoria che solo nell'ascolto di Dio il fedele ritrova l'identità del proprio essere credente e del proprio agire morale.
Nell'esperienza religiosa giudeo - cristiana l'ascolto precede l'adorazione, il culto, l'osservanza.
Come la fede nasce da una relazione di ascolto ( Rm 10,17 ), così l'etica manifesta nell'agire l'atteggiamento interiore dell'ascolto credente.
Il nesso intimo tra ascolto credente ed azione morale è espresso incisivamente nella lingua ebraica, ove, il verbo « shemà » significa al tempo stesso ascoltare e obbedire.
Per l'ebreo ascoltare è obbedire; l'ascolto che non diventa obbedienza non è vero ascolto.
Per quanto concerne le beatitudini è indispensabile osservare che ne esiste una non compresa nella lista di Matteo, anche se presente, come vedremo, in modo implicito in altra pagina dello stesso Vangelo, e proclamata esplicitamente dall'evangelista Luca: « Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica » ( Lc 11,28 ).
L'ascolto è la prima beatitudine.
Essa, come tutte le altre beatitudini, è praticata anzitutto da Gesù: egli vive ascoltando il Padre.
« Dico al mondo tutto quello che ho ascoltato dal Padre mio » ( Gv 8,26 ), « Tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi » ( Gv 15,15 ).
Anche l'evangelista Matteo fa riferimento a tale beatitudine nei discepoli, quando, nell'episodio della professione di fede di Pietro, Gesù afferma: « Beato sei, tu, Simone figlio di Giona, perché non la carne o il sangue tè lo hanno rivelato ma il Padre mio che sta nei cieli » ( Mt 16,17 ).
La morale cristiana, dunque, è frutto d'una relazione di ascolto.
Dio, rivelandosi al discepolo che lo ascolta, lo abilita ad un costume nuovo corrispondente alle verità ascoltate.
Per una genuina educazione alla vita morale è perciò secondario introdurre il discepolo a dare una risposta adeguata a Dio, mentre prioritario educarlo a prestare un vero ascolto.
La risposta, che esigerà sempre impegno ascetico, è comunque conseguenza dell'ascolto di Dio che si rivela.
San Paolo afferma: « Justus ex fide vivet » ( Rm 1,17 ), che può tradursi « l'uomo moralmente retto vive di fede ».
Le beatitudini di Matteo rinviano alla fede, relazione d'ascolto, come fondamento della vita etica cristiana.
Senza l'ascolto della Parola non esiste il discepolo povero, mite, puro di cuore, misericordioso, costruttore di pace.
Abbiamo già scritto che le beatitudini sono i modi d'essere di quanti appartengono al Regno.
Come tali esse non sono conquistate o meritate, ma sono unicamente partecipate.
Ed è lo Spirito Santo il dinamismo interiore che, diventando principio attivo di vita nel discepolo, e sua legge personalizzata, partecipa a lui le energie del Regno.
Vorremmo mostrare come tale dinamismo avvenga in una integrazione tra antropologia e grazia attraverso tre passaggi: anomia, eteronomia, autonomia.
L'anemia, etimologicamente, assenza di leggi, è lo stato della persona condotta dai bisogni primari.
Tutto è lasciato all'istintività e alla ricerca immediata d'ogni tipo di gratificazione sensibile.
Oltre che di uno stadio della vita legato ad una certa età, infantile - adolescenziale, si tratta d'una dimensione dell'esistenza umana che è presente, almeno allo stato latente, a qualunque età.
È la componente trasgressiva del soggetto.
Mentre le beatitudini germogliano dal desiderio di compiutezza e di armonia tra le varie facoltà, interne ed esterne, che il soggetto avverte nel profondo del proprio io, l'anemia nasce invece da quella componente di indeterminatezza, confusione e non finalizzazione, che coinvolge istintivamente le stesse facoltà.
Si tratta di quel fondo luminoso, l'apertura delle beatitudini, e di quel fondo oscuro, la predisposizione all'anomia, che coabitano in ogni soggetto umano.
San Paolo parla di « uomo spirituale » e di « uomo carnale ».
Lo stato di anomia può anche teorizzare il rifiuto di qualunque finalità, ordine, disciplina.
L'anemia può essere subita, poiché divampa improvvisa per cause psicofisiche o circonstanziali; ricercata, poiché legata all'incancellabile attitudine del soggetto al fascino dell'indeterminato e dell'oscuro; provocata, poiché conseguente a precedenti scelte di approssimazione e trasgressività.
L'eteronomia, etimologicamente, legge esterna, nasce dall'esigenza del soggetto di darsi delle norme come limiti ad un disordine non più vivibile.
L'indeterminatezza dell'anemia giunge infatti a provocare insignificanza, isolamento, aprogettualità.
Si avverte la necessità d'una regola, d'un metodo, d'una disciplina.
La logica seguita è solitamente quella dell'interesse, non quella dei valori.
Ci si determina a darsi, o ad accettare delle regole, non perché se ne riconosca il valore intrinseco ma perché se ne ammettono i vantaggi esterni.
In questo senso anche l'autorità riveste soltanto una funzione motrice, garantista e pedagogica, ma non le si riconosce facilmente un valore in se stessa.
Sovente la vita cristiana ha una impostazione soltanto eteronoma: essa si caratterizza per una serie di obblighi, di pedaggi da pagare; la precettistica ha il sopravvento: dai diversi impegni della vita etica personale e sociale, all'obbligo della virtù di religione, preghiera e sacramenti.
