Osservazioni sulla morale Cattolica

Capitolo III

Sulla distinzione di filosofia morale e di teologia

Esiste senza dubbio un intitno legame fra la religione e la morale, ed ogni uomo onesto deve riconoscere che il più nobile omaggio che la creatura possa rendere al suo creatore è quello di inalzarsi a Lui colle proprie virtù.

Tuttavia la filosofìa morale è una scienza assolutamente distinta dalla teologia; essa ha le sue basi nella ragione e nella coscienza; porta con sé il proprio convincimento; e dopo aver sviluppato lo spirito con la ricerca dei suoi principii, appaga il cuore con la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e convenevole.

La Chiesa s'impadronì della morale, come se fosse cosa puramente di suo dominio.

Quando Gesù Cristo disse agli Apostoli: Istruite tutte le genti insegnando loro d'osservare tutto quello che v'ho comandato, ingiunse espressamente alla Chiesa d'impadronirsi della morale.

Certo gli uomini hanno, indipendentemente dalla religione, dell'idee intorno al giusto e all'ingiusto, le quali costituiscono una scienza morale.

Ma questa scienza è completa?

È cosa ragionevole il contentarsene?

L'essere distinta dalla teologia è una condizione della morale, o un'imperfezione di essa?

Ecco la questione: enunciarla è lo stesso che scioglierla.

Perchè, finalmente, è appunto questa scienza imperfetta, varia, in tante parti oscura, mancante di cognizioni importantissime intorno a Dio e, per conseguenza, intorno all'uomo e all'estensione della legge morale; intorno alla cagione della repugnanza che l'uomo prova troppo spesso nell'osservare anche la parte di essa, che pur conosce e riconosce; intorno agli aiuti che gli sono necessari per adempirla interamente; è questa scienza, che Gesù Cristo pretese di riformare, quando prescrisse l'azioni e i motivi, quando regolò i sentimenti, le parole e i desidèri; quando ridusse ogni amore e ogni odio a dei princìpi che dichiarò eterni, infallibili, unici e universali.

Egli unì allora la filosofia morale alla teologia; toccava alla Chiesa a separarle?

Di che tratta la filosofia morale?

Del dovere in genere e dei vari doveri in particolare; della virtù e del vizio; della relazione dell'una e dell'altro con la felicità o l'infelicità; vuole insomma dirigere la nostra volontà e negl'intenti e, conseguentemente, nelle deliberazioni.

E la morale teologica ha forse un altro scopo? può averlo?

Se dunque hanno per oggetto lo stesso ordine di verità, per applicarle, nella pratica, allo stesso ordine di fatti, come saranno due scienze diverse?

Non è egli vero che dove discordano, una dev'essere falsa? e che dove dicono lo stesso, sono una scienza sola?

È evidente che non si può prescindere dal Vangelo nelle questioni morali: bisogna o rigettarlo, o metterlo per fondamento.

Non possiamo fare un passo, che non ci si pari davanti: si può far le viste di non accorgersene, si può schivarlo senza urtarlo di fronte; non essere con lui, senza essere contro di lui; si può, dico, in parole, ma non in fatto.

Io so che questa distinzione o, per parlare più esattamente, quest'antitesi di filosofia morale e di teologia è ricevuta comunemente; che con essa si sciolgono tante difficoltà, e si conciliano tanti dispareri; ma senza cercare se essa medesima si concili con la logica.

So anche che altri uomini distinti l'hanno adottata, anzi ci hanno fondata sopra una parte dei loro sistemi.

Ne prenderò un esempio da un uomo e da un libro tutt'altro che volgari: Poiché in quest'opera io non sono affatto teologo, ma scrittore politico, così potrebbe darsi che vi fossero cose non interamente vere se non secondo un modo di pensare umano, non essendo state considerate in relazione con verità più sublimi.

Ma per essere del Montesquieu, questa frase non è meno priva di senso.

Poiché, se queste cose saranno interamente vere in un modo di pensare umano, saranno vere in qualunque modo di pensare.

Questa contradizione che si suppone possibile con delle verità più sublimi, o non esisterà, o, se esiste, farà che quelle cose non siano interamente vere.

Se hanno una relazione con delle verità più sublimi, questa relazione è la prima cosa da esaminarsi; poiché qual é il criterio della verità che si cerca, se non la verità nota?

O forse che le verità perdono la loro attitudine e il loro diritto, quando sono sublimi?

Il sofisma sul quale é fondata questa protesta, come tante altre simili, era già stato svelato, mezzo secolo prima, da un osservatore profondo e sottile del cuore umano, il Nicole.

Esaminando il valore di quelle parole tanto frequentemente usate: umanamente parlando, egli dice: Da quanto si ode dire pare che vi siano come tre classi di sentimenti: gli uni giusti, gli altri ingiusti, i terzi umani; e tre classi di giudizi: gli uni veri, gli altri falsi, ed i terzi umani …

Pero non e così.

Ogni giudizio è o vero falso; ogni sentimento e o giusto o ingiusto; ed è necessario assolutamente che quelli che noi chiamiamo giudizi e sentimenti umani si riducano all'una od all'altra di queste due classi.

Il Nicole ha poi egregiamente messo in chiaro il motivo per cui si ragiona in quella strana maniera.

Si dice che una massima è umanamente vera, perchè non si può, come si vorrebbe, chiamarla vera semplicemente.

Non le si attribuisce che una verità relativa; ma per dedurne delle conseguenze che non convengono se non alla verità assoluta.

Quest'espressione significa dunque: io sento che la massima di cui ho bisogno, è opposta alla religione: contradire alla religione, non voglio; abbandonare la massima, nemmeno: non potendo farle concordare logicamente, mi servo d'un termine che lascia intatta la questione in astratto, per scioglierla in fatto secondo i miei desidèri.

Perchè non si dice mai: secondo il sistema tolemaico, secondo la chimica antica?

