Lettere circolari |
Ad maiorem Dei gloriam
Signori, « Nec quisquam eorum, quac possidebat, aliquid suum esse dicebal, sed crani, illis omnia communio ».
« Nessuno di essi considerava come proprio alcunché di ciò che possedeva, ma tutto era comune tra loro ». ( At 4,32 ).
Queste parole seguono immediatamente quelle che ci hanno fornito la materia della nostra ultima lettera.
Esse ne sono il seguito e lo sviluppo.
Lo Spirito Santo, dopo averci fatto vedere la grandezza della carità che regnava tra i primi cristiani, dicendoci che « essi avevano tutti insieme un solo cuore ed un'anima sola » ci mostra quale era esteriormente l'effetto di questa carità, quando subito aggiunge nel medesimo versetto che « nessuno di essi considerava come proprio ciò che possedeva, ma tra loro tutto era comune ».
Io non debbo scostarmi da questo cammino.
Dopo avervi richiamato che, essendoci riuniti in una medesima Società per riprodurre tra noi qualche immagine della Chiesa nascente, noi dobbiamo, sull'esempio dei primi cristiani, distinguerci per la più ardente carità; che la nostra vocazione e il nome che portiamo ce ne fa un particolare dovere; e che per questo abbiamo preso come divisa quelle due parole che ci esprimono tutta la forza della carità dei primi cristiani: « cor unum et anima una », è conveniente ripetervi che la nostra carità, essendo ricalcata sulla loro, deve produrre esteriormente lo stesso effetto e portarci, come essi, a comunicarci gli uni e gli altri quanto possediamo, di maniera che si possa dire anche di noi, con verità, per quanto forse in una maniera meno perfetta, che nessuno di noi possiede cosa alcuna come sua e che tutto è comune tra noi.
È ciò che mi propongo di fare in questa lettera, che può essere considerata come il seguito e lo sviluppo della precedente.
Per quanto sia uno dei caratteri essenziali della carità cristiana essere universale, non è meno evidente, come l'abbiamo notato, che questa carità mutua e perfetta la quale fa sì che parecchi abbiano tutti assieme un cuore ed un'anima, non può trovarsi che fra cristiani già perfetti o che si sforzino di diventarlo.
Se non possiamo dubitarne, anche in rapporto agli atti interiori di questa carità, è ancor meno possibile farlo in rapporto agli effetti che essa deve produrre esteriormente, essendo la pratica esteriore di questa carità necessariamente ristretta al cerchio, sempre limitato, delle persone che conosciamo e con cui abbiamo particolari legami, e più ancora per i limiti stretti del nostro potere e delle nostre sostanze.
Ma questa carità mutua e perfetta che non possiamo avere indifferentemente con ogni sorta di persone, dobbiamo, in questa Società del Cuore adorabile di Gesù o del sacro Cuore di Maria, esercitarla costantemente gli uni verso gli altri; dobbiamo non avere tutti assieme che un cuore ed un'anima.
È un dovere per noi e questo dovere è così sacro, così essenziale a questa nostra Società, che senza di esso la sua esistenza sarebbe senza oggetto, non offrirebbe più un'immagine della Chiesa nascente, e non sarebbe più di alcuna utilità né per i suoi membri né per la Chiesa.
Non potremmo dunque trascurare questo primo dovere senza dissolvere una Società che lo Spirito Santo ci aveva chiamati a costituire, e senza essere responsabili verso la Chiesa dei beni che essa deve aspettarsene e dei mali che il vuoto di questa Società può attirare.
Ragioniamo alla stessa maniera in rapporto agli effetti esteriori di questa carità.
Se era un effetto indispensabile della carità dei primi cristiani che tutto quanto avevano fosse comune fra essi; se, senza questa comunità di beni, le altre prove che essi si sarebbero date del loro mutuo amore sarebbero state insufficienti: la stessa causa deve produrre tra noi gli stessi effetti.
Se siamo uniti dal medesimo amore fraterno, se desideriamo dare prove efficaci di questo amore, è necessario che ciascuno di noi non consideri affatto come suo ciò che possiede e che tutte le cose siano comuni tra noi; e se ciò non avviene allo stesso modo che fra i primi fedeli di Gerusalemme, sia però in una maniera che si avvicini a quella ed i cui risultati siano pressa poco i medesimi.
Imiteremmo malissimo la carità dei primi cristiani e non potremmo rendere a noi stessi alcuna testimonianza della sincerità del nostro amore intimo gli uni per gli altri, se coloro con cui formiamo in Gesù Cristo uno stesso Corpo e che, come noi, respirano solo la sua gloria, non ricevessero da noi tutti i soccorsi temporali che siamo in grado di dar loro e se noi li trattassimo come non aventi alcun diritto particolare a quanto possediamo.
Sarebbe possibile che noi avessimo tutti assieme un sol cuore ed un'anima, che tutto fosse comune tra noi; i voti, i desideri, i sentimenti, le opere buone, e che invece i beni terrestri, quei beni di cui il nostro Divin Maestro ci insegna a far così poco caso, fossero i soli eccettuati da questa comunicazione?
A Dio non piaccia che abbiamo a concedere una così forte stima ai beni che in se stessi sono così disprezzabili!
L'unico mezzo di nobilitarne l'uso è di farli servire alla carità; se siamo nell'impossibilità di esercitare questa carità verso tutti gli uomini, non dimentichiamo che coloro che sono uniti con noi con i legami di una Società santa, hanno a questi beni dei diritti particolari, che essi sono più strettamente fratelli e che sono essi che un giorno ci saranno più specialmente designati dal sovrano Giudice, quando ci rivolgerà quelle parole: « Tutto ciò che voi avete fatto ai più piccoli di costoro che sono i miei fratelli, l'avete fatto a Me ».
« Amen dico vobis: quamdiu fecistis uni ex his fratribus mei minimis, mihi fecistis ». ( Mt 25,45 ).
È incalzante questo motivo derivato della carità fraterna.
Nuova forza gli viene data dal voto di povertà che noi facciamo e dalla maniera con cui si pratica nella nostra Società.
La proprietà del voto di povertà è di spogliare da ogni dominio libero ed indipendente.
Non possiamo dunque considerare nulla di quanto possediamo come fosse proprietà nostra, non possiamo usarne liberamente e secondo la nostra volontà.
Ma tra noi e gli altri religiosi che vivono in comunità c'è questa diversità: quando questi entravano in religione si spogliavano di tutto anche esteriormente; se essi conservavano qualche cosa, lo si confondeva nella massa comune, e tutto quanto potevano acquistare in seguito, era per la comunità e non per se stessi che acquistavano; non ne potevano disporre; spettava ai Superiori disporne.
Per questa ragione non era necessario raccomandare loro di mettere reciprocamente in comune ciò che possedevano.
