L'azione

Indice

Introduzione

Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi

A Leon Ollé-Laprune maìtre de conférences alla Scuola Normale Superiore in segno di riconoscenza, di devozione e di rispetto

La vita umana ha o non ha un senso? E l'uomo ha un destino?

Io agisco, ma senza neanche sapere che cos'è l'azione, senza aver desiderato di vivere, senza conoscere esattamente né chi sono né addirittura se sono.

Questa apparenza di essere che si agita in me, queste azioni irrisorie e fugaci di un'ombra, ebbene oso dire che esse portano in loro una pesante responsabilità per l'eternità, e che, anche a prezzo del sangue, non posso comprare il nulla, perché per me non esiste più: sarei dunque condannato alla vita, condannato alla morte, condannato all'eternità!

Ma come, e con quale diritto, se non l'ho né saputo né voluto?

Farò chiarezza su tutto.

Se c'è qualcosa da vedere, ho bisogno di vederlo.

Verrò a sapere, forse, se questo fantasma che sono per me stesso, con questo universo che porto nel mio sguardo, con la scienza e la sua magia, con lo strano sogno della coscienza, ha qualche solidità o meno.

Scoprirò senza dubbio ciò che si nasconde nei miei atti, in questo fondo ultimo in cui, senza di me, malgrado me, io subisco l'essere e mi ci abbarbico.

Saprò se del presente e del futuro, quali che siano, ho una conoscenza e una volontà sufficienti per non sentirvi mai la tirannia.

Il problema è inevitabile; l'uomo lo risolve inderogabilmente; e questa soluzione, giusta o sbagliata, ma volontaria e al tempo stesso necessaria, ognuno la porta nelle proprie azioni.

Ecco perché bisogna studiare l'azione: lo stesso significato del termine e la ricchezza del suo contenuto si dipaneranno a poco a poco.

È bene prospettare all'uomo tutte le esigenze della vita, tutta la pienezza nascosta delle sue opere, per rafforzare in lui, con la forza di affermare e di credere, il coraggio di agire.

I.

Stando all'evidenza immediata, l'azione nella mia vita è un fatto, il più generale e il più costante di tutti, l'espressione in me del determinismo universale; essa si produce anche senza di me.

Più che un fatto, è una necessita, che nessuna dottrina nega, perché questa negazione esigerebbe uno sforzo supremo, che nessun uomo evita, perché il suicidio è ancora un atto; essa si produce anche malgrado me.

Più che come una necessità, spesso l'azione mi appare come un obbligo; è indispensabile che venga prodotta da me, anche quando esige da me una scelta dolorosa, un sacrificio, una morte: non solo vi consumo la mia vita corporea, ma vi sacrifico sempre degli affetti e dei desideri che reclamerebbero tutto, ognuno per sé.

Non si va avanti, non si impara, non ci si arricchisce, se non precludendosi tutte le vie tranne una, se non impoverendosi di tutto quello che si sarebbe potuto sapere e guadagnare in altro modo.

C'è un rimpianto più sottile di quello dell'adolescente obbligato, per entrare nella vita, ad arginare la sua curiosità con una specie di paraocchi?

Ogni decisione taglia fuori una infinità di atti possibili.

A questa mortificazione naturale nessuno sfugge.

Avrò almeno la facoltà di fermarmi? No, bisogna andare avanti.

Potrò sospendere la decisione, per non rinunciare a niente?

No bisogna impegnarsi, altrimenti si perde tutto; bisogna compromettersi.

Non ho il diritto di stare in sospeso, altrimenti non ho più il potere di scegliere.

Se non agisco di mia iniziativa, c'è qualcosa, in me o fuori di me, che agisce senza di me; e ciò che agisce senza di me, di solito agisce contro di me.

La pace è una sconfitta; l'azione non sopporta altra dilazione che la morte.

È dunque necessario « di buon grado » che io metta a disposizione testa, cuore e braccia, altrimenti mi vengono presi.

Se rifiuto la mia libera dedizione, cado in schiavitù; nessuno fa a meno di idoli: i devoti come i libertini.

Un pregiudizio di scuola o di partito, una parola d'ordine, una convenienza mondana, una passione, ce n'è abbastanza perché vada persa ogni inazione, perché ogni libertà venga sacrificata; ecco per che cosa spesso si vive e si muore!

Ma almeno mi rimarrà la speranza di comportarmi, se lo voglio, in piena luce e di lasciarmi guidare solo dalle mie idee? No.

La prassi, che non sopporta alcun indugio, non comporta mai una chiarezza totale; la sua analisi completa non è possibile per un pensiero finito.

Ogni regola di vita che sia fondata unicamente su una teoria filosofica e su principi astratti sarebbe temeraria: non posso procrastinare l'agire finché non sia apparsa l'evidenza, e ogni evidenza che brilla allo spirito è parziale.