In una visione siffatta si potranno anche costruire dei soggetti adempienti, e, alla lettera, moralmente ineccepibili, ma si è non solo lontani, ma totalmente al di fuori, dallo spirito delle beatitudini.
Nello stato di eteronomia si obbedisce ad una legge esterna non per una raggiunta convinzione interiore, come avviene nelle beatitudini, ma per un obbligo o una convenienza.
L'autonomia, etimologicamente, legge interiorizzata, costituisce quello stato in cui il soggetto è guidato nelle proprie scelte non da un movente esterno ma da una consapevolezza interiore, personalizzata.
La legge è interiore a lui, anzi si identifica con le sue stesse convinzioni; per questo egli diventa legge a se stesso.
L'io autonomo è tale non perché rifiuta la legge esterna ma perché la obbedisce non più come legge esterna, ma come legge personale, interiore.
L'io autonomo è un soggetto libero non perché fa quello che vuole ma perché vuole quello che fa.
E non può che volere quello che interiormente gli è comandato perché solo in esso egli riconosce il proprio bene, la propria beatitudine.
Per questo l'io autonomo è al tempo stesso il più libero perché si autodetermina a scegliere ciò che responsabilmente ha deciso, ed anche il più dipendente perché non può scegliere se non ciò in cui riconosce il proprio bene.
L'uomo non è libero di scegliere il male.
E l'autonomia dell'uomo libero coincide con la sua dipendenza dal bene.
Infatti l'uomo è libero solo quando è fedele.
Il bene che rende libero l'uomo non può che essere il Sommo Bene, Dio.
In lui l'uomo trova tutta la propria autonomia e la propria dipendenza.
Innanzi a lui l'uomo manifesta la propria libertà nell'adorazione.
L'uomo non è mai così libero come quando adora il suo Dio.
L'uomo totalmente riferito all'Assoluto è l'uomo totalmente autonomo.
L'uomo adorante non è l'uomo alienato, ma l'uomo pienamente restituito a se stesso.
La prostrazione, la lode, la benedizione, l'offerta, il rendimento di grazie sono segni di libertà.
Gli spazi della più totale fedeltà, siano essi il monastero o il matrimonio, diventano gli spazi della più gioiosa libertà.
Le beatitudini evangeliche si radicano sulla capacità dell'uomo a diventare un soggetto autonomo e conducono queste capacità creaturali ad orizzonti totalmente nuovi, grazie alla Pasqua del Signore.
Come Gesù, nella sua relazione con il Padre, è al tempo stesso autonomo e obbediente, così il discepolo del Vangelo partecipando, per la grazia delle beatitudini, al mistero della filiazione dal Padre, diventa anch'egli autonomo e obbediente.
Per il cristiano, reso conforme al Maestro, la libertà coincide con la fedeltà.
Scrive san Tommaso, nel suo commento all'espressione paolina « Dov'è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà » ( 2 Cor 3,17 ): « L'uomo libero appartiene a se stesso; lo schiavo, invece, appartiene al suo padrone.
Così chiunque agisce da sé agisce liberamente, mentre colui che riceve da un altro il proprio movimento non agisce liberamente.
Pertanto colui che evita il male non perché è male, ma a motivo di un precetto del Signore - vale a dire per la sola ragione che 'è proibito' - costui non è libero.
Ora proprio questo è quanto opera lo Spirito Santo, il quale perfeziona interiormente il nostro spirito comunicandogli un dinamismo nuovo ( la grazia ), per modo che egli si astiene dal male per amore, come se glielo comandasse la legge divina.
E così egli è libero, non in quanto è sottomesso alla legge divina, ma perché il suo dinamismo interiore lo porta a fare ciò che la legge divina prescrive » ( II Ad Cor. 112 ).
Il contenuto morale delle beatitudini è il culmine di un lungo itinerario: esse suppongono dei fondamenti che le precedono e senza dei quali non sembrano poter reggere.
Tali fondamenti sono costituiti dalle « dieci parole » consegnate da Dio a Mosé.
Il percorso etico del discepolo di Cristo va dal decalogo alle beatitudini.
Queste, sono il culmine e il compimento nuovo di quello che Gesù dice: « Non sono venuto ad abolire ma a portare a pienezza ».
Tale compimento della vita morale, non più circoscritta in una precettistica minimalista, è segnalato da Gesù quando egli afferma che i suoi discepoli sono chiamati a partecipare della stessa santità di Dio: « Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli » ( Mt 5,48 ).
L'indicazione del decalogo come fondamento dell'esistenza etica del cristiano è presente nel racconto evangelico del grande quesito posto a Gesù: « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ».
«Se vuoi entrare nella vita, risponde il Signore, osserva i comandamenti ».
L'interlocutore riprende: « Quali? ». E Gesù precisa: « Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso » ( Mt 19,16-19 ).
Stupisce che un israelita osservante chieda « Quali? ».
Denuncia una ignoranza non facilmente giustificabile.
In realtà il nuovo interrogativo posto a Gesù rivela la difficoltà, anche per l'osservante, a distinguere i precetti veramente essenziali da quelli accessori, data la complessità e la minuzia delle regole imposte dai rabbini.
Il Maestro comprende l'imbarazzo del suo interlocutore e pare voglia dirgli di abbandonare la particolareggiata precettistica rabbinica per attenersi solo a quanto è fondamentale, il decalogo.
È questo l'unico episodio narrato nei Vangeli in cui Gesù fa esplicito riferimento ai dieci comandamenti e con estrema chiarezza li dichiara incancellabili e decisivi per l'esistenza etica dei suoi discepoli.