Per noi, che viviamo separati gli uni da gli altri, che non attingiamo ai fondi di una comunità le cose necessarie alla vita ed a cui, sotto questo aspetto e per altri motivo derivati dalla maggior gloria di Dio, è permesso di possedere esteriormente qualche cosa in un modo, è vero, dipendente, ma che lascia in parte alla nostra volontà la scelta dell'applicazione: per noi è importante essere ben convinti e richiamarci spesso che la povertà, di cui facciamo professione, ci obbliga a dividere quanto abbiamo con coloro che con noi formano una Società santa, tutta protesa alla gloria di Dio; e che, quantunque, seguendo le nostre regole e quelle di una carità molto ordinata, possiamo prelevare innanzitutto quanto è necessario a noi, dobbiamo, in virtù della santa povertà, considerare davanti a Dio questa beni come una cosa che è loro comune con noi.
Questa proprietà infatti, di cui ci spogliamo nel foro della coscienza, a chi passerebbe?
Chi sono coloro che succederebbero in parte al diritto di goderne, o piuttosto coloro che vi parteciperebbero con noi e che perciò stesso dovrebbero avere la prima parte delle opere buone che siamo obbligati di fare?
Gesù Cristo, per il cui amore ci spogliamo, diventa senza dubbio il signore di quanto possediamo; e noi non possiamo più usarne che secondo il suo beneplacito; ma tale donazione sarebbe quasi illusoria, se Egli al suo posto non sostituisse qualcuno che potesse riceverla in suo nome e farne uso.
E chi sarebbe, se non la Società in cui si fa questa donazione, e coloro di cui essa è composta?
Entrando in un monastero, il religioso consacrava se stesso e quanto possedeva al Signore; ma il monastero godeva dell'effetto di questa consacrazione ed il diritto che aveva sulla persona del religioso si estendeva su ciò che questi poteva possedere a qualunque titolo.
Così quando noi entriamo in questa Società, quando ne diventiamo membri e la accettiamo per madre, ciò che consacriamo a Gesù Cristo, si ritiene che lo rimettiamo tra le sue mani e che essa lo accetti; ma incapace, per la natura della sua costituzione, di possedere alcun fondo, lascia questi fondi alla disposizione delle leggi civili.
Quanto poi all'uso, poiché essa ne è capace ed ha | bisogno di aiuto, sia per se stessa come per i suoi figli e poiché essa non si impegna a provvedere alla sussistenza di ciascuno di essi, cede dapprima al possessore stesso l'applicazione dell'uso di quella parte di tali beni che a lui è necessaria per il suo mantenimento e per il mantenimento di quanti sono a suo carico; ma essa non può rinunziare al diritto sacro datele dal Signore sulle opere buone che i suoi figli sono obbligati a compiere; e quand'anche potesse consentire che essi compissero tale obbligo senza tener conto dei suoi bisogni, questa condiscendenza da parte sua non impedirebbe che per i suoi figli fosse dovere l'assisterla secondo la loro possibilità, e che tale dovere non dovesse avere la preferenza su quelli che non fossero a loro riguardo affatto necessari o che non riguardassero persone ridotte all'estrema necessità.
Avrei torto, o signori, di insistere ancor più su questo dovere, come se non foste portati da voi stessi ad adempierlo.
Mi figuro che coloro che compongono questa nascente Società siano animati da quella carità pura che lo Spirito di Gesù Cristo comunica a coloro che sono veramente suoi.
Chiamati sotto l'invocazione del suo Cuore adorabile per riprodurne, in questi ultimi tempi, le principali fattezze, e soprattutto il suo tenero amore per gli uomini; uniti assieme in questo Divin Cuore, avendo tutti gli identici desideri, gli stessi sentimenti che sono quelli di questo medesimo Cuore, non vivendo che per glorificarlo e farlo glorificare, con quale occhio possono guardare ai beni della terra?
Se ne conservano qualche uso, è senza attacco e senza stima; non lo fanno che per conformarsi alla volontà del Sovrano Signore e per usarli secondo il suo beneplacito.
Credono di alleggerire il loro fardello, facendo del bene agli altri.
Non ci sono infelici che essi non vogliano soccorrere, trattandosi di cosa in loro potere.
Che non faranno dunque per fratelli che sono loro strettamente uniti in Gesù Cristo con i più sacri legami?
Anche se non esistesse alcun obbligo a questo riguardo, occorrerebbe loro altro motivo da quello della gloria di Dio e del più grande servizio della Chiesa, che non si procura mai più efficacemente di quando con i propri averi si provvede al mantenimento di quei corpi che sono unicamente consacrati a scopi così sublimi?
Considerazione questa capacissima da se stessa di commuovere cuori un tantino cristiani; ma che deve fare una impressione assai più viva su coloro che tendono alla perfezione e che per di più appartengono essi stessi a questa specie di Corpi e di Società.
Credo dunque d'avere detto abbastanza su questo punto; ma siccome non v'è nulla contro cui non si possano muovere obbiezioni e poiché il mondo e lo spirito di malizia potrebbero servirsene per scuotere in noi i sentimenti meglio radicati, credo di dover prevenire queste obbiezioni.
Ci si obbietterà forse che questa specie di comunione di beni, a cui vi esortiamo e che vi rappresentiamo come necessaria, potrebbe far nascere funeste conseguenze; che si potrebbe dedurne che fra cristiani le fortune dovrebbero essere ugualmente distribuite, principio questo di cui l'inferno si è servito più di una volta per eccitare nella Cristianità guerre sanguinose e la perdita d'infinite anime.
Si potrebbe ancora dire che questa comunione di beni, quando anche non favorisse un cosi dannoso principio, non sarebbe meno soggetta a molti inconvenienti e per il temporale e per lo spirituale; sì all'interno come all'esterno della Società.
Per il temporale, perché non si potrebbe più prendervi lo stesso interesse, se ne trascurerebbe la cura, e perciò i beni verrebbero a deperire.
Per lo spirituale, perché sarebbe un incoraggiare l'infingardaggine, ciò che aprirebbe la porta a tutti i vizi.
All'esterno della Società, perché le famiglie sarebbero frustrate dei soccorsi che potrebbero attendersi.
All'interno della Società, perché oltre all'infingardaggine ed i vizi che ne conseguono, ciò potrebbe attirarvi una folla di gente indotta solo da scopi bassi e temporali; ed al contrario allontanarne, con il timore di assoggettarsi ad obblighi troppo onerosi, parecchi di quelli che Dio potrebbe chiamarvi.
Si potrebbe infine pretendere che sarebbe troppo difficile, od anche moralmente impossibile, mettere in esecuzione questa comunione di beni.
Cercherò con l'aiuto del Signore di rispondere a queste diverse obbiezioni.
Niente certamente sarebbe più pernicioso che il pretendere di introdurre nel Cristianesimo una uguale ripartizione dei beni di fortuna.
Come anche niente di più contrario alla dottrina che si insegna, ed alla pratica che si osserva in questa Società.
Ben lungi dal condannare, nella comunità dei fedeli, la proprietà dei beni di fortuna e la diversità delle condizioni, si permette pure questa proprietà, nel foro esterno e civile, a coloro che Dio chiama alla perfezione in questa Società, tanto quanto è compatibile con il voto di povertà, e ciascuno di essi può occupare nell'ordine civile il grado, che teneva precedentemente.