Un mera conoscenza non e mai sufficiente a metterci in azione, perché non ci afferra interamente: in ogni atto c'è un atto di fede.

Potrò almeno realizzare quello che ho deciso, qualunque cosa sia, come l'ho deciso? No.

Tra quello che so, quello che voglio e quello che faccio c'è sempre una sproporzione inspiegabile e sconcertante.

Le mie decisioni spesso vanno al di là dei miei pensieri, e i mie atti al di là delle mie intenzioni.

Talvolta non faccio tutto quello che voglio; talaltra, quasi a mia insaputa, faccio quello che non voglio.

E queste azioni che non ho previsto completamente, che non ho comandato interamente, dopo che sono compiute pesano su tutta la mia vita, e sembra che agiscano su di me più di quanto io non abbia agito su di esse.

Mi sento come se fossi loro prigioniero; talvolta si rivoltano contro di me, come un figlio ribelle al padre.

Hanno fissato il passato, incidono sul futuro.

Un primo sguardo sulla mia condizione mi rivela l'impossibilità di astenermi e di risparmiarmi, l'incapacità di soddisfarmi, di essere autosufficiente, di affrancarmi.

Che nella mia vita vi sia costrizione e, per così dire, oppressione, non è una chimera o un gioco dialettico, è la brutale esperienza quotidiana.

Alla scaturigine dei miei atti, nell'uso e dopo l'esercizio di ciò che chiamo la mia libertà, mi sembra di sentire tutto il peso della necessità.

In me niente vi sfugge: se tento di sottrarmi alle iniziative decisive, sono reso schiavo per non avere agito; se vado avanti, sono soggetto a ciò che ho fatto.

Nella prassi nessuno elude il problema della prassi; e ognuno non solo lo pone, ma inevitabilmente lo risolve modo proprio.

È proprio questa necessità che bisogna giustificare.

E che significa giustificarla, se non mostrare che essa è conforme all'aspirazione più intima dell'uomo?

Perché io non ho coscienza della mia schiavitù se non immaginando, desiderando una totale liberazione da essa.

I termini del problema dunque sono nettamente opposti.

Da una parte tutto quello che domina e opprime la volontà; dall'altra la volontà di dominare tutto, o di poter ratificare tutto: perché non c'è essere dove non c'è che costrizione.

Come risolvere allora il conflitto? Da quale dei due termini del problema bisogna partire come dall'incognita?

È alla volontà buona che si darà la precedenza, come se essa scommettesse su una cosa certa e infinita,1 senza poter conoscere, prima della fine, che mentre sembra sacrificarvi tutto, in realtà non ha speso nulla per guadagnarla?

O viceversa per prima bisogna considerare soltanto ciò che è inevitabile e necessitato, rifiutando ogni concessione, respingendo tutto quello che può essere respinto, per vedere, con la necessità della scienza, dove in definitiva ci conduce questa necessità dell'azione, salvo poi mostrare senz'altro, in nome dello stesso determinismo, che la volontà buona ha ragione?

La prima strada si impone, e può essere praticata da tutti.

È la via pratica.

È necessario anzitutto definirla, se non altro per salvaguardare la parte di coloro, i più numerosi e spesso i migliori, che non possono fare altro che agire, senza discutere l'azione.

Peraltro, come si dimostrerà, nessuno è esonerato dall'imboccare questa via diretta.

Ma sarà opportuno dimostrare come diventi legittimo un altro metodo per confermare il primo e per anticipare le rivelazioni finali della vita, come esso sia necessario per la soluzione scientifica del problema: l'oggetto del presente lavoro deve essere precisamente questa scienza della prassi.

II

Prima di discutere le esigenze della vita, anzi proprio per discuterle, è necessario essersi sottomessi a esse.

Ma questo primo controllo è sufficiente per giustificarle?

E si riuscirà, senza alcuna fatica del pensiero, con la sola esperienza, uguale per tutti, a scoprire la soluzione certa, che liberi la vita da ogni tirannia e soddisfi le coscienze?

Io sono e agisco, anche mio malgrado; e mi vedo obbligato, sembra, a rispondere di tutto ciò che sono e che faccio.

Accetterò dunque senza ribellarmi questa costrizione che non posso abolire, perché questa docilità effettuale è l'unico metodo diretto di verifica: in effetti per quanto in apparenza vi opponga resistenza, nulla potrebbe esonerarmi dall'obbedirvi.

Non ho quindi altra risorsa che fare credito; ogni tentativo di insubordinazione, non sottraendomi affatto alla necessità dell'azione, costituirebbe una incoerenza sia rispetto alla scienza sia rispetto alla coscienza.