Gesù è un giudeo, fedele all'autentica tradizione religiosa del suo popolo, e non può stupire che egli ribadisca l'importanza della genuina normativa di Israele.
Soltanto, innanzi all'importanza che egli attribuisce all'osservanza del decalogo, nasce un duplice quesito: primo, i cosiddetti precetti negativi, cioè i divieti, quale valore hanno per il cristiano? secondo, in che cosa la morale del Nuovo Testamento si differenzia da quella dell'Antico?
Il primo quesito trova risposta anzitutto nelle scienze umane.
Esse affermano che il « divieto » è indispensabile nella formazione d'una personalità matura.
Il processo d'identificazione del soggetto esige la limitazione del desiderio e l'introiezione del senso del confine, vale a dire del senso della proibizione.
È questo l'itinerario essenziale per porre argine al criterio del piacere, e collocare il soggetto nel « reale » inteso come ambito contradditorio da armonizzare tramite un tessuto di « norme ».
Queste gli consentiranno di entrare in vero contatto con sé e con gli altri.
Tale processo di armonizzazione comporta un'opera di contenimento delle spinte primordiali dell'io ( istinti e pulsioni ).
Solo così andrà determinandosi ed emergendo il profilo unificato dell'io.
Questo è l'obiettivo di un vero progetto educativo.
Regole precise e figure valoriali di riferimento sono i mezzi essenziali di cui si avvale questo percorso, sia per far emergere le potenzialità del soggetto, sia per costruire positivamente la sua personalità, liberandola dalla dipendenza dalle proprie passioni disordinate e dal conseguente rischio della frantumazione.
Il precetto negativo, dunque, come lo impone anche il dettato dell'Antico Testamento, appare qui in tutto il suo valore formativo della persona.
È chiaro che l'introiezione del divieto, come impegno responsabile che il soggetto si assume in vista della costruzione del proprio io, è il frutto d'un intelligente lavoro di interazione nelle comunicazioni educative, esenti da ogni forma di autoritarismo in colui che educa e, di conseguenza, immuni da stati di frustrazione, con depressione o rivolta, in colui che è educato.
Si tratta d'un processo che mira all'autoformazione tramite una proposta significativa di valori nei quali il soggetto possa sempre verificare la garanzia della propria libertà.
È chiaro che la maturazione della persona attraverso l'assunzione del precetto negativo poggia su un rapporto educativo che sia « promettente » e, pertanto, necessariamente « asimmetrico ».
Il secondo quesito incontra la sua risposta nella constatazione che la pedagogia di Dio nella storia salvifica ha tenuto conto della suddetta esigenza antropologica, ma non si è fermata ad essa.
Il decalogo ha l'obiettivo di strutturare secondo uno statuto obbedienziale la coscienza di Israele.
Il popolo ebraico è fedele alla propria identità di popolo in quanto permane in uno stato obbedienziale di ascolto del Dio che gli parla.
Lo « shemà » ( ascolto ) costituisce l'io individuale e collettivo degli ebrei.
Gesù conferma la funzione strutturante delle « dieci parole », ma introduce una loro nuova interpretazione che nasce dalla presenza del Regno di Dio in mezzo agli uomini.
Non è più la sapienza maturata con l'osservanza della legge, che è il grande dono di Dio, a partecipare all'uomo la salvezza, ma è l'opera totalmente gratuita di un altro, il Cristo, che dona all'uomo una nuova giustizia.
È la grazia, partecipata all'uomo col battesimo sgorgato dalla pasqua di Gesù, il dinamismo totalmente nuovo che consente una adesione interiore al bene, prima sconosciuta.
Il dinamismo nuovo è il regno di Dio operante nell'uomo.
Dal regno di Dio interiorizzato germogliano le beatitudini.
L'inclinazione al disordine, alla non finalità, originata nell'uomo col peccato originale, non si estingue neppure con la partecipazione alla vita del regno.
L'uomo rimane una creatura ferita, fatto per il bene, ma continuamente sviabile e catturabile dal male, anche dopo l'avvento in lui della grazia.
Per questo la disponibilità alla logica del regno è strettamente connessa con l'opera di contenimento nei confronti della propria natura, che comporta un serio e continuo itinerario di ascesi.
Il senso del confine e del divieto mantengono per il cristiano tutto il loro valore pedagogico.
Presumere di poter prescindere dai precetti negativi significa non voler tenere conto della reale condizione umana.
La vita morale cristiana ha nel tracciato delle beatitudini la sua pienezza.
Esse manifestano la struttura interiore dell'uomo nuovo, rigenerato dalla pasqua di Gesù.
Non sono però acquisibili senza l'impegno dell'uomo alla lotta contro il peccato, ne sono mantenibili senza il permanere in stato di continua conversione.
Esiste quindi nel percorso etico della sequela evangelica una perenne tensione: dal precetto del decalogo, che ha un carattere negativo, preciso e definito, alla proposta delle beatitudini, che è positiva, aperta e dinamica, nell'orizzonte del « già e non ancora » tipico del regno di Dio.
La morale delle beatitudini non può essere intesa, in reazione verso una morale tendenzialmente minimalista, come abrogazione del precetto negativo, tipico del decalogo, ma come integrazione del « divieto », sempre necessario per l'uomo « viator », entro la realtà escatologica delle beatitudini che anticipano, già lungo il pellegrinaggio, i beni futuri.
Possiamo ulteriormente riflettere circa il rapporto che Gesù instaura tra la legge mosaica e la nuova legge dello Spirito che nasce dalla sua Pasqua, allo scopo di meglio evidenziare l'effettiva originalità etica del messaggio neotestamentario.