Che se è necessario non considerare affatto come proprio ciò che si possiede e farne parte ai fratelli come di un bene comune, dopo di aver provveduto alle proprie necessità, ciò è un puro effetto degli impegni contratti liberamente e di propria scelta.
Inoltre questo obbligo è solo per il foro di coscienza c nessuno, anche della Società, potrebbe disporre dei nostri beni senza il nostro libero consenso, sia in tutto sia in parte.
Basta ciò per dissipare la prima obbiezione.
Gli inconvenienti, che si potrebbero temere, svaniranno con la medesima facilità.
Non ci sarà da temere che il temporale sia trascurato, che venga a deperire per mancanza di vigilanza e di cure.
È vero che la cupidità e che il miraggio di un interesse sordido non sarà più il motivo di tale vigilanza e di queste cure; a questo saranno sostituiti con vantaggio motivi più nobili; ci si sentirà stimolati dal desiderio di sovvenire all'indigenza, dall'amore del dovere e della perfezione.
Per zelo lodevole e meritorio si farà ciò che i più fanno per un amore smisurato delle cose della terra.
Non considerandosi più come padroni al cospetto di Dio, ma come economi e semplici dispensatori, quelli della Società si rimproverebbero la minima negligenza come un'ingiustizia, di cui avrebbero a rendere un conto severo; non si permetteranno né di devastare né di alienare i beni a loro piacimento, ma si riterranno obbligati di reggerli come gli amministratori di un bene religioso sarebbero obbligati di farlo.
Quanti si comporterebbero diversamente, ne sarebbero ripresi e mancherebbero al loro dovere.
Questi beni non saranno dunque persi per la famiglia; non correranno rischio di essere manomessi per la profusione, per il giuoco e per tutte le altre passioni che obbligano ad alienare o ad impegnare i fondi, qualora i fondi non fossero sufficienti per contentare il desiderio insaziabile delle passioni.
Non saranno neppure affatto persi per la cosa pubblica: sarebbero soggetti come gli altri beni alle pubbliche imposte, e qualunque sia l'uso che se ne faccia, ci si conformerebbe alle leggi civili con estrema esattezza.
Ci sarebbe ancor meno da temere, per lo spirituale in questa comunione dei beni.
Che cosa presenta infatti che non sia edificante per la Chiesa?
Nel Corpo intiero offrirebbe un'immagine della carità perfetta e dell'unione dei primi cristiani, che riusciva a rendere tutto comune tra essi.
Nelle particolari membra, di cui questo Corpo è composto, offrirebbe un santo disprezzo delle ricchezze, un generoso disinteresse, un abbandono completo di sé alla Provvidenza Divina.
Si potrebbe temere, è vero, da un lato che per la classe indigente fosse un mezzo per sfuggire il lavoro ed assecondare troppo la pigrizia; dall'altro lato che una folla d'uomini di questa classe, amici dell'ozio, fossero attirati alla Società da quest'esca e che con sé vi facessero entrare tutti i vizi che l'ozio necessariamente trascina.
Questi due scogli sarebbero certamente assai funesti e causerebbero inevitabilmente nella Società, la rovina di tutto il bene spirituale che vi si potrebbe ripromettere; ma si vuole credere di evitarli facilmente, o di rimediare al male che potrebbero occasionare.
Non si può supporre il primo scoglio fino a che la Società conserverà lo spirito che deve animarla, fino a che sarà composta d'uomini religiosi e ferventi, e fin quando i Superiori veglieranno con cura perché ciascuno si tenga nel suo stato, ne adempia i doveri e non sia a carico di alcuno, allorquando con un onesto lavoro, potrà bastare alle proprie esigenze personali.
Si eviterà il secondo scoglio, si preverranno i mali che non mancherebbe di causare, se non si trascurerà nulla per assicurarsi della vocazione di quelli che si presentano, e se, nel lungo tempo che dureranno le prove, si esaminerà attentamente se coloro che sono stati accettati si lasceranno penetrare ogni giorno sempre più dei sentimenti di Gesù Cristo.
Ci sia fedeltà e fermezza a rimandare per tempo, ma con molta prudenza e carità, coloro che con la loro condotta ed i loro discorsi farebbero vedere di aver perso lo spirito della loro vocazione e di avere aperto il cuore agli affetti ed alle massime seducenti del mondo.
Con tali precauzioni possiamo sperare che lo spirito religioso si conserverà fra noi in tutto il suo splendore, e che così nulla impedirà che la comunione dei beni temporali, quali ci si propone di praticare nella Società, produca tutti i vantaggi spirituali che ci si può attendere e che ammiriamo nei fedeli della Chiesa nascente.
L'ultima obbiezione riguarda la grande difficoltà o impossibilità morale di questa comunione dei beni.
Ma donde proverrebbe tale impossibilità?
Non sarebbe dal governo civile; questi non si occupa delle disposizioni particolari che i cittadini fanno dei loro beni, quando queste disposizioni non hanno nulla di contrario alle leggi; e d'altronde che potrebbe trovare di biasimevole in una disposizione, che fa servire al sollievo degli indigenti ciò che da altri sarebbe dissipato in una maniera sempre spiacevole per l'ordine e la tranquillità dello Stato?
Meno ancora sarebbe dal governo ecclesiastico, che non può non favorire la pratica dei consigli evangelici ; d'altronde in questa comunione dei beni si avrebbe per fine il bene stesso della Chiesa e non si farebbe nulla senza la sua autorità.
Non sarebbe neppure dal seno delle famiglie : si avrebbe la maggior cura nel vegliare perché esse non avessero alcun motivo di lamentarsi e perché i bisogni familiari di ciascuno fossero innanzitutto alleviati.
La pretesa impossibilità non potrebbe dunque provenire che dallo spirito di cupidità e dall'attacco naturale che si ha per le cose della terra.
Riconosciamo che sarebbe grande questa difficoltà se parlassimo ad uomini schiavi delle loro passioni od anche alla generalità dei fedeli.
Per la maggior parte basta che le si domandi la pratica dei precetti del Santo Evangelo: lamenterebbero che si vuole appesantire il loro giogo se si esigesse qualche cosa di più da essi.
Ma sarebbe fare ingiuria ad uomini, che per stato tendono alla perfezione, proferire il medesimo giudizio per essi.
Incessantemente occupati a muover guerra alle loro passioni, a sradicare dal cuore ogni germe del vizio ed ogni tendenza troppo naturale; morti a se stessi, staccati dalla terra, non vivendo più che per il cielo, mettendo ogni gloria e felicità nel piacere al loro Divin Maestro e ad assomigliarli, questi uomini conservano quanto posseggono solo per sottomissione alla sua volontà, e per farne l'uso più conforme al suo beneplacito.
Tale è l'idea che ci formiamo di quelli della nostra Società.
La difficoltà che ci viene obbiettata sparirebbe interamente per essi; e se per adempiere il dovere che loro proponiamo, avessero ancora da combattere la cupidità, questo combattimento ne farebbe sentir loro ancor più l'indispensabile necessità.
