Il potere della croce

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« Ha vinto il leone della tribù di Giuda! »

Noi possediamo un commento autentico del racconto della Passione che abbiamo appena ascoltato, un commento uscito dalla mano dello stesso evangelista Giovanni, o, comunque, dalla mano di uno dei suoi intimi discepoli, vissuto nella sua cerchia e nutritesi del suo pensiero.

Si tratta del capitolo quinto dell'Apocalisse.

Entrambi i testi si riferiscono allo stesso avvenimento del Calvario che il Quarto Vangelo narra in forma storica e l'Apocalisse interpreta e celebra in forma profetica e liturgica.

Nel capitolo quinto dell'Apocalisse l'evento pasquale è presentato nella cornice di una liturgia celeste, che si ispira però al culto reale e terreno della comunità cristiana del tempo.

Tutti, leggendolo, potevano scorgervi i tratti di ciò che celebravano nelle loro assemblee liturgiche.

La liturgia pasquale alla quale Giovanni si ispira, sia nel Vangelo che nell'Apocalisse, è quella Quartodecimana che celebra la Pasqua lo stesso giorno in cui la celebravano gli ebrei, il 14 di Nisan, nell'anniversario, cioè, della morte di Cristo, non della risurrezione.

Quella, per intenderci, che pone al centro di tutto il Venerdì di parasceve e che vede anche la risurrezione a partire da esso.

Sappiamo dalla storia che le sette chiese dell'Asia Minore, alle quali è indirizzato il libro dell'Apocalisse, seguivano tutte la prassi Quartodecimana.

Di una di esse, Smirne, fu vescovo un discepolo di Giovanni, san Policarpo, che, verso la metà del II secolo, venne a Roma proprio per discutere con papa Aniceto la questione della differehte data della Pasqua.

Di un'altra, Sardi, fu vescovo il noto quartodecimano Melitene.

Il capitolo quinto dell'Apocalisse è, dunque, il miglior commento a ciò che stiamo celebrando.

Si riferisce allo stesso momento storico e liturgico che anche noi stiamo rivivendo.

Esso contiene parole di Dio, parole ispirate, rivolte a noi, ora e qui.

Ascoltiamole.

« E vidi - dice - nella mano destra di Colui che era assise sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli » ( Ap 5,1 ).

Questo libro scritto dentro e fuori indica la storia della salvezza e, concretamente, le Scritture dell'Antico Testamento che la contengono.

È scritto all'esterno e all'interno - spiegavano i Padri della Chiesa - per dire che si può leggere secondo la lettera e secondo lo Spirito, cioè o nel suo senso letterale, che è particolare e provvisorio, o nel suo senso spirituale, che è universale e definitivo.

Ma per poterlo leggere anche "dentro", bisogna che il rotolo sia dissigillato, mentre esso è, al presente, sigillato con sette sigilli.

La Scrittura, prima di Cristo, somiglia allo spartito di un'immensa sinfonia che giace sulla carta e di cui non si può udire il suono potente, fintanto che non viene messa, in testa a esso, l'indicazione della chiave musicale in cui leggerlo.

Il funzionario della regina Candace che tornava da Gerusalemme, leggendo il capitolo 53 di Isaia, si rivolge a Filippo domandandogli: « Di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro? » ( At 8,34 ).

( Stava leggendo il passo dove si dice: « Come pecora fu condotto al macello e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa … » ).

Mancava ancora la chiave di lettura.

La visione di Giovanni prosegue: « Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: "Chi è degno di aprire il libro e di scioglierne i sigilli?".

Ma nessuno né in cielo, né in terra né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo.

Io piangevo molto … ».

Giovanni - come è nella natura stessa della liturgia - ci riporta, in spirito, al momento storico in cui le cose accadono o stanno per accadere.

Il pianto del profeta evoca il pianto dei discepoli al momento della morte di Gesù ( « Noi speravamo che fosse lui … » ), il pianto della Maddalena accanto al sepolcro vuoto, il pianto di tutti coloro che « aspettavano la redenzione di Israele ».

« Ma uno dei vegliardi - prosegue la visione - mi disse: "Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di David, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli" ».

Enikesen! Vicit! Ha vinto!

Questo il grido che il veggente è incaricato di far risuonare nella Chiesa e la Chiesa nel mondo, per tutti i secoli: ha vinto il leone della tribù di Giuda! ( Il « leone della tribù di Giuda » è il Messia, cosi chiamato dalle parole che Giacobbe pronuncia, nel libro della Genesi, benedicendo il figlio Giuda ).