Chiediamoci in merito se non è possibile che egli abbia ribadito la legge mosaica, con l'aggiunta di alcune beatitudini - per altro già conosciute dai suoi ascoltatori - o se invece abbia davvero proposto uno statuto morale radicalmente nuovo.
Dato che l'Antico Testamento, e gli scritti rabbinici, contengono testi corrispondenti a quello del capitolo quinto di Matteo è legittimo domandarsi in che cosa consiste esattamente la novità etica del Nuovo Testamento.
Dopo la proclamazione delle beatitudini, Matteo riferisce queste parole del Maestro: « Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli » ( Mt 5,20 ).
E a conferma che la nuova giustizia è diversa da quella antica, prosegue elencando le sei « antitesi »:
« Avete inteso che fu detto agli antichi: non uccidere … ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio.
Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio ma io vi dico: chiunque guarda una donna …
Fu pure detto: chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto del ripudio, ma io vi dico …
Avete inteso che fu detto agli antichi: non spergiurare, ma adempì con il Signore i tuoi giuramenti … ma io vi dico: non giurate affatto …
Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente, ma io vi dico di non opporvi al malvagio, anzi se uno ti percuote sulla guancia destra …
Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico, ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siete figli del Padre vostro celeste » ( Mt 5,21-45 ).
Da questo testo appare indubbia la novità della morale proclamata da Gesù ( esclusione d'ogni violenza, proibizione del divorzio, obbligo di amare i nemici … ), ma rimane aperta la domanda se tale novità etica si ponga in alternativa o in continuità con quella antica.
Anche al riguardo il testo del Vangelo è perentorio.
Gesù non ha mai inteso contrapporre il suo messaggio a quello dell'Antico Testamento: « Non pensate che io sia venuto a demolire ( abolire ) la legge o i Profeti; non sono venuto per demolire ma per dare compimento.
In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno della Legge, senza che tutto sia compiuto » ( Mt 5,17-18 ).
La validità imperitura del decalogo è affermata da Gesù con assoluta chiarezza, e al tempo stesso è indicato un sostanziale mutamento di prospettiva, che è contenuto nel messaggio delle beatitudini, ritenuto per questo, a ragione, la « Magna Charta » del Cristianesimo.
Esiste una premessa fondamentale fatta da Gesù al discorso della montagna, e quindi alle beatitudini, che di tale discorso sono considerate il « portale ».
Tale premessa costituisce il presupposto indispensabile, senza del quale le otto beatitudini non sono comprensibili.
Concludendo il capitolo IV del suo Vangelo, Matteo riferisce le parole con cui Gesù apre la sua predicazione: « Convertitevi, perché il regno dei cieli è giunto » ( Mt 4,17 ); poi narra la chiamata dei primi quattro discepoli, ai quali dice « Seguitemi, vi farò pescatori di uomini » ed infine racconta l'avvio dell'opera di Gesù: « … andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e infermità nel popolo » ( Mt 4,18-23 ).
Da questi testi emerge chiaro che il Vangelo è lo svelamento dell'iniziativa di Dio verso l'uomo, molto più che l'esortazione all'uomo a dare risposta all'iniziativa di Dio.
Il comportamento dell'uomo avviene sempre in seconda battuta, come conseguenza del movimento gratuito di Dio.
La conversione si fa possibile e urgente per la grazia del regno ormai giunto; i primi discepoli seguono il Maestro solo dietro la sua chiamata lungo la quale sarà lui, non il loro merito, a « farli » pescatori di uomini; ed infine le « grandi folle cominciarono a seguirlo » ( Mt 4,25 ) soltanto dopo che lui ha annunciato la buona novella del regno e ha guarito « tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici » ( Mt 4,24 ).
Il quadro che Matteo ci offre proclama con estrema chiarezza che il regno di Dio irrompe nel mondo nella persona di Gesù di Nazareth in assoluta gratuità.
Esso non è concesso da Dio agli uomini come un premio alla loro buona condotta, né come un merito acquisito per una osservanza coerente.
Il regno di Dio giunge, attraverso Gesù, suscitando stupore, meraviglia, rendimento di grazie, ed anche scandalo e resistenze, in ragione della sua novità non preventivata e, per molti aspetti, sconcertante.
Su questo fondamento, e solo su di esso, le beatitudini trovano la loro collocazione.
Esse non sono, come già si è accennato, delle condizioni morali per entrare nel regno, ma indicano i comportamenti morali di coloro che già appartengono al regno.
Le beatitudini descrivono la vita etica di Gesù, l'unico che le ha integralmente praticate, come pure delineano la vita di coloro che, resi per grazia conformi al Cristo, conducono una esistenza morale simile alla sua.
Le beatitudini non costituiscono un codice morale esterno che il discepolo si propone e si sforza di seguire, ma sono le qualità dell'uomo inferiore, della nuova creatura, che dimora nel discepolo.
Esse chiedono acconsentimento e responsabilità, fedeltà ed obbedienza, da parte del cristiano, ma esse non sono in nessun modo i frutti della sua autodeterminazione, ma l'epifania del Cristo che nel discepolo, per mezzo dello Spirito, ha fissato la sua dimora.
Anche l'osservanza del decalogo da parte del pio ebreo non è solo opera del soggetto, vale a dire che non è frutto del solo impegno della volontà; anche in lui la giustizia di Dio opera partecipandogli una sapienza religiosa che corrobora la sua volontà.
In questo senso l'etica dell'Antico Testamento non è un puro razionalismo, ma è già frutto dell'intervento di Dio.