Perchè in queste cose nessuno si crea il biogno d'ingannar sé medesimo.

Ma, senza arrogarsi di fare un giudizio sopra Montesquieu, si può credere che l'uso di queste espressioni, comune, in quel tempo, a tanti scrittori, non sia venuto da un errore d'intelletto.

La religione cattolica era allora in Francia sostenuta dalla forza.

Ora per una legge, che durerà quanto il mondo lontana, la forza fa nascere l'astuzia per combatterla; e quegli scrittori che desideravano abbattere la religione senza compromettersi, non dicevano che fosse falsa, ma cercavano di stabilire dei princìpi incompatibili con essa, e sostenevano che questi princìpi ne erano indipendenti.

Non s'arrischiando di demolire pubblicamente l'edifizio del Cristianesimo, gl'innalzavano accanto un altro edifizio, che, secondo loro, doveva farlo cadere.

Ma questa filosofia morale ha le sue basi nella ragione e nella coscienza; porta con se il suo proprio convincimento; e dopo avere sviluppato lo spirito con la ricerca dei princìpi, appaga il core con la scoperta di ciò che e veramente bello, giusto e conveniente.

E cos'ha fondato, da se, su queste basi?

Ha prodotto un convincimento unanime e perpetuo?

La sua ricerca dei princìpi è riuscita a un solo e inconcusso ritrovato?

Le sue scoperte del bello, del giusto e del conveniente sono anch'esse concordi?

E appagano il core davvero?

Se è così, può essere distinta dalla teologia: non ne ha più bisogno; o, per dir meglio sarà la teologia stessa.

Ma se ha variato e varia secondo i luoghi e i tempi, non si potrà opporla alla morale cattolica, che è una.

Sarà lecito domandare, prima di tutto, quale sia questa filosofia morale, di cui s'intende parlare; giacche è indubitato che ce ne sono molte.

Ci sono due cose principali nella morale, il principio, e le regole delle azioni, che ne sono l'applicazione: la storia della morale, sia come dottrina popolare, sia come scienza, presenta, e nell'uno e nell'altre, la più mostruosa varietà.

In quanto alle regole basta, per convincersene, rammentarsi gli assurdi sistemi di morale pratica che sono stati tenuti da nazioni intere.

Il Locke, volendo provare che non ci sono regole di morale innate e impresse naturalmente nell'anima degli uomini, ne ha citati esempi in gran quantità.

Egli è andato a cercarne la maggior parte tra i popoli rozzi e vicini allo stato selvaggio; ma non gliene sarebbe mancati tra le nazioni più conosciute, e che hanno più fama di civili e illuminate.

Trovavano essi nel loro core e nella loro mente la vera misura del giusto e dell'ingiusto i gentili?

Quei Romani i quali sentivano con raccapriccio che un loro cittadino fosse stato battuto di verghe, e ai quali pareva un atto di giustizia ordinaria il dar vivo alle fiere uno schiavo, fuggito per non poter resistere ai trattamenti d'un padrone crudele?

Di tale iniquità di fatti e di giudizi, gli storici e i moralisti antichi ci hanno trasmesse non poche testimonianze, e, per lo più, senza avvedersene.

Quale è dunque questo convincimento morale, se non nasce in tutti gli uomini?

Potrà pur troppo essere tanto compito, da determinare un uomo a commettere un'azione pessima, con la persuasione d'operar bene; tanto costante, da impedire che nasca in lui il rimorso dopo averla commessa; si potrà estendere a nazioni intere; ma sarà un convincimento falso.

E per chiarirlo tale, non sarà nemmeno necessario il testimonio della religione; basterà che cessino alcune circostanze, che si cambi un interesse, che s'abolisca una costumanza.

In quanto al principio della morale, le differenze non sono più tra i Mingrelianì, i Peruviani e i Topinambi: è questione di tempi e di paesi colti, e di pochi uomini che pretendono di fare astrazione da ogni interesse, da ogni autorità e da ogni abitudine per trovare il vero.

Pochi, dico, riguardo al rimanente degli uomini; ma autori di scole che si possono chiamar molte, anche in paragone di ciò che accade in tant'altre scienze, nelle quali il dissenso non è, a gran pezzo, ne così umiliante, ne così dannoso.

I nomi soli delle più universalmente celebri tra quelle scole, nomi che corrono alla mente d'ognuno, senza bisogno di citarli, bastano per dare un concetto pur troppo vasto d'una tale varietà, e dispensare da ogni prova.

E s'osservi che non sono di quelle discussioni che hanno, per dir così, un moto progressivo, facendo ognuna delle parti un qualche passo verso un centro comune, e tornando così in aumento stabile della scienza ciò che, da principio, era stato opinione particolare d'una scola.

Qui invece i diversi sistemi cadono e risorgono, conservando sempre le loro differenze essenziali; si disputa, ripetendo ognuno sempre i suoi argomenti come perentori, e ripetendoli per quanto si sia dovuto vedere che non riescono ad abbattere quelli degli avversari: è il gran carattere delle questioni inconciliabili.

Ora, se ciò che l'illustre autore ha nominalmente riunito sotto il titolo di filosofia morale, si risolve in fatto e si disperde in una moltiplicità eterogenea; se delle premesse diverse e opposte, e delle diverse e opposte conclusioni, intorno al bello, al giusto, al conveniente, sono tutt'altro che la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente; è superfluo l'aggiungere che da quelle non potrà mai resultare l'appagamento del core, asserito da lui come effetto d'una tale scoperta, e neppure, s'intende, quello della mente.

Gioverà piuttosto l'osservare come il non essere alcuno di quei tanti sistemi rimasto mai vittorioso, in una guerra così antica, e sempre viva o rinascente, venga dall'esser tutti ugualmente inetti a produrre quel duplice e corrispondente appagamento.