L'evento che da sempre si aspettava e che tutto spiega è accaduto.

Non si tornerà più indietro.

Con un immane sforzo la storia ha spostato il suo baricentro da dietro in avanti, ha raggiunto il suo culmine.

Si è instaurata la pienezza dei tempi.

« È compiuto - Consummatum est », ha gridato Gesù prima di spirare ( Gv 19,30 ).

Quel semplice verbo al passato, enikesen, ha vinto, racchiude il principio stesso che da forza e assolutezza alla storia, quello che conferisce a un fatto accaduto in un punto del tempo e dello spazio un valore eterno e universale: « È impossibile che non sia accaduto ciò che è accaduto - Impossibile est factum non esse quod factum est ».

Nessuno meglio del « principe di questo mondo » conosce la tremenda forza di questo principio che rappresenta, per la storia, quello che il principio di non-contraddizione rappresenta per la metafìsica.

Non si potrà più tornare indietro a ciò che era prima.

Niente e nessuno al mondo, per quanto si sforzi, può far sì che non sia accaduto ciò che è accaduto e cioè che Gesù Cristo non sia morto e risorto, che gli uomini non siano redenti, la Chiesa fondata, i sacramenti istituiti, il regno di Dio instaurato.

« Ecco la pagina voltata che rischiara tutto, come quel grande foglio illustrato sul messale.

Eccola, risplendente e pitturata in rosso, la grande Pagina che separa i due Testamenti.

Tutte le porte si aprono in una volta, tutte le opposizioni si dissipano, tutte le contraddizioni si risolvono » ( P. Claudel ).

Anche noi abbiamo ascoltato, nel corso di questa liturgia, la lettura di Isaia 53 sull'agnello condotto al macello, ma non abbiamo avuto più bisogno di chiederci, come faceva il ministro della regina Candace, di chi parla il profeta.

Noi sappiamo ormai di chi parla, perché il libro è stato aperto.

Come e quando è avvenuto tutto questo?

La visione continua: « Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato ».

Un Agnello immolato, cioè ucciso, che tuttavia sta in piedi, cioè è risorto!

Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha dunque compiuto tutto ciò.

Egli ha spiegato le Scritture compiendole; non, cioè, a parole, ma con i fatti. Giovanni si rifà apertamente alla scena del Calvario, quando, con la sua morte vittoriosa, Gesù ha « compiuto le Scritture ».

« Io ho vinto - dice il Risorto stesso nell'Apocalisse - e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono » ( Ap 3,21 ).

Un poeta ha immaginato questo racconto fatto dal centurione che era presente quel giorno sul Calvario.

« Non ci fu mai una morte come questa e io ne ho perso ormai il conto …

La sua battaglia non era con la morte.

La morte era sua serva, non la sua padrona.

Non era un uomo sconfitto …

Sulla croce, la sua battaglia era con qualcosa di molto più serio che le lingue amare dei farisei.

No, la sua era un'altra battaglia …

Alla fine emise un alto grido di vittoria.

Tutti si chiedevano che fosse, ma io ne so qualcosa di combattimenti e di combattenti.

Riconosco un grido di vittoria, tra mille ».1

La vittoria è proprio quella morte accettata in totale obbedienza al Padre e amore per gli uomini.

La risurrezione non ha fatto, per l'evangelista Giovanni, che portare alla luce la vittoria nascosta, realizzata sulla croce.

Gesù è « vincitore perché vittima - victor quia vidima ».2

Come sull'altare, dopo la consacrazione, nulla apparentemente è cambiato nel pane e nel vino, mentre sappiamo che sono ormai tutt'altra cosa rispetto a prima, essendo diventati il corpo e il sangue di Cristo, così, con la Pasqua, nulla apparentemente è cambiato nel mondo, mentre in realtà tutto è cambiato e il mondo è diventato una « creazione nuova ».

Ma perché Giovanni sente il bisogno di ricordare queste cose alla Chiesa del suo tempo?

Ce lo domandiamo perché proprio qui, credo, è racchiuso il messaggio per noi di questa pagina del Nuovo Testamento.

Qui raggiungiamo il senso e lo scopo della liturgia che stiamo celebrando.

Un giorno Giovanni Battista mandò due dei suoi discepoli da Gesù a chiedergli: « Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro? » ( Mt 11,3 ).