Questa risposta basta per i tempi più normali, per le circostanze più favorevoli, come quelle che speriamo di rivedere presto con il ritorno della nostra santa religione.
Ma se ci trasportiamo in tempi più burrascosi, se prevediamo anticipatamente le circostanze difficili e dolorose in cui si troveranno i fedeli in queste ultime età, circostanze che sotto molti rapporti assomiglieranno a quelle in cui si trovarono i primi cristiani della Palestina, tutto quanto allora occorrerà soffrire per la conservazione della fede, la difficoltà di conservarla tra le ricchezze, il pericolo di perdere l'anima a cui ci esporrebbe il minimo attacco a tali beni, l'oppressione, le persecuzioni, lo sconvolgimento delle condizioni e delle fortune, la caduta degli imperi, le frequenti rivoluzioni, le guerre continue, i castighi di ogni genere con cui Dio vendicherà sulle nazioni l'abbandono da esse compiuto della religione di Gesù Cristo; tutti i flagelli che, secondo i Libri Sacri, devono contraddistinguere gli ultimi tempi e diventare tanto più terribili quanto più i delitti del mondo saranno enormi e molteplici, i segni precursori dell'ultimo giorno, infine la più vicina attesa del Sovrano Giudice; tutto deve allora facilitare e rendere più necessario a quelli della Società l'esercizio di un dovere a cui li deve portare la grazia della loro vocazione.
Ci resta ora da spiegare, più brevemente che ci sia possibile, quanto richiede da ciascuno di noi questo dovere, voglio dire l'obbligo da noi abbracciato di non considerare come nostro quanto possediamo, e di farne parte gli uni agli altri, come di un bene che è a loro comune con noi; e come, nella Società, dobbiamo adempiere quest'obbligo in una maniera che si concili con gli altri nostri doveri e che possa rispondere nello stesso tempo a tutti i fini che ci proponiamo.
La prudenza sola può insegnarci a tenere in ciò quel giusto mezzo che concilia tutto.
Si può mancare per difetto, non dando abbastanza; o per eccesso dando al di là delle proprie possibilità.
Esponiamo alcune regole che ci faranno ugualmente evitare i due estremi.
Non si darebbe a sufficienza se nella Società non si adempisse l'obbligo stretto, che vi si contrae con il voto di povertà, di contentarsi per sé di un onesto necessario, conformemente allo stato, ai bisogni, agli obblighi propri; e poiché raramente si è buon giudice in casa propria, ciò che permette questo onesto necessario va stimato in base ai consigli del Santo Vangelo e appellarsene alla decisione dei Superiori.
A parità di condizioni, chi ha di più deve dare di più.
« Se voi possedete molto, diceva il sant'uomo Tobia al figliolo, date molto; se avete poco, date poco ».
Può capitare, tuttavia, che con minori beni ci si trovi nel caso di dar molto e che con beni più considerevoli non si possa dare che poco.
Ciò dipende spesso dallo stato e dalle cariche più o meno elevate che si possono avere.
Una coscienza retta, il disprezzo del mondo, un vero desiderio di assomigliare all'Uomo-Dio, ci preserveranno in ciò dalle illusioni dell'amor proprio.
Abbiamo cura di procedere sempre al lume di queste fiaccole.
Non v'è affatto stato, eccettuato quello dell'indigenza, in cui non si possa dare qualche cosa.
Qual'è l'artigiano, qual'è il lavorante a giornata che, senza sottrarre da quanto gli è necessario, non faccia di tempo in tempo qualche spesa superflua?
Questo superfluo che, troppo spesso, serve ad eccessi viziosi, un povero di Gesù Cristo lo fa servire a qualche opera buona con cui Dio possa essere glorificato.
Occorre saper fare un giusto discernimento fra i veri bisogni e quelli fittizi, che ciascuno si crea o può immaginarsi di avere; si impegni costantemente a ridurre il numero di questi, senza tuttavia lasciarsi trasportare da indicreto fervore.
I consigli di un uomo prudente e soprattutto quelli dell'obbedienza, sono qui assai necessari.
Si usi la precauzione di non aumentare i propri obblighi; non si cerchi affatto, per amor proprio, di elevarsi sopra la propria condizione e anche nella propria condizione ci si tenga nella mediocrità.
Non bisogna uscirne che allorquando la Provvidenza Divina, con un succedersi di imprevisti avvenimenti, ci manifesti in proposito la propria volontà, e ci metta essa stessa, nostro malgrado forse, in un grado più elevato.
Mentre saremo fedeli a seguire queste norme, non avremo affatto da temere di restare al di qua dello scopo che, in questa Società, siamo obbligati di raggiungere nell'esercizio della carità, quanto ai soccorsi temporali che ci dobbiamo vicendevolmente rendere.
L'altro eccesso, quello di dare oltre i limiti della prudenza, sarebbe forse più da temere per uomini pieni di disprezzo per le cose della terra, i quali, non avendo di mira che la gloria di Dio e sentendosi vivamente stimolati dal desiderio di procurarla, potrebbero a volte ingannarsi su certi doveri che, benché raccomandati dalla giustizia e dalla religione, sembrano confondersi con quelli di una naturale benevolenza e della società civile.
Bisogna dunque incatenare rigorosamente a queste specie di doveri i membri della Società che per il loro stato e per le circostanze vi sarebbero obbligati.
Si dica loro che tutte le opere buone che vorrebbero compiere, con pregiudizio di tali doveri, cesserebbero di essere gradite al Signore e che la Società non potrebbe ammetterle ed approvarle, perché non sarebbero nell'ordine.
Eccone alcuni esempi.
Qualora una persona, prima di entrare nella Società, sia stata coniugata ed abbia avuto dei figli, non soltanto non può approfittare dei loro beni per impiegarli in opere buone, ma deve impegnarsi con la maggior cura alla loro conservazione, e soddisfare l'obbligo di procurare ai propri figli una educazione cristiana e conforme alla loro condizione, come preferibile a tutte le opere buone che avrebbe desiderio di fare.
Dico la stessa cosa per coloro che potrebbero avere a carico nipoti in minore età, che, avendo perduto papa e mamma, non troverebbero risorse altrove.
Ciò deve estendersi ai parenti, con la debita proporzione, se si trovano nell'indigenza.
Sono essi che si devono assistere prima di ogni altro nei loro veri bisogni, evitando di cedere qualche cosa alla vanità o ad un affetto poco regolato.
È inutile dire che quelli che hanno debiti sono perciò stesso fuori della possibilità di far opere buone, perché ciò che posseggono, non possono considerarlo come bene loro; e perché se pretendessero di disporre così da recar torto ai loro creditori, sarebbero colpevoli di ingiustizia.
Tutte le spese che sono necessarie, a qualsiasi titolo, devono avere la preferenza su quelle che sono di pura carità; e dobbiamo considerare come tali quelle senza le quali si vedrebbero deperire i propri beni, con un notevole danno degli eredi legittimi o della cosa pubblica; quelle senza le quali non si potrebbe sostenere il proprio grado in maniera di adempierne utilmente e decentemente le funzioni; ed infine tutte quelle richieste dalla pubblica onestà, dalla prudenza cristiana e dall'esercizio di qualche virtù.