Ci sono in qualunque sistema di morale assolutamente distinta dalla teologia ( sia per ignoranza involontaria della rivelazione, sia per volontaria esclusione di essa ), due vizi innati e irremediabili: mancanza di bellezza, ossia di perfezione, e mancanza di motivi.

Perchè una morale sia compita, deve riunire queste due condizioni al massimo grado; deve cioè non escludere, anzi proporre i sentimenti e l'azioni più belle, e dare dei motivi per preferirle.

Ora, nessuno di questi sistemi può farlo: ognuno di essi è, per dir così, obbligato a scegliere; e tutto ciò che acquista da una parte, lo perde dall'altra.

Se, per evitare la difficoltà, si ricorre a un sistema medio, questo tempererà i due difetti, ma conservando e l'uno e l'altro.

Mi sia lecito d'entrare in un esame più esteso, per mettere in chiaro questa proposizione.

Quanto più un sistema di filosofia morale cerca d'adattarsi al sentimento universale, consacrando alcune massime che gli uomini hanno sempre lodate e ammirate, la preferenza data alle cose giuste sulle piacevoli, il sacrifizio di sé stesso, il dovere adempito e il bene fatto senza speranza di ricompensa né di gloria, tanto più riesce inabile a dare, dei suoi precetti e dei suoi consigli, una ragione adequata, prevalente a ogni argomento e a ogni interesse contrario.

Infatti, se noi esaminiamo quale sia in una bella azione la qualità che eccita l'ammirazione, e che le fa dare un tal titolo, vedremo non esser altro che la difficoltà ( intendo, non la difficoltà d'eseguire che nasce dagli ostacoli esterni, ma quella di determinarsi ): la giustizia, l'utilità saranno condizioni senza le quali essa non sarebbe bella, ma non sono quelle che la rendono tale.

Se, mentre si sta ammirando la risoluzione presa da un uomo in una data circostanza, si viene a sapere che gli tornava conto di prenderla, l'ammirazione cessa; quella risoluzione si chiamerà buona, utile, giusta, saggia, ma non più ammirabile ne bella; si dirà che quell'uomo è stato fortunato, onesto, avveduto; nessuno lo chiamerà grande.

E perciò l'invidia, la quale, quanto è sciocca riguardo all'intento, altrettanto è acuta nella scelta dei mezzi, mette tanto studio a trovar qualche motivo d'interesse in ogni bella azione, che non possa negare; cioè un motivo per cui sia stato facile il risolversi a farla: le cose facili non sono ammirate.

Ma perchè mai le più belle azioni compariscono difficili al più degli uomini, se non perchè essi non trovano nella ragione dei motivi sufficienti per intraprenderle risolutamente, anzi trovano nell'amore di sé dei' motivi contrari?

Ma se, per evitare l'inconveniente e la vergogna di dar precetti e consigli, senza poter proporre dei motivi proporzionati, un sistema di morale vuol limitarsi a prescrivere e a raccomandare l'azioni che s'accordino con l'utile temporale di chi le fa, non solo, non soddisfa, ma offende un'altra tendenza di tutti gli uomini, i quali non vogliono rinunziare alla stima di ciò che è bello senza essere utile temporalmente; anzi è bello appunto per questo.

Io so che, nel sistema della morale fondata sull'interesse, si spiegano tutte l'azioni più magnanime e più independenti da ciò che comunemente si chiama utile: si spiegano col dire che gli uomini di gran core ci trovano la loro soddisfazione.

Ma, perchè una teoria morale sia completa, non basta che spieghi come alcuni possano aver fatto ciò che essa medesima è costretta a lodare; bisogna che dia ragioni e motivi generali per farlo.

Altrimenti la parte più perfetta della morale diventa un'eccezione alla regola, una pratica che non ha la sua ragione nella teoria, ma ha solamente una cagione di fatto in certe disposizioni individuali; è quasi una stravaganza di gusto.

C'è negli uomini una potenza che gli sforza a disapprovare tutto ciò che non par loro fondato sulla verità; e siccome non possono disapprovare le virtù disinteressate, così vogliono un sistema nel quale esse entrino come ragionevoli.

Io credo che, quanto più si osservi, sempre più si vedrà che le morali umane si agitano tra questi due termini, cercando invano di ravvicinarli.

Ognuno di quei sistemi ha una parte di fondamento nell'una o nell'altra tendenza della natura umana, cioè o nella stima della virtù, o nel desiderio della felicità ( tendenze indistruttibili come il vero, che è l'oggetto dell'una, e il bene, che è il termine dell'altra ); ognuno tiene da quella su cui si fonda, un'imperfetta ragione d'essere, e una forza per combattere; come dal trascurar l'altra gli viene l'impotenza di vincere.

La difficoltà consiste nel soddisfarle ugualmente, nel trovare un punto dove la bellezza e la ragionevolezza dell'azioni, dei voleri, dell'inclinazioni, si riuniscano necessariamente, in ogni caso e con piena evidenza.

Questo punto è la morale teologica.

Qui l'anima umana ritrova, per dir così, la sua unità nel riconoscimento dell'unità eterna e suprema del vero e del bene.

S'immagini qualunque sentimento di perfezione: esso si trova nel Vangelo; si sublimino i desideri dell'anima la più pura da passioni personali fino al sommo ideale del bello morale: essi non oltrepasseranno la regione del Vangelo.

E nello stesso tempo non si troverà alcun sentimento di perfezione, al quale col Vangelo non si possa assegnare una ragione assoluta e un motivo preponderante, legati ugualmente con tutta la rivelazione.

È egli bello il perdonare l'offese, l'avere un core inalterabile, placido e fraterno per chi ci odia?

Chi ne dubita? Ma per qual ragione dovrò io impormi questi sentimenti, quando tutto mi strascina agli opposti?