Nella nuova economia della grazia, instaurata dal mistero pasquale di Gesù, questa linea di tendenza giunge alla sua pienezza.
Nel mistero cristiano il contenuto della sequela, o delle beatitudini, è attuato non solo grazie ad un dono di sapienza divina partecipata al discepolo, ma grazie all'opera stessa di Dio che, tramite lo Spirito di Cristo, compie direttamente nel discepolo la pienezza della legge evangelica.
San Paolo afferma « Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me » ( Gal 2,20 ).
Le beatitudini sono perciò opera dello Spirito Santo , il quale, ordinariamente, agisce dietro acconsentimento del cristiano.
Si tratta però di un acconsentire, certo responsabile e sovente faticoso, ma non tale da far ritenere al soggetto che la logica delle beatitudini sia in qualche modo di sua pertinenza.
Il discepolo del Vangelo avverte innanzi alle beatitudini la propria inadeguatezza e la loro gratuità.
La novità della vita morale cristiana, che si esprime nel farsi povero, puro di cuore, mite, pacifico, misericordioso, porta il discepolo al medesimo verace riconoscimento che fu espresso in modo incisivo da san Paolo: « Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me » ( Gal 2,20 ).
È il Cristo risorto, l'unico vero depositario delle beatitudini, che di esse, tramite l'opera dello Spirito Santo rende partecipi coloro che si pongono alla sua sequela.
La tradizione della sapienza cristiana contiene, per quanto concerne il conseguimento della maturità morale, due grandi criteri di conformazione a Cristo.
Essi riguardano la Parola di Dio e i sacramenti, e vengono solitamente espressi con queste formule: « Noi diventiamo colui che contempliamo », « Noi ci mutiamo in colui che celebriamo » ( San Leone Magno, Sermone 63, 7 ).
Soggiace a queste affermazioni una peculiare teologia dell'ethos cristiano.
Il discepolo di Gesù non è semplicemente il soggetto umano che orienta le proprie facoltà inTeriori, intelligenza, volontà, affetti, al mistero di Cristo, ma è colui che è assimilato a quello stesso mistero.
Il nuovo comportamento, la nuova morale, che egli assume, non è un insieme di osservanze che gli sono giustapposte dall'esterno, ma un modo di scegliere, di decidere, di comportarsi che germogliano in lui dall'interno.
Un racconto presente in molti autori greci del v secolo narra di un fenomeno naturale letto in chiave teologica: nelle notti estive quando si accende un falò, le farfalle, attratte dalla luce, volano verso la fiamma, ma, non avvertendo il calore, si incendiano, diventando fuoco.
Questo, commentano gli autori sacri, è il destino dell'anima cristiana.
Essa è lentamente divinizzata, mutata in Dio.
La teologia orientale chiama « theosis » questo processo di assimilazione.
Dal punto di vista più specificatamente morale è opportuno riflettere su alcuni aspetti di tale dinamismo trasformante, i quali trovano un singolare riscontro nella teologia delle beatitudini.
Facciamo ancora riferimento ad altro principio che l'antica sapienza cristiana ci ha consegnato circa le modalità del processo di conversione.
Tale principio si esprime, in modo lapidario, così: « Gli ostacoli diventano i nostri veicoli ».
Questo significa che il cambiamento di mentalità e di costumi, cioè quel processo di trasfigurazione sopra accennato, che è esigilo dalla morale cristiana, non avviene tanto contro, e malgrado, la struttura temperamentale del soggetto, ma piuttosto attraverso di essa.
Anzi potremmo affermare che la matrice da cui si genera il difetto del soggetto è quella stessa che pone in essere il suo pregio.
E nell'indole passionale di Pietro che risiede sia la sua impulsività, che lO rende vulnerabile e fragile, sia la sua generosità che lo rende ardimentoso e fedele.
La tensione morale del cristiano non consiste perciò anzitutto nel combattere la propria indole, ma nell'orientare al bene le energie che essa contiene.
Studi recenti hanno rilevato che dal medesimo impianto temperamentale possono emergere figure di statura morale molto diversa.
Le riflessioni fatte precedentemente circa l'integrazione tra precetto negativo o divieto ( decalogo ), e proposta positiva ( beatitudini ) trovano qui la loro conferma.
In questo processo di rielaborazione le beatitudini evangeliche costituiscono il punto culminante dell'opera trasfigurante raggiunta dalla grazia e dalla responsabile accondiscendenza del soggetto, all'interno di un determinato vissuto umano.
Ciò significa che, restando le beatitudini nella loro totalità l'obiettivo globale di ogni esistenza cristiana, ciascuna di esse potrà diventare peculiare, o assumere particolari accentuazioni, entro la specifica struttura antropologica, o la storia singolare, di un determinato soggetto.
Così la beatitudine della povertà caratterizza in modo unico il profilo morale di Francesco d'Assisi, il quale è, per inclinazione naturale e per educazione familiare, sensibilissimo alla presenza di persone e cose, verso tutte le quali è colmo di rispetto e amore, ma nei cui riguardi matura un distacco ed una libertà del tutto singolari.
La beatitudine della povertà, vissuta da questo discepolo del Vangelo, non è, in nessun modo, indifferenza o disprezzo nei confronti delle creature, ma il modo trasparente, tipico di chi appartiene al Regno, per riconoscere che ciascuna di esse « di Dio porta significatione ».
La grazia tipica della povertà consiste nel trasfigurare le creature da « idoli » a « icone ».