Sembra che il Precursore, condividendo, in parte, con i suoi contemporanei, l'attesa di un Messia glorioso e trionfatore, fosse rimasto disorientato dall'operato di Gesù così mite e dimesso, così poco fiammeggiante rispetto a quello che egli si era immaginato.

Sembra, insomma, che ebbe anche lui la sua prova di fede, il suo "scandalo", circa Gesù, come lo ebbero, per lo stesso motivo, Pietro e gli altri apostoli.

Sappiamo cosa fece rispondere Gesù a Giovanni: « Beato colui che non si scandalizza di me » ( Mt 11,6 ).

Una cosa analoga si ripeté verso la fine dell'era apostolica, in seno, questa volta, alla comunità cristiana.

La seconda lettera di Pietro ci riferisce una domanda che serpeggiava qua e là tra i cristiani: « Dov'è la promessa della sua venuta?

Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione » ( 2 Pt 3,4 ).

L'Apocalisse è scritta per una Chiesa che vive questa situazione e deve fronteggiare questo terribile dubbio.

Ma è vero che colui che doveva venire è venuto? È vero che tutto è cambiato?

O non è vero piuttosto il contrario, che tutto, cioè, è come prima?

I discepoli del Cristo sono perseguitati, segnati a dito, esclusi dai vantaggi che offre la società.

Alla bestia « è stato concesso di fare guerra ai santi e di vincerli » ( Ap 13,7 ).

Spunta, su questo terreno, la divisione interna, l'eresia, che tende a spostare il centro dell'attenzione dalla vita concreta alle speculazioni ( la gnosi ), in modo da togliere alla vita cristiana quell'esigenza di radicalità e consentire di venire a patti con i costumi dei pagani.

A questa Chiesa tentata di scoraggiamento e di « tiepidezza », bisognosa di ritrovare il suo « fervore di un tempo », per affrontare, se necessario, anche il martirio, proprio a questa Chiesa il veggente fa giungere quel grido pasquale potente come uno squillo di tromba: « Enikesen - Ha vinto! ».

Giovanni vuol fare di tutti i cristiani dei « veggenti » come lui: persone che hanno occhi per vedere ciò che è diventato il mondo a causa della morte di Cristo.

C'è una zona dello spettro dei colori, quella situata al di qua del rosso, che non è percepita dall'occhio umano.

Con i suoi raggi, detti raggi infrarossi, si possono cogliere aspetti delle cose e del nostro stesso pianeta, altrimenti sconosciuti.

L'immagine che se ne ricava è tutta diversa da quella dell'esperienza ordinaria.

Avviene così anche nel campo dello spirito.

C'è un aspetto della realtà, quello che non passa con il passare della figura di questo mondo, che non si vede a occhio nudo, ma solo alla luce della rivelazione divina.

L'uomo naturale, anche se istruito su tutto e sapientissimo, non lo sospetta nemmeno.

È l'immagine pasquale del mondo che risulta dalla morte e risurrezione di Cristo; è il mondo visto, come lo vede Dio stesso.

Essa non fa vedere soltanto un aspetto in più della realtà, ma fa vedere ogni cosa in una luce nuova, anche le cose di quaggiù.

Giovanni ha ricevuto questa immagine, ne è tutto imbevuto, e ora la trasmette alla Chiesa in tutta la sua potenza profetica.

« Chi ha orecchi - non si stanca di ripetere - ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese » ( Ap 2,7ss ).

L'interrogativo e la tentazione avvertiti, per un attimo, dal Precursore ( « Sei tu colui che deve venire? » ) e quelli avvertiti dai cristiani della seconda generazione ( « Dov'è la promessa della sua venuta? » ) sono presenti e quanto mai operanti anche oggi.

Tutto sembra continuare come dalla creazione del mondo.

Anche oggi alla bestia « è concesso di fare guerra ai santi e di vincerli ».

I credenti e, in modo diverso, tutti i retti di cuore e gli uomini di buona volontà, sono spesso perdenti su tutti i fronti.

L'antico avversario si insinua in questa situazione per fiaccare la resistenza proprio delle anime più amanti della verità e della giustizia e più sensibili al dolore e al male del mondo.

E mentre la Chiesa, il Venerdì Santo, proclama al mondo che questo è il giorno della grande redenzione, egli grida a tali anime, martirizzandole: « Questo è il giorno della grande menzogna, questo è il giorno della grande menzogna!