Perchè tu non puoi odiare il tuo fratello se non come cagione del tuo male; se non lo è, il tuo odio diventa irragionevole e ingiusto: ora, egli non t'ha fatto male; la tua volontà sola può nocerti realmente: egli non ha fatto male, che a se stesso, e da te merita compassione.

Se l'offesa ti punge, è perchè dai alle cose temporali un valore che non hanno; perchè non senti abitualmente che Dio è il tuo solo bene, e che nessun uomo, nessuna cosa può impedirti di possederlo.

Il tuo odio viene dunque dalla corruttela del tuo core, dal traviamento del tuo intelletto: purifica l'uno e correggi l'altro, e non potrai odiare.

Di più, tu riconosci come il più sacro dovere quello d'amare Dio sopra ogni cosa: devi dunque desiderare che sia glorificato e ubbidito: oseresti tu volere che alcuna creatura ragionevole gli negasse il suo omaggio, si ribellasse alla sua legge?

Questo pensiero ti fa orrore; tu desidererai dunque che ogni uomo serva Dio e sia nell'ordine; se lo fai, desideri a ogni uomo la perfezione, la somma felicità: ami ogni uomo, senza alcuna possibile eccezione, come te stesso.

È bello il dare la propira vita per la verità e per la giustizia?

Il darla senza testimoni che t'ammirino, senza un compianto, nella certezza che gli uomini ingannati t'accompagneranno con l'esecrazioni, che il sentimento della santità della tua causa non troverà fuon di te dove appoggiarsi, dove diffondersi?

Non c'è uomo che non pianga di ammirazione al sentire che un altro uomo abbia abbandonata la terra così.

Ma chi proverà che sia ragionevole il farlo?

Quale è il motivo per cui si deva rinunziare a quel sentimento così forte nel core di ogni uomo, al desiderio di far consentire delle anime immortali come la nostra al nostro più alto e profondo sentire?

Perchè quando a seguire la giustizia non c'è altra strada che la morte, è certo per noi che Dio ci ha segnata quella per arrivare a Lui; perchè il secolo presente non ha il suo compimento in se; perchè il bisogno che abbiamo d'essere approvati non sarà soddisfatto se non quando vedremo che Dio ci approva; perchè ogni nostro sacrifizio è leggeiero in paragone dell'ineffabile sacrifizio dell'Uomo-Dio, al quale dobbiamo esser somiglianti, se vogliamo entrare a parte del suo regno.

Ecco i motivi per cui milioni di deboli creature, con quell'aiuto divino che rende facili tutti i doveri, hanno trovato che la determinazione la più ammirabile e la più difficile, quella di morire tra i tormenti per la verità, era la più ragionevole, la sola ragionevole; e l'hanno abbracciata.

Prodigiosa storia della religione! nella quale l'atto di virtù il più superiore alle forze dell'uomo, è forse quello di cui gli esempi sono più comuni.

Non se ne potrà immaginare alcuno, per cui il Vangelo non dia motivi: non si potrà immaginare un sentimento vizioso, che secondo il Vangelo, non supponga un falso giudizio.

Si domandi a un cristiano quale sia in ogni caso la risoluzione più ragionevole e più utile; dovrà rispondere: la più onesta e la più generosa.

Troviamo qui l'occasione di osservare di passaggio quanto sia inconsistente la distinzione che alcuni credono di poter fare tra la morale del Vangelo, per la quale professano ammirazione, non che stima, e i domini del Vangelo, che dicono opposti alla ragione; come se queste fossero nel Vangelo due dottrine estranee l'una all'altra.

E ci sono invece essenzialmente e perpetuamente connesse; a segno che non ci si trova quasi un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento dommatico, dal suo primo discorso alle turbe, nel quale dice beati i poveri di spirito, perche di questi e il regno de cieli, fino a quello che precedette di due giorni la celebrazione della sua ultima pasqua, e nel quale fonda il precetto dell'opere della misericordia sulla rivelazione della sua futura venuta a giudicare tutti gli uomini.

È quindi facile il vedere che quella distinzione implica una supposizione affatto assurda, come è quella d'una dottrina, nella quale la verità sia, non già mescolata accidentalmente col falso, ma fondata interamente sul falso.

E non già una qualche verità sparsa, staccata, secondaria; ma un complesso compito e perfettamente consentaneo di verità regolatrici di tutti gli affetti dell'animo, di tutte le determinazioni della volontà, in qualunque condizione della vita umana.

Supposizione, ripeto, assurda non meno che empia, d'un maestro sempre sapiente nei precetti, e sempre fallace nei motivi, il quale, in una norma del credere, indegna dell'assentimento della ragione, abbia ritrovata una norma del volere e dell'operare, che la ragione medesima deva poi riconoscere superiore a qualunque sua speculazione, come fa quando rammira, senza poterla rivendicare come sua, col darle, di suo, un diverso fondamento.

Infatti, dond'è, donde poteva essere ricavata l'idea di perfezione proposta agli uomini nel Vangelo, se non dall'esemplare del Dio perfetto, che nessuno ha mai veduto, e che fu rivelato dal Figlio unigenito, che e nel seno del Padre? ( Gv 1,18 ).

Chi poteva dir loro: Siate perfetti, se non Quello che poteva aggiungere: come è perfetto il vostro Padre che è nei cieli? ( Mt 5,48 )

Qual maestro avrebbe insegnato ai suoi discepoli, a tutti quelli che fossero per credere in lui fino alla fine dei secoli, a esser tutti una sola cosa, se non Quello che all'inaudito insegnamento poteva aggiungere quell'ineffabile esempio: come, o Padre, una sola cosa siamo noi? ( Gv 17,22 )

E i mezzi d'eseguire una tal legge, donde potevano venire se non dall'onnipotenza del Legislatore medesimo?