Nel caso di Francesco il forte legame con tutto ciò che lo circonda, invece di costituire un ostacolo alla sua statura morale, diventa - per grazia e per impegno - un veicolo oltre che per raggiungerla, anche per manifestare in essa la luce peculiare di chi, pur provato « dalla fame e dal freddo », e percosso « con uno bastone nocchieruto », custodisce « perfetta letizia » ( FF 1836 ).
Potremmo qui annotare che se in Gesù di Nazareth tutte le beatitudini sono vissute in modo sommo, nei suoi discepoli esse risplendono in modo differenziato, proprio tenendo conto della diversa vocazione di ognuno, radicata anche nella diversa struttura dei soggetti.
Non a caso la Chiesa venera diverse categorie di santi, apostoli, martiri, vergini, pastori, confessori, nella cui personalità le otto beatitudini evangeliche trovano un diverso riflesso.
È opportuno allora sottolineare che la vicenda morale di ogni cristiano, essendo frutto della « sinergia » convergente dello Spirito Santo e della consapevole determinazione di ognuno, comporta, per quanto concerne il tracciato delle beatitudini, non soltanto un responsabile accondiscendere alla Grazia, ma anche una avveduta attenzione ai contenuti di quelle particolari beatitudini che, ordinariamente, corrispondono alla vocazione del soggetto.
Per esempio, nella formazione del giovane che si prepara ad essere pastore, se la beatitudine della mitezza è - come pare - costitutiva della carità pastorale, il candidato non può che essere attento, non certo a conseguire tale beatitudine ( il che negherebbe tutte le riflessioni fatte finora ), ma a studiare quegli aspetti della propria personalità che domandano di essere « convertiti » alle esigenze della beatitudine suddetta.
Si instaura qui un processo di « rielaborazione » del proprio vissuto che appare fondamentale per il profilo morale del soggetto.
Per « rielaborazione » si intende anzitutto il superamento d'una visione statica della maturità, secondo la quale persone moralmente significative sarebbero soltanto coloro che, all'interno del proprio vissuto, abbiano cancellato tutti gli stati conflittuali e che sappiano, in qualunque circostanza, presentarsi - sempre e comunque - all'altezza della situazione.
Sul versante positivo « rielaborazione » significa l'acquisita capacità di intervenire sugli aspetti carenti del proprio assetto morale con la ferma fiducia che il materiale da costruzione di cui ognuno dispone è stato redento da Cristo, ed è pertanto, anche se ferito dal peccato, potenzialmente idoneo ad essere assunto entro il progetto della propria santificazione.
È come se le pietre di un edificio cadente - quelle stesse pietre e non altre - venissero utilizzate per costruire un edificio nuovo.
Anzi, le vecchie pietre, grazie al rielaborato progetto, portano al nuovo edificio una singolare, a volte imprevista, bellezza.
Secondo san Tommaso esiste uno stretto rapporto tra virtù, teologali e morali, doni dello Spirito Santo, e beatitudini.
A questo argomento egli dedica diversi articoli della Somma Teologica ( I-II, 69, 5, 4; II-II, 8,9, 19, 45, 52, 121, 159, 141 ).
Le beatitudini rappresentano il culmine e il coronamento della vita cristiana, anche se, a differenza delle virtù e dei doni, non sono abiti, ma atti, come ad indicarne il carattere di straordinarietà.
Il Vangelo ne segnala simbolicamente alcune, ma il loro numero non conosce limiti.
La dottrina tomista indica pure la stretta corrispondenza tra ciascuna delle virtù infuse ( teologali o morali ) e ognuno dei sette doni con ciascuna delle beatitudini.
All'interno di tale dottrina sembra doversi sottolineare una tensione teologica che concerne in modo peculiare il rapporto tra vita morale del cristiano e beatitudini.
San Tommaso evidenzia che il passaggio dalle virtù alle beatitudini procede nel senso di un intensificarsi della gratuità di Dio nei confronti dell'uomo, come se il vissuto virtuoso comportasse una collaborazione del soggetto che va lentamente diminuendo nel percorso dalle virtù ai doni, e da questi alle beatitudini, grazie ad un intervento sempre più immediato e abbondante dello Spirito Santo.
Un autore spirituale del 1600, Louis Lallemant ( 1587-1635 ), scrive: « Si è soliti paragonare coloro che sono guidati dai doni dello Spirito Santo a una nave che procede a gonfie vele, con il vento in poppa; e quelli che sono guidati dalle virtù, e non ancora dai doni, a una scialuppa che viene spinta avanti a forza di remi, con molta più fatica e fracasso, e assai più lentamente …
Non essendo ancora così partecipi dei doni dello Spirito Santo, noi dobbiamo ancora lavorare e sudare nella pratica della virtù.
Siamo simili ai naviganti che avanzano a colpi di remo, con il vento e il mare contrari » ( Dottrina Spirituale, IV Principio, art. 2, 2, 5 ).
Le beatitudini costituiscono « il punto culminante e il coronamento definitivo, sulla terra, di tutta la vita cristiana » ( A. Royo Marin, Teologia della perfezione, p. 196 ).
L'etica delle beatitudini, nel tracciato descrittivo che essa ci offre - povertà, mansuetudine, lacrime, fame e sete di giustizia, misericordia, purezza di cuore, pace e persecuzione a causa della giustizia - presenta un quadro simbolicamente completo e per nulla astratto dell'esistenza umana.
Abbiamo già detto che si tratta del percorso autobiografico dello stesso Gesù di Nazareth.
La vita del cristiano dunque, per essere un'esistenza edificata secondo le categorie del regno, non è affatto, e non può essere, un'esistenza disincarnata e astorica.