Può capitare, è vero, che seguendo queste regole di giustizia e di prudenza, non ci resti se non quel necessario che il Vangelo permette di conservare e che così non ci sarebbe più possibile disporre di nulla per le opere buone.
Ma ciò non sarebbe un motivo di dispensarci dal seguire queste regole.
Saremmo allora nel caso di quei religiosi cenobiti, i quali, benché sufficientemente provvisti del necessario, non hanno nulla da dare ai poveri, perché tutto il resto non è affatto a loro disposizione.
Una volontà retta e sincera supplisce a tutto davanti a Dio.
Del resto, non temiamo affatto che con ciò si trovi inaridita la sorgente delle opere buone e delle elemosine; ciò non riguarderebbe che un piccolo numero di persone.
L'abbiamo già detto: quando si ha il vero spirito di povertà e di carità, si trova sempre il mezzo di contribuire ad alleviare la miseria del prossimo.
Una saggia e prudente economia, una vita povera e frugale, la cura di evitare quanto sa di lusso, di vanità ed immortifìcazione, il lavoro e più ancora la benedizione che Dio si compiace di effondere su quelli che fanno un santo uso dei loro beni, valgono bene dei tesori.
Si può sperare che, con questi mezzi, gli scopi che la Società si propone nelle opere buone di cui ci fa contrarre l'obbligo saranno raggiunti.
Il primo di tutti questi scopi ed il più immediato, secondo l'ordine della carità ben regolata, riguarda il Corpo stesso della Società.
Contribuire al bene di una Società che esiste essa stessa solo per il bene generale della Chiesa, e per la gloria di Dio, è una opera buona che ne racchiude eminentemente una infinità d'altre che non si farebbero affatto senza di di essa e che sono un seguito della sua esistenza.
Tra le Società religiose, alcune derivano la loro sussistenza dalle liberalità dei fedeli che esse si curano di raccogliere ogni giorno.
Altre hanno beni e proventi che sono stati dati a loro dalla pietà di quelli che le hanno fondate.
Tutte, in generale, hanno almeno case, chiese, giardini ecc.
Questa Società invece non deve avere nulla in fondi, in proventi, neppure case che le siano proprie e che si possano dire appartenere al Corpo in generale.
Non potrà affatto chiedere assolutamente contribuiti, con questue giornaliere, dalla carità dei fedeli; dovrà invece la sua sussistenza ai soccorsi che le saranno ordinariamente elargiti dai suoi propri figli; ed è perciò, fra le altre ragioni, che legandoli con i voti essenziali della religione lascia a loro l'uso dei propri beni, quanto è compatibile con il voto di povertà.
Il primo dovere di questi è dunque di provvedervi, quando siano in stato di farlo.
I soccorsi temporali, di cui il Corpo possa avere bisogno per sé, si ridurranno probabilmente a poca cosa, perché la Società stessa, come tutti i singoli di cui sarà composta, vuole, per quanto le sarà possibile, seguire in tutto le regole di una santa povertà, e perché coloro fra i suoi membri che la rappresenteranno, in qualsiasi maniera, contribuiranno per parte loro, secondo la loro forza, alle spese che saranno obbligati a fare per lei; e anche perché, qualunque siano i loro lavori e le loro pene, contenti della ricompensa che il Padre celeste ha promesso ai suoi servi, essi non vorranno ricevere nulla, oltre il loro necessario.
Ma per quanto poco notevoli possano essere questi soccorsi in se stessi, siccome essa non può possedere nulla, è necessario che i suoi figli si incarichino di procurarglieli.
Ecco i principali oggetti per cui succederà, per lo più, che essa ne abbia bisogno.
Non parleremo affatto di quelli fra i suoi membri che verranno impiegati per il bene comune dei fedeli, e saranno senza dubbio il maggior numero.
È pensabile che se essi non avranno di che provvedere al loro sostentamento, troveranno questo necessario fra coloro alla salvezza dei quali saranno deputati.
« Dignus est enim operarius cibo suo ». « L'operaio merita il proprio sostentamento» ( At 10,10 ).
Ma ci saranno necessariamente coloro che saranno quasi unicamente addetti al servizio della Società.
Le occorrono superiori generali e particolari, che veglino assiduamente su tutto il Corpo o su qualcuna delle sue parti; persone, in maggior numero, per formare alla vita religiosa quanti si presenteranno per entrarvi; altri ancora che saranno incaricati della loro istruzione e di sorvegliarli più particolarmente nel tempo delle prove.
Occorreranno missionari che durante la maggior parte dell'anno andranno in differenti località a predicare ritiri successivamente ai membri della Società.
In ogni raggruppamento, tanto notevole da formare un Collegio, bisognerà che ci sia un casa comune dove ci si possa riunire, dove quelli che saranno alla testa del Collegio stabiliscano la loro dimora ordinaria, dove si possano indire i ritiri comuni, dove gli stranieri che appartengono alla Società siano ricevuti al loro passaggio ecc.
Queste case saranno prese in affitto a spese comuni; bisognerà ammobiliarle in un modo analogo agli usi a cui vengono destinate e per di più mantenervi quel personale che vegli alla conservazione ed al servizio di queste case.
Tali persone, per quanto possibile, saranno della Società.
Occorrerà infine provvedere alle spese indispensabili per la corrispondenza e per i viaggi necessari al bene comune della Società.
Dopo quanto richiede il bene generale del Corpo intiero, è esigenza dell'ordine che ci si occupi del bene particolare dei membri.
Poiché, quantunque la Società per parecchie ragioni derivate dalla sua natura, non si obblighi affatto e non possa neppure obbligarsi a titolo di giustizia di intervenire per i bisogni particolari di quanti si consacrano al Signore sotto la sua bandiera; quantunque lo dichiari ad essi nel loro ingresso e per quanto sia necessario che Io faccia per togliere loro qualsiasi motivo di lamento, e per quanto essi in seguito non possano avanzare alcuna pretesa; soprattutto affinché nella loro vocazione non possa insinuarsi alcuna mira bassa e temporale; ciononostante è affatto conforme ai principi di una carità cristiana e religiosa che i fratelli aiutino innanzitutto i propri fratelli.
Abbiamo mostrato la necessità di questo dovere.
È per questo che la Società aiuterà, in tutta l'estensione delle sue possibilità, quanti fra i suoi figli si troveranno nell'indigenza ed esorterà validamente i suoi figli « in visceribus Christi » ad aiutarsi reciprocamente gli uni gli altri, con tutta l'effusione della più tenera e perfetta carità fraterna.
Per quelli tra i suoi figli che unissero l'infermità all'indigenza, essa avrà, sia nelle case comuni, sia altrove, un'infermeria per riceverli ed amministrare loro, secondo la propria possibilità e con tenerezza materna, tutti i sollievi corporali e spirituali di cui avranno allora bisogno.