Chi poteva esigere dall'uomo la forza di superare tutte le tendenze contrarie, se non Chi gliela poteva promettere, dicendo: Chiedete e vi sarà dato? ( Lc 11,9 )

Chi la forza di sostenere per la giustizia tutte le violenze di cui è capace il mondo, se non Chi poteva dire: lo ho vinto il mondo?

Chi la forza più mirabile ancora, di sostenerle in pace, se non Chi poteva dire: Questa pace l'avrete in me? ( Gv 16,33 ).

E donde finalmente poteva aspettarsi una ricompensa perfetta come questa legge medesima?

Chi poteva prometterne una, non solo alla virtù, ma al segreto della virtù, se non Chi parlava in nome del Padre che vede nel segreto? ( Mt 6,4 ).

Chi prometterla abbondante in paragone di qualunque sforzo più eroico, di qualunque sacrifizio più doloroso, se non Chi poteva prometterla nei cieli?.

Chi nobile al pari del precetto d'aver fame e sete della giustizia, anzi perfettamente connaturale ad esso, se non Chi poteva dire: La vostra beatitudine starà nell'essere satollati?.

Si può egli non vedere in questi esempi ( e sarebbe facile il moltiplicarli, se ce ne fosse bisogno ) una connessione unica, una relazione necessaria, tra i precetti e i motivi?

Quando dunque la ragione ammira la morale del Vangelo, alla quale non si sarebbe potuta sollevare da se, fa rettamente il suo nobile ufizio: ma quando ne sconosce l'unità divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annunzia non vuol vedere una sola e medesima rivelazione; quando ricusa d'ammettere motivi soprannaturali di precetti ugualmente soprannaturali, che confessa eccellenti ( che non vuol dir altro se non conformi a delle verità d'un ordine eccellente ), allora non può più chiamarsi ragione, perche discorda da se medesima.

Sicché, quand'anche per quelle parole « filosofia morale », come sono adoperate dall'illustre autore e da lui opposte alla teologia, si potesse intendere, invece d'una confusa e discorde moltiplicità di dottrine, una sola dottrina; quand'anche si potesse intendere una dottrina tutta vera, cioè il complesso delle nozioni rette intorno alla morale, che si trovano, dirò così, sparse nell'umanità, e queste nozioni nettate dai tanti falsi concetti che ci sono mescolati, accresciute di ciò che l'osservazione e il ragionamento particolare possono aggiungere alla cognizione comune, e ordinate in forma di vera scienza; quand'anche, finalmente, si potesse per quelle parole intendere una scienza universalmente nota, e esclusivamente ricevuta, si dovrebbe ancora dirla inadequata all'intento, perchè in essa non si troverebbe un principio col quale a ogni grado della moralità ( e non solo della moralità intera e perfetta che c'è manifestata dalla Fede, ma di quella medesima a cui arriva la cognizione naturale ) si possa assegnare una ragione assoluta, legata con una sanzione preponderante; perchè in altri termini, le sue speculazioni non pareggiano, né potrebbero mai pareggiare l'idea del bene morale, sia come regola, sia come termine della volontà, cioè e come virtiì e come felicità: idea che ai più sinceri e potenti sforzi di quelle speculazioni, non solo rimane inesaurita, ma sempre più comparisce inesauribile.

Dal che viene di conseguenza che non si potrebbe da quella filosofìa ricavare un criterio applicabile a ogni azione e a ogni sentimento.

Anzi, per esser vera scienza, dovrà essa medesima riconoscere questa sua mancanza; giacche come mai potrà esser vera scienza una la quale sconosca la natura del suo oggetto, e la misura necessaria delle sue speculazioni, a segno di non avvedersi d'una sproporzione necessaria che ci sia tra queste e quello?

e, per restringere il bene morale nei limiti di quelle speculazioni, lo mutili e lo snaturi?

neghi il carattere di verità a tutto ciò che le oltrepassa, o riconoscendo al di là da quelle qualcosa ( e quanto! ) a cui non può negare il carattere di verità, e di cui non sa render ragione, si dichiari nondimeno scienza compita?

Ai precetti poi che essa sola poteva promulgare, e ai motivi che essa sola poteva rivelare, la religione aggiunge ( ciò che ugualmente poteva essa sola ) la cognizione di ciò che può darci la forza d'adempire i primi, e d'adempirli per riguardo e secondo lo spirito dei secondi: cioè quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia. ( Lc 11,13 )

Certo, non era necessario la rivelazione per farci conoscere che troppo spesso troviamo in noi medesimi, non solo una miserabile fiacchezza, ma una indegna repugnanza a seguire i dettami della legge morale.

E l'apostolo dei gentili, dicendo: Non fo il bene che voglio, ma quel male che non voglio, quello io fo ( Rm 7,19 ), ripeteva una verità ovvia anche per loro.

Ovidio aveva detto prima di lui: Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l'approvo; e vo dietro al peggio.

E quando l'apostolo medesimo esclama: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte? ( Rm 7,24 ) si direbbe quasi che non faccia altro, che ripetere il lamento di Socrate.

Ma da qual uomo non istruito nella scola di cui Paolo fu cosi gran discepolo e così gran maestro, poteva uscire quella divina risposta alla desolata domanda, allo sterile lamento: La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro? ( Rm 7,25 ).

Principio d'irrecusabile autorità; regole alle quali si riduce ogni atto e ogni pensiero; spirito di perfezione che in ogni cosa dubbia rivolge l'animo al meglio; promesse superiori a ogni immaginabile interesse temporale; modello di santità, proposto nell'Uomo-Dio; mezzi efficaci per aiutarci a imitarlo, e nei sacramenti istituiti da Lui ( e nei quali anche chi ha la disgrazia di non riconoscere l'azione divina, non può non vedere azioni che dispongono a ogni virtù ), e nella preghiera, a disposizione della quale, per dir così, è messa la potenza divina da quel: Chiedete, e vi sarà dato; tale è la morale della Chiesa cattolica: quella morale che sola potè farci conoscere quali noi siamo, che sola, dalla cognizione di mali umanamente irremediabili, potè fai nascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe l'umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza d'ammirazione e d'applauso.