Non lo si dirà mai abbastanza: nessuna difficoltà di fatto, nessun dubbio speculativo può sottrarre legittimamente chiunque a questo metodo pratico che sono obbligato e deciso ad adottare innanzitutto.

Si richiede testa, cuore e braccia: eccomi pronto; facciamo l'esperimento.

L'azione è una necessità; agirò.

Spesso l'azione mi appare come un obbligo: obbedirò.

Tanto peggio se è un'illusione, un pregiudizio ereditario, un residuo dell'educazione cristiana: ho bisogno di una verifica personale, e la farò a ogni costo.

Nessun altro può fare al mio posto questo controllo; ne va di me e del mio tutto; è la mia persona e tutto me stesso che metto in gioco nell'esperimento.

Oltre noi stessi non abbiamo altro; e le prove autentiche, le vere certezze sono quelle che non si comunicano.

Viviamo soli come moriamo soli; gli altri non c'entrano.

« Ma se è impossibile tentare l'esperimento per procura, non sarebbe sufficiente farlo a livello di progetto, con una visione dello spirito? »

Sono comici tutti quei teorici della prassi che osservano, deducono, discutono, legiferano su quello che non fanno.

Il chimico non ha la pretesa di produrre l'acqua senza idrogeno e senza ossigeno.

Io non pretenderò di conoscermi e di mettermi alla prova, di acquisire la certezza o di valutare il destino dell'uomo, senza gettare nel crogiolo l'uomo intero che porto in me.

Questo organismo di carne, di appetiti, di desideri, di pensieri di cui sento perennemente l'oscuro lavorio è un laboratorio vivente: ecco dove deve formarsi la mia scienza della vita.

Tutte le deduzioni dei moralisti sui fatti più notevoli, sui costumi e sulla vita sociale, di solito sono artificiose, anguste, povere.

Agiamo, e lasciamo da parte la loro alchimia.

« Ma vi sono dubbi, oscurità, difficoltà. »

Peggio ancora; bisogna andare avanti nonostante tutto, per sapere come regolarsi.

Il vero rimprovero che si muove alla coscienza non è di non parlare abbastanza, ma di esigere troppo.

Del resto a ogni passo basta il suo punto d'appoggio; ed è sufficiente un barlume, un appello confuso perché mi diriga dove presagisco qualcosa di quello che cerco, un sentimento di pienezza, una luce sul ruolo che devo svolgere, una conferma della mia coscienza.

In piena notte non ci si ferma in aperta campagna: se accampassi come pretesto le tenebre di cui mi sembrano circondate le necessità e i doveri pratici, per non dare loro alcun credito e non sacrificarvi nulla, verrei meno al mio metodo; e invece di scusarmi mi condannerei, se osassi biasimare quello che questa oscurità nasconde, o me ne facessi scudo spudoratamente per disertare l'esperienza.

Anche lo scienziato è costretto spesso a pagare il prezzo dell'audacia e a mettere a rischio la materia forse preziosa che ha in mano; egli non sa in anticipo quello che cerca, e tuttavia lo cerca; proprio precorrendo i fatti, egli li raggiunge e li scopre; non sempre aveva previsto quello che trova; e non se lo spiega mai del tutto, perché non visita mai, nella loro profondità più recondita, le officine della natura.

Questa materia preziosa che debbo esporre sono io stesso, perché non posso fare la scienza dell'uomo senza l'uomo.

Nella vita vi sono continuamente esperimenti belli e pronti, ipotesi, tradizioni, precetti, doveri che dobbiamo semplicemente verificare: l'azione è questo metodo di precisione, questa prova di laboratorio in cui, senza mai comprendere nei particolari le operazioni, ricevo la risposta certa che nessun artificio dialettico può surrogare.

Qui si dà la competenza: non importa se costa caro.

« Ma poi non c'è equivoco e incoerenza in questo ordinamento di vita? se bisogna sempre scegliere tra diversi partiti, perché sacrificare questo a quello; non si ha il diritto, per non dire il dovere, di sperimentare tutto? »

No; non c'è ne ambiguità né incoerenza quando uno, fedele alla generosità che l'impresa richiede e preferendo la bontà del vivere all'orgoglio del pensare, si consacra senza mercanteggiare alla coscienza e alla sua semplice testimonianza.

La sperimentazione morale, come ogni altra sperimentazione, deve èssere un metodo di analisi e di sintesi: il sacrificio consiste in questa analisi reale la quale, mortificando gli appetiti troppo imperiosi e troppo noti a tutti, mette in evidenza una volontà superiore, che sussiste solo nell'opporre loro resistenza.

Questo sacrificio non depaupera, ma sviluppa e completa la persona umana.

Si lamentano forse quelli che hanno dato prova di eroismo?

Si pretenderebbe forse che la vita fosse sempre buona per i malvagi?