Quantunque gli argomenti che abbiamo or ora trattato, siano i primi di cui la Società debba occuparsi, riferendosi al bene generale della Chiesa, non basterebbero per soddisfare le sue mire.
Essa si propone come fine di aiutare anche, a seconda delle sue possibilità, più direttamente la Chiesa come anche la comunità dei fedeli; e per arrivarvi vuole imporre a se stessa delle regole, che non le permetteranno di sorpassare i confini di una giusta necessità in ciò che essa riterrà di poter prelevare per il proprio uso e per il sollievo dei suoi figli indigenti.
1) La prima di queste regole, che deve servire come da base per tutte le altre, sarà di non perder mai di vista che essa non possiede nulla e che non può aver nulla in fondi che le appartengano; come anche che non può far movimento di danaro, procurarsi rendite, acquistarsi alcun bene fondiario, di qualsiasi natura possa essere; e che se la prudenza esige che tenga in serbo qualche cosa per casi imprevisti, questa riserva non deve mai eccedere il valore di quanto essa spende ordinariamente per i propri bisogni nel corso di un anno.
2) Se i membri della Società, anche nell'uso delle cose che loro appartengono, non possono permettersi nulla di superfluo, a più forte ragione il Corpo stesso deve scrupolosamente osservare questo essenziale dovere nell'uso di quanto gli sarà dato.
La coscienza dei Superiori sarà incaricata di vegliarvi.
Avranno cura che tutto venga amministrato con saggia economia; che tutto quanto riguarda le cose comuni vi sia ben regolato: la suppellettile, la tavola e ciò che sarà necessario a coloro che abiteranno.
Si seguirà la stessa condotta anche nei riguardi di coloro a cui la Società fuori di queste case fornisce aiuti.
3) Coloro che per ufficio fossero alloggiati nelle case comuni, ma che si trovassero in grado di provvedere ai propri bisogni, saranno obbligati a farlo.
4) La distribuzione delle elemosine sarà affidata a persone della Società che non saranno incaricale delle funzioni del sacro ministero, ma che saranno singolarmente raccomandabili per la loro saggezza, carità ed amore alla santa povertà; e attenderanno a questo importante servizio sotto l'ispezione e la direzione dei superiori e secondo le regole che essi prescriveranno.
5) I Superiori stessi non potranno destinare al proprio uso nulla di ciò che sarà stato dato; e quand'anche avessero ricevuto e fosse stato dato alcunché per loro stessi, lo depositeranno tra le mani di quelli che sono incaricati della distribuzione delle elemosine.
Similmente non potranno prendere nulla per sé di ciò che è depositato; ma se qualche cosa sarà necessaria, la riceveranno dalle mani dei Superiori che saranno giudici della loro necessità; diversamente sarebbe un agire contro la povertà.
6) Sarà scritto tutto e quanto si riceverà e quanto si darà; ed ogni mese, o più spesso, i Superiori sorveglieranno i conti ed esamineranno se tutto viene amministrato secondo lo spirito e le mire della Società e soprattutto se quanto si fa è conforme alle regole di una carità ben ordinata e della povertà religiosa.
7) I poveri della nostra Società manifesteranno con semplicità la loro indigenza e dichiareranno quanto fosse stato dato a loro da altri.
Se avranno lo spirito che li deve animare, si accontenteranno di quanto sarà loro dato, lo riceveranno come un'elemosina che il Padre celeste loro manda e non vorranno essere soccorsi al di là dei loro bisogni.
L'osservanza di queste regole, per quanto si spera, rimuoverà sempre più dal Corpo della Società in generale, e dai suoi membri in particolare, gli inconvenienti di cui si è già parlato e quelli che si potrebbero temere, sia per lo spirituale come per il temporale.
Per lo spirituale, qualunque possa essere l'affluenza del soccorsi temporali che potrebbe ricevere la Società, essa non rimarrà tuttavia meno perfettamente sciolta da ogni cosa.
Le ricchezze, che sono la rovina della disciplina e della perfezione religiosa, non le potranno mai insinuarsi in seno.
Essa non sarà mai distolta dalle funzioni del sacro ministero; i suoi membri potranno liberamente dedicarsi a tutte le iniziative che uno zelo apostolico farà intraprendere loro per la salvezza dei fedeli e nulla li impedirà dal condurre costantemente una vita povera e penitente.
Per il temporale è da presumere che non soltanto quelli della Società, ( soprattutto coloro che venissero impiegati per il suo bene bene spirituale e per quello della Chiesa ), siano senza inquietudine per i bisogni della vita ( poiché, ordinariamente non mancherà loro l'assolutamente necessario ); ma è da presumere di più ciò cui la Società stessa mira principalmente, cioè che, attenendosi a queste regole, possa concorrere, come si propone, al soccorso della Chiesa nei suoi bisogni anche temporali ed aiutarla ad alleviare un grande numero di indigenti.
Se la Chiesa dovesse ricuperare la ricchezza di cui la generosa pietà dei nostri antenati l'aveva abbondantemente provvista e di cui ha usufruito durante una lunga serie di secoli; se i monasteri dovessero essere ristabiliti sullo stesso piede del passato; se il clero, e regolare e secolare, dovesse riapparire nel suo antico splendore; le risorse temporali che la Società potrebbe offrire alla Chiesa non sarebbero più della stessa utilità, perché non mancherebbe nulla allora alla Chiesa; i suoi beni, saggiamente distribuiti ed amministrati, provvederebbero sufficientemente alle spese del divino culto ed al mantenimento dei suoi ministri; basterebbero, per quanto riguarda l'alleviamento dei poveri, le antiche istituzioni, e sarebbe sufficiente rimettere in vigore i saggi regolamentari fatti da molto tempo, per ripartire in una giusta proporzione le immense ricchezze che erano destinate al sollievo dei poveri di ogni specie, specialmente dei malati.
Ma dopo lo sconvolgimento universale che abbiamo attraversato, dopo la terribile rivoluzione fatta, e nella Chiesa e nello Stato, potremmo sperare questo cambiamento pieno e perfetto?
Sarebbe anche moralmente possibile?
Non si avrebbe qualche motivo di credere che una delle mire della Divina Provvidenza, che vigila in specialissimo modo sul bene della sua Chiesa, permettendo tanti rovesci, sarebbe stata di spogliarla in gran parte di quelle ricchezze temporali, di cui un gran numero dei suoi ministri abusava disgraziatamente per la proprio rovina?
La Chiesa, quanto al temporale, resterebbe dunque in uno stato di mediocrità che le permetterebbe a stento di bastare a se stessa.
In questo stato, nuove risorse, soprattutto, del genere di quello che la Società potrebbe offrire, e che non peserebbero in alcun modo sullo Stato, le sarebbero vantaggiosissime, sia per contribuire al culto divino, sia per il mantenimento dei ministri dell'altare, sia infine per il sollievo dell'indigenza.