È dentro i fatti concreti del vissuto quotidiano, e non accanto ad essi, che il discepolo porta a compimento il profilo morale del proprio io, riconoscendo in ogni vicenda un appuntamento offerto da Dio per il conseguimento della propria statura adulta in Cristo.
Sotto questo aspetto può ancora mettersi in evidenza l'assoluta novità del regno nei confronti delle vicende ordinarie entro le quali il cristiano vive.
Infatti, nell'enunciato delle beatitudini, la forza della novità consiste tutta nell'inizio del proclama di Gesù e nella sua conclusione, così come sono espressi nel primo « macarismo », con le parole « beati », « Regno dei cieli ».
Non è la povertà o la persecuzione che, in loro stesse, possono essere ritenute beate, ma è la visita di Dio in coloro che le vivono, che fanno di queste realtà una fonte di bene.
La medesima esperienza umana può essere pertanto occasione di rivolta o sorgente di pace, a seconda dell'accondiscendenza alla logica del regno da parte del soggetto.
È chiaro dunque che senza Gesù crocifisso e risorto non esistono beatitudini.
Dal riconoscimento che in ogni vicenda storica esiste una possibilità di beatitudine, emerge un altro criterio per l'esistenza morale del cristiano.
Le beatitudini non nascono soltanto all'interno di situazioni che si determinano in ragione della fede cristiana, come ad esempio la persecuzione per la testimonianza resa al Vangelo, ma trovano il loro spazio di attuazione nelle vicende più ordinarie del vivere.
Non si pensi perciò che debbano « crearsi » peculiari circostanze di prova perché solo al loro interno si potrebbe verificare la beatitudine, ma si assumano tutti gli aspetti della comune vicenda umana come occasioni che consentono, in ragione della Pasqua di Gesù, di trasfigurare in « zolla » beata del regno quella che potrebbe essere soltanto una frustrante esperienza negativa.
In questa luce esistono tante beatitudini quante sono le circostanze di vita dei discepoli: beati nell'incomprensione e nella malattia, beati nell'insuccesso coniugale e nell'incapacità a comunicare col figlio, beati nella delusione ecclesiale e nella non progettualità pastorale, beati nella difficoltà economica e nel distacco dalle persone amate, beati nell'ingratitudine e nella dimenticanza.
Le beatitudini costituiscono dunque, anzitutto per Gesù di Nazareth, e, per partecipazione, anche per i suoi discepoli, lo stile d'una vita diversa.
Ora, la vita di Gesù, che è sempre rivelativa della carità del Padre, adempie a questo suo compito, sostanzialmente, in due modi di amare.
Un primo modo è, potremmo dire, omogeneo al modo umano di voler bene; un secondo modo è invece disomogeneo ai costumi ordinari.
Nel primo modo rientrano tutti gli interventi di Gesù, in parole e gesti, di cui è umanamente verificabile il significato e l'efficacia perché corrispondono ad una attesa dell'uomo.
Tali ad esempio le sue prese di posizione a favore dei poveri, degli ammalati, degli ultimi in genere.
In questa categoria di interventi rientrano sia i miracoli, sia le sue parole di denuncia verso ogni abuso e di speranza nei confronti d'una promessa di giustizia e di libertà.
Nel secondo modo rientrano invece tutte le parole e i gesti di Gesù che sono del tutto contradditori al comune modo di sentire dei suoi ascoltatori, quali il dono totale della vita, il perdono delle offese, l'amore per i nemici.
Momento supremo, ed incomprensibile per chi non ha fede, è il sacrificio della croce.
Su questo stile di Gesù, a volte omogeneo e, più volte, disomogeneo ai criteri comuni, si articola anche tutta la vita dei suoi discepoli.
Essi sono chiamati a vivere come situazione di beatitudine sia le circostanze della vita in cui è facile riscontrare storicamente un vantaggio, ad esempio il volontariato e la promozione umana, o la denuncia di ingiustizie o l'ampio impegno per la pace, sia situazioni in cui non solo non è verificabile, almeno a prima vista, nessun vantaggio sociale, ma in cui facilmente il cristiano può essere non compreso o anche irriso.
A questo secondo ordine di circostanze appartengono il servizio alla vita, dalla nascita al tramonto, la visione cristiana della sessualità in tutte le sue tappe, e in genere l'esercizio, a volte eroico, della virtù nella vita familiare, professionale, civica, politica, ed in genere tutte quelle scelte il cui significato non sia di immediata evidenza.
Si pensi ad esempio al radicalismo di alcune vocazioni, ove, secondo la sapienza cristiana, si attua il cosiddetto « martirio bianco », quali la vita monastica o, in genere, la verginità per il regno in tutte le forme di speciale consacrazione.
In queste esperienze di frontiera è reso manifesto che solo la Pasqua del Signore può rendere attuabile ciò che alla mente e al cuore sembra ordinariamente impossibile.
Anche se - vale la pena notarlo - il Vangelo delle beatitudini vissuto in alcune scelte cristiane, ad esempio la verginità per il regno, appare a volte non più una carta perdente, ma, per grazia, viene letto come una misteriosa promessa ed una benedizione anche da parte di chi non osa professarsi credente.
Ciò accade allorquando chi vive quella scelta cristiana lascia trasparire, senza accorgersene, che la scelta « diversa », da lui compiuta per il regno di Dio, è lo spazio autentico della propria libertà e della propria gioia.
Appare così come il contenuto etico, comportamentale, delle beatitudini si traduca in testimonianza resa al Vangelo.
Su questo una ulteriore, rapida, riflessione.