Che, anche dopo il Cristianesimo, alcuni filosofi si siano affaticati per sostituirgliene un'altra, è un fatto purtroppo vero.

Simili a chi, trovandosi con una, moltitudine assetata, e sapendo d'esser vicino a un gran fiume, si fermasse a fare con dei processi chimici qualche gocciola di quell'acqua che non disseta, hanno consumate le loro cure nel cercare una ragione suprema e una teoria completa della morale, assolutamente distinta dalla teologia: quando si sono abbattuti in qualche importante verità morale, non si sono ricordati ch'era stata loro insegnata, ch'era un frammento o una conseguenza del catechismo; non si sono avvisti che avevano soltanto allungata la strada per arrivare ad essa, e che invece d'avere scoperta una legge nova, spogliavano della sanzione una legge già promulgata.

La Chiesa non ignora i loro sforzi, e i loro ritrovati; ma è forse questo un esempio per lei?

Non ha potuto altro che compiangerli e ammonirli: perchè avrebbe dovuto imitarli?

La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha consegnata una dottrina morale perfetta, non dovrà mantenersene padrona?

dovrà cessare di dirgli con Pietro: Da chi andremo? tu hai le parole di vita eterna? ( Gv 6,69 ) dovrà cessare di ripetere che disperde chi noti raccoglie con lui? ( Lc 11,23 )

Potrà supporre un momento che ci siano due vie, due verità, due vite?

Le sono stati affidati dei precetti; e depositaria infedele, ministra diffidente, dispenserà dei dubbi?

Lascerà da una parte la parola eterna, e s'avvilupperà nei discorsi dell'uomo, per riuscire a trovare forse che la virtù è più ragionevole del vizio, forse che Dio dev'essere adorato e ubbidito, forse che bisogna amare i suoi fratelli?

Il Verbo avrà assunta questa carne mortale, e attraversate l'angosce ineffabili della redenzione, per meritare alla società fondata da Lui un posto tra l'accademie filosofiche?

La Chiesa, che, con i suoi primi insegnamenti, può innalzare il semplice, il quale ignora perfino che ci sia una filosofia morale, al più alto punto, non di questa filosofia, ma della morale medesima; a quel punto a cui si trova un Bossuet dopo aver percorso un vasto circolo di meditazioni sublimi; l'abbandonerà a se stesso, affinchè prenda, se può, la strada del ragionamento, che può condurre a cento mete diverse?

Stanco e smarrito, l'uomo si rifuggirà alla città collocata sul monte ( Mt 5,14 ), e questa non gli darà asilo?

Affamato di giustizia e di certezza, d'autorità e di speranza, ricorrerà alla Chiesa, e la Chiesa non gli spezzerà quel pane che si moltiplica nelle sue mani?

No: la Chiesa non tradisce così i suoi figli: noi non possiamo temere d'essere abbandonati da lei: non ci resta che il timore salutare che possiamo abbandonarla noi: un tal timore non deve che accrescere la nostra fiducia in Chi ci può tenere attaccati a questa colonna e fondamento della verità ( 1 Tm 3,15 ).

Dimentichiamo diciotto secoli di esistenza, di successione di pastori e di sommi pastori, di continuazione nella stessa dottrina; diciotto secoli nei quali si contano tante persecuzioni e tanti trionfi, tante separazioni dolorose e non una sola transazione: che abbiamo noi bisogno d'esperienza?

I primi fedeli non l'avevano, e hanno creduto: bastò loro la parola di quel Dio per cui mille anni sono come il giorno di ieri che e passato ( Sal 90,4 ).

A rischio di cadere in qualche ripetizione, chiedo il permesso d'insistere un poco ancora sopra un argomento così importante.

La scienza morale puramente umana, appunto perche scienza umana, è naturalmente defettiva e incompleta.

Perciò il Creatore, che abbandonò l'altre alle dispute, dei figlioli degli uomini ( Qo 3,11 ), volle per questa, non dirò eminente tra tutte, ma unica; per questa che, avendo per fine, non solo d'accrescere cognizione all'intelletto, ma di dirigere la volontà in ogni suo atto, riguarda tutto l'uomo ( Qo 12,13 ); volle, dico, aggiungere al lume della ragione con cui l'aveva distinto da tutte le creature terrestri, un soprannaturale e positivo insegnamento; e se, riguardo all'altre scienze, gli aveva dato con la ragione medesima un mezzo di discernere, di raccogliere e d'ordinare un certo numero di verità, volle, riguardo a questa, rivelare al mondo tutta la verità ( Gv 16,13 ).

Quindi la morale religiosa, chi non voglia negarla, non si può concepire altrimenti che come il perfezionamento della morale naturale.

E appunto perchè l'illustre autore, lunge dal negare la relazione di questa con la religione, la pone espressamente, quella conseguenza viene necessariamente dalle sue parole.

Infatti, il dire, che c'e un nesso intimo tra la religione e la morale, è dire ( per quanto la formola sia astratta ) in primo luogo, che tra di esse non c'è opposizione, giacché nella proposizione stessa sono date implicitamente come vere tutt'e due; è dire in secondo luogo, che una di esse ha qualcosa che manca all'altra; giacché, se comprendessero tutt'e due un ugual complesso di cognizioni morali, non sarebbe nesso, ma identità.

Dicendo poi: « una di esse », bisogna intendere una sola di esse, la quale e abbia qualcosa che l'altra non ha, e abbia tutto ciò che l'altra ha; o, in altri termini, la comprenda in se tutta quanta; giacche, se si volesse intendere che ognuna delle due abbia qualcosa di proprio e di speciale, che manchi all'altra, s'avrebbe a supporre, o che dipendano da due diversi princìpi, il che è evidentemente falso, quando hanno lo stesso oggetto; o che non fossero se non due parti diverse, due applicazioni parziali e circoscritte e, per dir così, due diversi frammenti d'una scienza che contenesse il principio supremo della morale, e fosse insomma la vera e universale scienza della morale: supposizione, anche questa, che non si può enunciare, se non per escluderla.