Si supponga, come purtroppo c'è motivo di temerlo, a causa della naturale instabilità dell'uomo, della sua inclinazione per il vizio, del fatale ascendente che lo spirito di empietà s'è preso quasi generalmente ovunque, e dei germi corruttori che la malvagità dei tempi ha lasciato radicarsi troppo profondamente nello spirito della gran parte della gioventù privata di un'educazione cristiana dalla trascuratezza e poca fede dei genitori;
si supponga, dico, che questo felice cambiamento, che speriamo, non sia di lunghissima durata;
che la poca riconoscenza che gli uomini avranno delle grandi misericordie e dei favori straordinari che Dio, nella sua infinita clemenza, avrà loro prodigato;
che il poco profitto che ne avranno ricavato obblighi il Signore a togliere ad essi le sue grazie di nuovo;
che nuovi misfatti attirino su di noi i più terribili flagelli della divina vendetta;
che infine siano arrivati quei terribili giorni di tenebre ed oppressione, così chiaramente predetti nei Libri Santi per le ultime età del mondo;
allora queste specie di soccorsi temporali saranno di una maggiore utilità, od anche assolutamente necessari alla Chiesa.
Ora sembra che è principalmente per questi nostri tempi burrascosi che il Signore ha voluto suscitare questa nuova istituzione e che, se la sua formazione li precorre alquanto, è per preservare un maggior numero di fedeli dal contagio di cui sono minacciati; e affinché, essendosi più facilmente stabilita e propagata in un tempo meno sconvolto, possa essere in perfetta attività e rendere alla Chiesa i più importanti servizi in ogni campo, quando sarà venuto il tempo delle sue grandi persecuzioni.
È vero che la Società non potrà mai prendere impegni che la leghino per tutto il tempo avvenire; se ne comprende facilmente il perché: è perché non può possedere nulla, perché i soccorsi che attende sono incerti e devono necessariamente variare, secondo le circostanze ora più ora meno considerevoli.
Tuttavia se la Divina Provvidenza si è degnata scegliere questo Corpo per aiutare in differenti maniere la Chiesa nei nostri tempi, ella saprà bene suscitarle incessantemente rinnovate energie e non permetterà che la sorgente dei soccorsi, anche temporali, che potrebbe dare, non inaridisca mai.
Per quanto concerne il tempo presente, la Società non si rifiuterà affatto ai soccorsi che sarebbe in suo potere di dare, sia alla Chiesa in generale sia ai comuni fedeli che richiedessero il suo intervento; e nei casi straordinari e urgenti farà l'impossibile fino ad esaurire intieramente se stessa per rimediare ai propri bisogni.
Questo stesso spirito animerà l'una e l'altra Società e tutti i membri che le compongono; e quando la Chiesa sarà perseguitata e quando i suoi ministri verranno perseguiti ed obbligati a nascondersi, troveranno un asilo in tutte le case che apparterranno a qualcuno dei membri delle due Società.
Tutti, ricchi e poveri, si faranno un dovere di riceverli presso di sé e, se è necessario, li condurranno nei luoghi più sicuri che si avrà avuto la preveggenza di preparare a questo scopo e dove saranno mantenuti a spese delle due Società, secondo le loro possibilità.
Ci sarà su questo punto una santa emulazione, o piuttosto la più perfetta intesa tra i membri dell'una e dell'altra Società.
Gli uni e gli altri, secondo la diversità dei loro mezzi, renderanno a gara ai ministri di Gesù Cristo ogni sorta di servizi.
Aggiungo, a quanto ho detto sopra intorno alla distribuzione degli aiuti materiali, che per non essere ingannati nei soccorsi temporali che la Società darebbe ai semplici fedeli che non appartengono ad essa, sarà ordinariamente più prudente distribuire a loro quei soccorsi per mano di coloro che li possono meglio conoscere e che, in più, sono incaricati per stato di procurarsi i soccorsi spirituali, quando anche costoro non appartenessero alla nostra Società.
Per i semplici fedeli che fossero della Società, devono sapere che non possono in alcun caso aspettarsi soccorsi temporali, se possono procurarsene con il loro lavoro trascurato per pigrizia.
Non ci resta più da dire che una parola sul modo con cui ciascuno di noi deve procedere nel contribuire, quanto gli è possibile, ai diversi beni di cui abbiamo parlato.
Suppongo che tutti ne abbiano un vero desiderio che siano convinti del proprio obbligo in questo campo, obbligo che risulta necessariamente dalla carità speciale che ci dobbiamo gli uni agli altri e dalla povertà di cui facciamo professione, e che siano nella ferma risoluzione di adempierlo più perfettamente che sarà possibile.
Ciò posto, ecco i princìpi secondo i quali bisognerà agire:
1) Nessuno sarà tassato, perché l'offerta, per quanto di stretto obbligo, deve essere volontariamente fatta e non potrà mai essere richiesta con la forza e la costrizione.
Ciascuno giudicherà davanti a Dio se può dare e quanto può dare; ma siccome l'amor proprio può ingannare e per di più sarebbe pericoloso trovarsi nell'illusione in un campo che riguarda un essenziale dovere, sarà sempre prudenza prender consiglio da persone illuminate e che si interessano vivamente al nostro bene spirituale; e per quanto si possa sperare che tutti quelli della Società si porteranno con gioia ad adempiere questo dovere, se tuttavia qualcuno usasse in ciò troppa riserva e lungaggine, sarebbe dovere dei Superiori avvertirlo di ciò con molta dolcezza e bontà e sapere da lui ciò che potrebbe impegnarlo a comportarsi rettamente.
2) Bisogna persuadersi che l'ordine della carità esige che prima di tulle le altre opere buone che solo sono supererogatorie ( non computiamo in questo novero quelle che impone il conforto di una famiglia o che sarebbero comandate da qualche altra virtù conveniente ); i membri della Società s'occupino di quelle attinenti la Società.
Devono farlo tanto più volentieri in quanto, adempiendo questo primo dovere, raggiungono nello stesso tempo, in modo perfettissimo, tutte le mire che la loro carità può proporsi.
Quanto alle spese buone che non sono nel novero di quelle a cui si è tenuti da un obbligo personale e particolare e che, per questa ragione sono ritenute entrare nelle incombenze e nella spesa di ciascuno, dipenderà assolutamente dalla volontà di ognuno di farle da sé.
Ma siccome l'obbedienza si estende su tutte le azioni del religioso, e sopratutto su quelle che riguardano il voto di povertà, sarà necessario consultare i Superiori su ciò che ci si propone di fare in questo campo ed avere intorno a ciò il loro consenso; consenso che essi non rifiuteranno affatto, a meno che la disposizione che si vuol fare non sembrasse ad essi assai conveniente.
Ciò non concerne che le cose di un valore un po' considerevole; poiché per quanto riguarda le elemosine passeggere e mediocri, c'è nella Società un permesso generale di farle, senza che si sia costretti a domandarne di particolari.
Agendo così non si farà nulla contro la coscienza ed il proprio dovere; tuttavia si consiglia di rimettersi alla prudenza della Società.