L'esistenza morale, costruita nello spirito delle beatitudini, rinvia necessariamente al mistero di Gesù di Nazareth, e di lui, la cui vita è l'unica totalmente compiuta secondo le beatitudini, il cristiano richiama, sia pure confusamente, il profilo e i contorni, e ne diventa concreta presenza.
La Parola e i Sacramenti sono i mezzi ordinari di cui lo Spirito Santo si serve per partecipare al cristiano le beatitudini di Gesù.
Il discepolo vive allora, nel profondo della propria coscienza morale, una tensione di paradossale storicità.
Da una parte egli diventa contemporaneo di un evento realmente a lui precedente, dalla cui divina energia riceve ispirazione e consistenza.
D'altra parte egli è presente nella singolare situazione del proprio momento storico, in circostanze culturali, politiche, sociali, affettive, relazionali, ben determinate.
Egli rivive misteriosamente l'esperienza di Gesù di Nazareth, e, al tempo stesso, vive la propria, ineludibile, esperienza i cui confini sono storicamente ben definiti.
La vita morale, in quanto è vita secondo lo Spirito, fa di lui l'uomo della memoria creativa e non della ripetitività imitativa.
Situazione di memoria creativa significa capacità dell'avvenimento unico, assoluto, irripetibile, che è Gesù Cristo, di partecipare il proprio profilo interiore di Uomo Nuovo, primogenito di una nuova umanità, ad altri uomini, temporalmente e culturalmente, lontani da lui, senza che essi perdano in lui la propria identità, ma la ravvivino in lui d'uno splendore unico, originale, imprevisto. In questo mistero, in cui il Cristo assimila a sé il discepolo, quest'ultimo giunge a dire con san Paolo: « Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me » ( Gal 2,20 ).
In questa conformazione al Maestro, il discepolo, per la creatività dello Spirito di Gesù, non è semplice ripetizione, fotocopia del Maestro, ma una esperienza nuova di lui, una sua rielaborazione, una parola nuova da lui pronunciata.
I santi che altro sono se non modi nuovi di ridire nella storia l'unico Cristo?
Questa progettualità creativa, inerente alla vita morale, è tanto più significativa se si pensa che sovente la vita morale è recepita come statica, piatta, iterativa del già vissuto, mentre invece si intende qui affermare che una vita etica, costruita secondo il tracciato delle beatitudini, è frutto dell'opera dello Spirito Santo, e perciò stesso depositarla d'una continua, ininterrotta, novità.
In questo senso il cristiano non ha modelli da imitare, né Gesù medesimo è un modello, ma il cristiano rivive entro di sé, in modo originale e partecipato, quello che Cristo ha vissuto e che altri discepoli, ciascuno secondo una propria fedeltà, hanno, per grazia e per responsabilità propria, sperimentato.
Anche l'aureo, sapientissimo, libretto Imitatio Christi va interpretato come « partecipatio » al mistero di Cristo.
Da ultimo, rileviamo che l'inserimento del discepolo nel mistero di Cristo, sorgente in lui della morale delle beatitudini, avviene sempre, necessariamente, entro un tessuto storico di relazioni che è consentito di poter vivere unicamente nella comunità concreta dei credenti, che è la Chiesa.
Non si tratta di una sovrastruttura aleatoria, opzionale, ma di una dimensione costitutiva dell'identità cristiana.
È risaputo che non si dà vera professione di fede cristiana se non nell'appartenenza ecclesiale; forse è meno noto che ugualmente non può darsi genuina esperienza morale se non nel discernimento che sul proprio vissuto il cristiano chiede e invera entro una concreta comunità di credenti.
Si può ritenere, a prima vista, che in genere il riferimento alla Chiesa, e in particolare a chi in essa è sacramentalmente depositario dell'autorità, possa impoverire l'immediatezza del rapporto con Gesù di Nazareth.
Tale impoverimento, avendo presente la fisionomia di numerose nostre comunità, può essere, emotivamente, evidente, ma proprio in tale evidenza sta la sua debolezza.
È infatti il mistero della Chiesa, e non l'esperienza sensibile e gratificante che essa mi offre, il fondamento del mio riferimento a Cristo.
È nella Chiesa, sempre e comunque, e non fuori di essa, che la Parola di Dio è ascoltata e annunciata, e che i sacramenti sono celebrati.
E Parola e sacramenti sono la fonte sorgiva della vita morale cristiana.
Inoltre, per quanto concerne l'ideale e l'itinerario etico delle beatitudini, il riferimento ecclesiale a Gesù di Nazareth è tanto più indispensabile per quanto concerne la progettualità, l'attuazione e la verifica - discernimento di tale ideale e di tale itinerario.
Se è vero che il discepolo rivive le beatitudini evangeliche in quanto è uomo della memoria, è essenziale la sua appartenenza alla Chiesa perché ciò si attui, dato che la Chiesa è il luogo teologico della memoria di Gesù.
Solo alla luce della tradizione vivente della Chiesa il cristiano può essere certo di progettare, attuare, e discernere - verificare, la propria vita morale secondo lo spirito delle beatitudini, le quali costituiscono il patrimonio più antico e più prezioso dell'esperienza etica cristiana.
Come il nostro credere ci è giunto tramite la consegna ecclesiale del « depositum fidei » di generazione in generazione, così il nostro agire morale ci è giunto per mezzo della trasmissione ecclesiale del « deposito delle beatitudini » di generazione in generazione.
Potremmo dire che, come il simbolo apostolico è il segno di riconoscimento dell'autentica fede cristiana, così la « Magna Charta » delle beatitudini rimane il segno di riconoscimento dell'autentica morale cristiana.
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