Per conseguenza, ciò che una di quelle due, alle quali si dà ugualmente il nome di morale, deve avere più dell'altra, è niente meno che l'integrità, l'essere completo di scienza morale: l'altra non può essere appunto, che una parte e come un frammento di questa.

Il dar poi a tutt'e due ugualmente il nome di morale può essere senza errore e senza inconveniente, quando non gli si attribuisca un valore uguale nei due casi tanto disuguali: quando, cioè, per l'una s'intenda la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata, d'alcune verità morali; per l'altra, la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l'ordine intiero.

Posto ciò, che, come dicevo, discende per necessità logica da quella proposizione: c'è un nesso intimo tra la religione e la morale; a quale di queste due si dovrà egli attribuire quell'integrità, quel contener tutta l'altra, e, per conseguenza, la facoltà di darle il compimento che le manca nella cognizione umana?

La risposta è troppo ovvia; poiché, independentemente da ogni esame e da ogni paragone, sarebbe asurdo a priori il supporre che Dio, con l'aggiungere all'uomo delle cognizioni soprannaturali, non gli abbia dato che una parte di ciò che gli avesse già dato interamente per mezzo della ragione, o di ciò che con questo mezzo l'uomo potesse acquistar da sé.

Dunque una religione rivelata da Dio, impadronendosi della morale, non leva nulla alla ragione data all'uomo da quel Dio medesimo, i doni del quale non sono soggetti a pentimento ( Rm 11,29 ).

Non fa altro che darle, darle abbondantemente, darle il tutto, darle, in una certa maniera, anche quel tanto che essa aveva già, col renderlo compito e inconcusso.

Di quelle sante e solenni parole che sono come la parte essenziale del vocabolario morale di tutti i tempi e di tutti i luoghi - giustizia, dovere, virtù , benevolenza, diritto, coscienza, premio, pena, bene, felicità, - quale, Dio bono! è stata cancellata o lasciata fuori dalla Chiesa?

La Chiesa non fa altro, che aggiunger loro la pienezza e, con questo, la chiarezza e la stabilità del significato.

Il mondo le ripeteva a una a una come piene di verità, con una fiducia più fondata di quello che intendesse lui medesimo; ma, troppo spesso, invece della naturale concordia tra le verità che quelle parole esprimono, gli pareva di vedere un contrasto doloroso, un escludersi a vicenda, e la luce d'una eclissare quella d'un'altra, o annebbiarsi scambievolmente.

La scienza poi, non che comporre il dissidio e dissipare l'oscurità, l'accresceva per lo più, cambiando in altrettanti sistemi quelle tristi oscillazioni delle menti, e sacrificando a una verità arbitrariamente prediletta dell'altre verità, e qualche volta impiegando tutto lo sforzo della riflessione, e l'apparato del ragionamento a negare le più nobili e le più sante.

La dottrina evangelica, compimento della legge data a un popolo eletto ( Mt 5,17 ); questa dottrina affidata dal Messia alla Chiesa, per essere da lei conservata e predicata fino alla consumazione dei secoli, ha rinfrancate e messe d'accordo tutte le verità morali, rivelando l'ordine intero dove appariscono, come sono, indivisibili: dimanierachè ciò ch'era un problema insolubile per i dotti, è diventata una cognizione evidente anche per gl'idioti.

Dottrina, per possedere la quale, tutti coloro a cui, per inestimabile grazia è annunziata, non hanno a far altro che credere e amare.

E questa credenza sia pure da alcuni chiamata cieca e materiale.

Cieca e materiale credenza davvero, l'aderire con un assenso risoluto e fermo a tutte le diverse verità morali, non per quella sola luce, dirò così, parziale, con cui si presentano alla mente ciascheduna da se, ma per la loro relazione con una verità suprema, nella quale tutte si riuniscono!

Cieca e materiale credenza l'intendere che il vero male per l'uomo non è quello che soffre, ma quelo che fa; e intenderlo per la cognizione d'un ordine universale, in cui tra la vera giustizia e la vera e finale felicità non ci può esser contrasto, per esser quest'ordine prestabilito dall'Essere infinitamente giùsto, sapiente e potente; e il saper quindi che c'è un'armonia dove il ragionamento che si separa dalla fede non sa spesso far altro che accusare una contradizione!

Cieca e materiale credenza l'intendere che i piaceri temporali non sono veri beni; e intenderlo, non solo per quella sproporzione col nostro desiderio di godere, e per quella instabilità e caducità che l'esperienza ci sforza, per dir così, a riconoscere volta per volta in ciascheduno di essi; ma per la nozione e per il paragone d'un bene perfetto e inamissibile nozione che ha istruito l'uomo intorno alla sua intima natura più di quello che nessuna speculazione scientifica potesse mai fare; poiché, concepita l'essenza d'un tal bene, l'uomo potè intendere e, dirò così, avvedersi che solo un bene di quel genere, o piuttosto quel solo bene fuori d'ogni genere, era capace di soddisfare un essere dotato, come lui, d'intelligenza e di volontà; nozione, la quale sola può render ragione di quell'esperienza medesima, appunto perchè la trascende infinitamente!

Cieca e materiale credenza quella che, facendo intendere che i beni temporali non sono il fine dell'uomo, li fa con ciò stesso conoscere come mezzi; e nella quale trovano per conseguenza una ragione evidente del pari e il giusto disprezzo e la giusta stima di essi; il procurargli agli altri, e il trascurarli per se, quando il trascurarli sia un mezzo più conducente al fine, che il possederli; e la pazienza senza avvilimento, e l'attività senza inquietudine!