Sarebbe anche bene che ogni membro in particolare non distinguesse affatto ciò che destina a queste altre buone opere da ciò che dev'essere per l'uso della Società e dei suoi membri.
Dobbiamo essere persuasi che essa è più illuminata di noi per fare una giusta distribuzione delle elemosine che mettiamo tra le sue mani e noi non possiamo crederla capace di attribuirsene qualsiasi particella al di là del necessario.
In questo modo ciascuno adempierà, con tutta la perfezione di cui è capace, quanto esigono da lui la povertà, l'obbedienza, la carità.
Agendo così, non ci sarà nulla da temere.
3) Il tempo per adempiere quest'obbligo non è fissato; si può farlo in ogni tempo; ma in queste cose un rimando e la dimenticanza sarebbero funesti.
Coloro che sono in grado di fare qualche cosa di considerevole, faranno bene a fissare per questo una data notevole per essi, come quella della loro ordinazione, della loro rigenerazione, del loro voti.
A quelli che non sarebbero in grado di fare molto diamo il consiglio che dava l'Apostolo ai fedeli di Corinto ed alle Chiese di Galazia : Ogni domenica ciascuno metta a parte e raccolga quanto potrà, ciò che le sue ricchezze, il lavoro, il successo negli affari gli permetteranno di consacrare al Signore.
Crediamo che sarebbe inutile dilungarci maggiormente in questa materia.
Forse un giorno l'esperienza esigerà che si entri in maggiori particolari.
Del resto non è un obbligo nuovo che ci viene imposto.
Questa comunione di beni, quale dobbiamo averla tra noi, adattata alle circostanze presenti, proporzionata alla nostra debolezza; che non ha nulla che possa turbare l'ordine pubblico, nulla che possa gettare allarme, per la proprietà;
che lascia a ciascuno di noi il grado ed i diritti di cui godeva nella classe dei cittadini;
che vuole anche che ciascuno di noi possa vivere conformemente allo stato che tiene nella vita civile;
che infine non permette a quelli stessi che partecipano con noi a questa comunione di ingerirsi di loro iniziativa e nostro malgrado nella distribuzione di qualsivoglia cosa ci appartenga civilmente;
tale comunione di beni è un obbligo annesso alla nostra vocazione; è dell'essenza della nostra povertà; è l'effetto indispensabile di quella carità speciale che deve unire gli uni agli altri i membri di questa Società;
senza di lei sarebbe illusoria la nostra povertà;
la nostra carità non sarebbe che un nome vano;
ci occorrerebbe rinunciare alla divisa di cui ci decoriamo;
sarebbe falso dire che non ci sarebbe tra noi che un cuore ed un'anima sola;
pretenderemmo invano di delineare tra noi qualche somiglianza con la Chiesa nascente e di far rifiorire in parte quell'immagine tra i fedeli.
Questa comunione costituirà la nostra gloria, la nostra felicità, la sicurezza e la stabilità della nostra Società; essa la preserverà, essa ci preserverà dalle trappole e dagli agguati di Satana, dai pericoli del mondo, dalle illusioni dell'amor proprio.
È la base di ogni codice religioso, la legge fondamentale di tutti i cenobiti; senza di essa non ci sono monasteri; da lei la denominazione di comunità che si da ad essi in generale.
Gli ordini religiosi non fiorivano che in quanto tale comunicazione di beni vi era fedelmente osservata.
Manteneva fra i religiosi una uniforme povertà, arricchendo i monasteri.
Manterrà fra noi la povertà religiosa e tutte le virtù compagne inseparabili di questa povertà, senza arricchire mai tuttavia la Società stessa, che per sua natura e per sua fortuna è incapace di arricchirsi.
I suoi effetti saranno il sollievo dell'indigenza, la edificazione del prossimo, l'affluenza dei doni celesti; l'esercizio delle più eroiche virtù, un'infinità di opere buone, ogni specie di soccorso spirituale e corporale dato alla Chiesa, il mantenimento di un maggior numero di ministri di Gesù Cristo, il decoro dei santi altari.
Riceviamo dunque, miei cari confratelli questa legge sacra dalle mani di Gesù Cristo e della sua santissima Madre, abbracciamola con amore.
È espressa in tutti i loro misteri, in tutti gli esempi che ci hanno lasciato; è contenuta nei consigli evangelici.
Ma è una legge che, come quella di superare il timore del supplizi, il Signore non intima che ai favoriti più cari.
« Dico autem vobis, amìcis meis … » ( Lc 12,4 ).
Non può essere messa in pratica che da quelli che tendono alla perfezione del Cristianesimo.
Sarebbe presuntuosa temerarietà, affatto contraria alle intenzioni del nostro Divin Maestro, volervi legare i comuni fedeli.
Prima di uscire dalla bocca del Dio di verità, era profondamente impressa con caratteri dì fuoco sul suo Cuore divino e nel sacro Cuore della sua augusta Madre.
Ne costituiva come la ricchezza.
È qui soprattutto che noi dobbiamo studiarla; che ne impariamo la perfezione.
Quale comunione di ogni specie di beni tra questi due Cuori!
Vi è compreso l'impero del cielo e della terra.
Quale comunione di beni essi hanno con ognuno dì noi, se non vi opponiamo un ostacolo!
Sforziamoci, in questa Società, di imitare tali divini modelli, a cui siamo così particolarmente consacrati.
Se a volte la cupidigia, naturale al figli di Adamo, se la debolezza, se l'accecamento opponessero degli ostacoli al nostri sforzi; se ci facessero temere di abbracciare e di seguire costantemente la legge della carità che ci richiamiamo; attingiamo in questi sacri Cuori, i cui tesori ci sono aperti, le grazie, la luce, la forza di cui abbiamo bisogno per trionfare di questi ostacoli.
Nulla ci sarà difficile neanche noi vi fisseremo gli occhi ed i nostri cuori saranno ad essi strettamente uniti.
Accesi dal fuoco divino che comunicano a tutto quanto li avvicina, in certo modo trasformati in questi Cuori dall'ardore di quel fuoco, ripieni di un santo disprezzo per le cose della terra, vedendo in tutti i cristiani la loro immagine, e più specialmente in coloro con cui formiamo, ad onore di questi Cuori, una Società religiosa, ci faremo premura di adempiere a gara, gli uni verso gli altri, quella legge che ci è imposta e dalla carità vicendevole e dalla povertà che professiamo.
Lo faremo con gioia, costantemente e nella maniera più perfetta.
Ciascuno di noi, sull'esempio dei primi cristiani, non considererà come suo ciò che egli può avere, e tutto sarà comune tra noi, per glorificare così più perfettamente il nostro sovrano Signore, il Dio Creatore del cielo e della terra, ed il suo unico Figlio, Gesù Cristo Signore nostro e Redentore di tutti gli uomini.
Oso così sperarlo nella sua infinita Bontà.
La pace e la misericordia si effondano su tutti quelli che seguiranno questa regola.
Quicunque hanc regulam sediti fuerint, pax super illos et misericordia. Amen.
19 luglio, festa di S. Vincenzo de' Paolo, Parigi 1799
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