Guardatevi intorno: cosa c'è di redento nel mondo? ».

L'accusatore è precipitato anche oggi « come folgore », ogni volta che, nella fede, facciamo nostra la parola del profeta e ripetiamo: « Vicit leo de tribù ludo. - Ha vinto il leone della tribù di Giuda » e ha aperto il libro.

Tutto è redento, perché anche la sofferenza e la stessa morte sono redente.

Più colui che ripete quella parola è nella prova, umanamente sconfitto e debole, più il suo grido si leva puro e fa tremare dalle fondamenta il potere delle tenebre, perché allora la sua fede è purificata come l'argento nel crogiolo e soprattutto perché allora egli somiglia più da vicino all'Agnello, il quale divenne vincitore accettando di essere vittima.

Dinanzi alla tomba del fratello morto, Gesù disse a Marta: « Io ti dico che se tu credi vedrai la gloria di Dio » ( Gv 11,40 ).

La stessa cosa ripete a ciascuno di noi quando umanamente non sembra più esserci via d'uscita: « Io ti dico che se tu credi vedrai la gloria di Dio! ».

Noi non abbiamo quaggiù soltanto fede nella vittoria, ma abbiamo anche vittoria nella fede.

Nella fede, siamo già vincitori, sperimentiamo già qualcosa della vita eterna.

Chi crede siede già « presso Gesù nel suo trono » e « gusta la manna nascosta ». ( Ap 2,17; Ap 3,21 )

Giovanni ce lo ricorda con forza: « Questa è la vittoria che vince il mondo: la vostra fede » ( 1 Gv 5,4 ).

Ci fu un tempo in cui era più facile proclamare questa vittoria del Crocifisso.

« La croce, che un tempo era segno di ignominia, brilla ora sulla corona dei re », esclamavano alcuni Padri della Chiesa, dopo la fine dell'era delle persecuzioni.3

Non si sentì forse promettere, Costantino stesso, nella sua celebre visione della croce: « In questo segno vincerai - In hoc signo vinces »?

Ora però non è più così e proprio nelle nazioni di antica tradizione cristiana.

Il Crocifisso è rimosso da un posto dopo l'altro.

Ora perciò è più che mai il tempo di proclamare che ha vinto il leone della tribù di Giuda, come quando questa parola fu recata a Giovanni ed egli era « relegato nell'isola di Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Cristo » ( Ap 1,9 ).

« Beato chi non si scandalizza di me », continua a dire Gesù.

Quando stiamo per essere sopraffatti da situazioni più grandi di noi, o quando il disegno di Dio sulla nostra vita, sulle persone a noi care, o sull'intera Chiesa, ci appare come un libro sigillato con sette sigilli e noi dobbiamo eseguirlo senza capirlo, o quando vediamo anche oggi perire il povero e il debole senza che nessuno se ne dia pensiero, allora è il momento di metterci in ginocchio e gridare con tutta la fede: « Ha vinto il leone della tribù di Giuda e aprirà il libro e i suoi sette sigilli! ».

In lui è stata data una speranza a tutti i vinti e le vittime del mondo di diventare anch'essi vincitori.

È scritto che appena l'Agnello ebbe preso il libro dalla mano di Colui che sedeva sul trono, si udì un coro potente che riecheggiava da un capo all'altro del cielo e della terra e diceva: « Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato …

Tu sei degno, tu sei degno! », ed è scritto anche che alla fine tutti « si prostrarono in adorazione ».

È quello che, fra pochi istanti, faremo anche noi, quando ci prostreremo nell'adorazione del Crocifisso, prolungando sulla terra la divina liturgia del cielo.

« Io piangevo molto », diceva il profeta di se stesso, all'inizio della visione, e anche la Chiesa oggi piange.

Piange per la morte del suo Sposo sulla croce, piange in mezzo alle tribolazioni del mondo, piange per la defezione e la durezza di cuore di tanti suoi figli, piange per le sue stesse infedeltà.

È a questa Chiesa, dal cuore contrito e umiliato, riunita intorno all'Agnello, dietro il suo Pastore, che è rivolta oggi quella parola piena di giubilo e di speranza: « Non piangere più! Enikesen, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide. Ha vinto!».

Indice

1 F. Topping, An Impossible God
2 Agostino, Confessioni, 10,43
3 Agostino, Esposizioni sui Salmi, 76,10