Dunque ancora, l'essere la filosofia morale distinta dalla teologia ( la quale non è altro che la scienza della religione ), non è punto una condizione appartenente all'essenza della morale: è solamente un fatto possibile, e troppo spesso reale.

E il voler convertire un tal fatto in un principio, il volere cioè che la scienza morale deva rimanere assolutamente distinta dalla teologia, sarebbe, non dico un condannarla a rimanere in uno stato d'imperfezione, ma un costituirla nell'errore; perchè, quantunque sia possibile ( giova ripeterlo ) il formare coi soli elementi somministrati dalla cognizione naturale, una scienza morale mancante bensì di verità importantissime, ma immune da errori; pure l'escludere scientemente e di proposito tali verità, è già per sé un errore capitale, ed è insieme una cagione perenne d'errori.

Sarebbe un voler perpetuare, in mezzo alla luce del Vangelo, l'oscurità e l'incertezza del gentilesimo; e con tanto più tristo effetto, quanto il rifiutare la verità allontana da essa più che l'ignorarla.

Dunque finalmente, anche secondo i soli argomenti della ragione, la Chiesa, impadronendosi della morale, non ha fatto altro che adempire una condizione essenziale alla vera religione.

A una che si desse per tale, e non asserisse di possedere l'intera e perfetta morale, la ragione medesima potrebbe, anzi dovrebbe dire; - Quando protesti di non essere la custode perpetua, la maestra suprema della morale, non posso non crederti; perchè il non riconoscere in se una tale autorità e il non averla, è una stessa cosa.

Ma per ciò appunto non posso crederti quando pretendi d'esser la vera religione.

Non posso nemmeno ammettere la possibilità di trovarti tale, quando avessi esaminati i tuoi argomenti.

Per ammettere una tale possibilità, dovrei supporre dimostrabile una di due cose ugualmente assurde: o una religione priva d'una dottrina morale; o una morale rivelata da Dio, e inferiore ( uguale, sarebbe assurdo in un'altra maniera ) alle cognizioni e ai ritrovati degli uomini.

Dobbiamo in ultimo render conto di un'omissione che sarà facilmente notata dai lettori più riflessivi.

Avendo in questo troppo lungo capitolo avuto a considerare la morale sotto diversi aspetti, e in diverse sue applicazioni, non abbiamo però mai fatta menzione dei doveri dell'uomo verso Dio, i quali sono certamente una parte ( lasciamo star quanta ) della morale: chi non voglia dire, o che l'uomo non abbia alcun dovere verso Dio, o che ci siano dei doveri estranei alla morale.

Non occorre avvertire che non abbiamo inteso con questo d'aderire all'opinione, o piuttosto alla consuetudine non ragionata e puramente negativa di quelli che restringono la morale alle relazioni degli uomini tra di loro.

Solamente abbiamo creduto che, anche rimanendo in quest'ordine di fatti e d'applicazioni, si potesse trattare la questione senza mutilarla; giacche una verità, per quanto le si restringa arbitrariamente il campo, si manifesta tutt'intera all'osservazione, anche in quel piccolo spazio che le è lasciato; appunto perchè è tutta in ogni sua parte; e, se ciò non fosse, non sarebbe possibile il fare di essa la minima applicazione.

Il dimostrare che le relazioni degli uomini tra di loro sono ben lontane dall'esaurire e dall'adeguare il concetto intero della moralità, avrebbe senza dubbio somministrati degli argomenti più immediati contro la proposta separazione della morale dalla teologia; ma ci avrebbe condotti ancora più in lungo, e non si sarebbe potuto fare senza ripetere cose già dette molto bene da altri.

Abbiamo dunque presa la questione dov'è confinata da molti, e dove, del rimanente, era stata lasciata dall'illustre autore; e abbiamo procurato, per quanto lo promettevano le nostre forze, di far vedere come, anche nella parte che riguarda le sole relazioni degli uomini tra di loro, la morale puramente filosofica sia naturalmente defettiva; come ogni volta che cerca d'arrivare col ragionamento quella perfezione che pure la ragione intravvede, il ragionamento, dopo inutili sforzi, vada, per dir così, a morire in un desiderio, e come questo giusto e nobile desiderio sia appagato dalla morale rivelata, e non lo possa essere che da questa; come il concetto della più eminente virtù dell'uomo verso gli uomini trovi la sua desiderata e manifesta ragione nel regno di Dio e nella sua giustizia ( Mt 6,33 ).

Perfino il nome non l'ha se non in questa dottrina quella virtù medesima, quand'è eminente davvero.

Non già un nome tutto suo, fatto per essa, e proprio esclusivamente di essa.

Sarebbe poca cosa, e non potrebbe significar nulla d'eminente; poiché il suo concetto, non riferendosi che agli uomini, rimarrebbe necessariamente circoscritto nei limiti di questo oggetto medesimo, e non andrebbe al di là di ciò che agli uomini può esser dovuto per la loro natura.

Quello che una tal virtù riceve dalla dottrina evangelica è il nome sovrumano di Carità, il quale, unendo con l'amor di Dio l'amor degli uomini, lo fa in qualche maniera partecipare della ragione infinita di quello; nome che contempla in essi, non la sola natura quale si può riconoscere per mezzo della ragione; ma l'origine, che li fa essere figlioli di Dio; ma l'umanità assunta dal Verbo, che li fa essere fratelli di Gesù Cristo; ma la natura medesima quale è interamente manifestata dalla fede, e che li fa essere a immagine e similitudine dell'ineffabile Trinità.

L'Uomo-Dio ha detto: Ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l'avrete fatta a me ( Mt 25,40 ).

Quale filosofia avrebbe mai potuto scoprire nel bene fatto agli uomini un tal valore, promettergli una tale riconoscenza?

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