Essa appunto sarebbe cattiva, se per costoro risultasse piacevole, senza intoppi, gustosa, e se ci fosse tanta luce nella deviazione quanta sulla dritta via.

Non si tratta di una soddisfazione speculativa, ma di un controllo empirico.

Se ho già la soluzione, sarebbe imperdonabile perderla in attesa di comprenderla; significherebbe fuggirla per raggiungerla.

La curiosità dello spirito non abolisce le necessità pratiche col pretesto di studiarle; e per pensare non sono esonerato dal vivere; ho bisogno per lo meno del riparo di una morale, provvisoria, perché il bisogno di agire è di ordine completamente differente dal bisogno di conoscere.

Ogni deroga ai dettami della coscienza è fondata su un pregiudizio speculativo, e ogni critica della vita, che poggi su un'esperienza incompleta, è radicalmente incompetente.

Un esiguo raggio di luce non è certo sufficiente a illuminare l'immensità della prassi; quello che si vede non distrugge quello che non si vede; e siccome non si è ancora riusciti a collegare perfettamente l'azione al pensiero e la coscienza alla scienza, tutti, ignoranti o filosofi, sono obbligati a rimanere, come bambini, docili, ingenuamente docili, all'empirismo del dovere.

Così, in assenza di qualsiasi discussione teorica, come pure nel corso di qualsiasi indagine speculativa sull'azione, mi si prospetta un metodo di verifica diretto e totalmente pratico? questo strumento unico di giudizio sui vincoli della vita e di valutazione circa le esigenze della coscienza consiste nell'affidarmi semplicemente a tutto quello che la coscienza e la vita esigono da me.

Solo in questo modo io preserverei l'accordo tra la necessità che mi costringe ad agire e il movimento della mia propria volontà; solo in questo modo saprei se in fin dei conti posso ratificare, con un assenso definitivo della mia libera ragione, questa necessità preliminare, e se trovo chiaro e buono tutto quello che mi era sembrato oscuro, dispotico, cattivo.

Dunque, a condizione di non abbandonare questa dritta via della prassi, la quale verrebbe abbandonata solo per un'incoerenza, la prassi medesima contiene un metodo completo, e allestisce senza dubbio una valida soluzione del problema che essa accolla a ogni uomo.

Se non si comprende qual è questo metodo di esperienza diretta e non si ha il coraggio di adoperarlo; se non si paga la competenza morale al prezzo di tutto ciò che si ha e di tutto ciò che si è, non c'è giudizio che tenga.

Per emettere un giudizio di condanna sulla vita occorrerebbe che, dopo aver fatto l'esperienza di tutto ciò che offre di più doloroso, essa ci consentisse di rimpiangere tutti i sacrifici e tutti gli sforzi fatti per renderla buona.

Ma è possibile? E se non si è tentato di fare la prova, è consentito di rammaricarsi?

III.

Certo, bisogna raccogliere queste recriminazioni.

È possibile che la dritta via finisca là dove nessun'altra via conduce; è possibile che si sia colpevoli di abbandonarla.

Ma se la si è abbandonata, non la si è imboccata, se lungo il cammino si è incorsi in una caduta, non si ha più alcun valore?

La scienza deve essere magnanima come la carità, e non deve ignorare persino quello che la morale condanna.

Nonostante la sufficienza della prassi, diventa legittimo, e persino necessario, un ulteriore metodo, che forse è destinato a illuminare e a giustificare l'altro, ma che è del tutto differente da quello.

Per quali motivi? Eccone alcuni dei principali.

Senza dubbio nessuno è tenuto a discutere con la propria coscienza, a mercanteggiare la propria sottomissione, a speculare sulla prassi.

Ma chi si sottrae alla curiosità dello spirito, chi non ha dubitato della bontà del proprio compito e non si è mai chiesto perché fa quello che fa?

Quando le tradizioni sono infrante, come accade; quando la regola dei costumi è intaccata quasi su tutti i fronti; quando, per uno strano vizio della natura, l'attrattiva di ciò che la coscienza popolare chiama male esercita su tutti una sorta di fascino, è possibile agire sempre con la gioiosa e coraggiosa semplicità che nessuna incertezza trattiene e nessun sacrificio scoraggia?

No; se il metodo dei semplici e dei generosi è buono, è necessario come minimo che si possa mostrare perché.

Questa apologià non sarebbe altro che lo sforzo supremo della speculazione, consistente nel dimostrare la supremazia dell'azione.

Del resto, anche quando non si hanno esitazioni su quello che c'è da fare, si fa sempre quello che si sa e quello che si vuole?

E se l'esperienza della vita è viziata da continue mancanze, se la pristina semplicità va perduta, se sulla strada si erge l'ombra del passato irrimediabile di un atto, non c'è forse bisogno di ricorrere a una via indiretta? e la riflessione provocata dall'ostacolo medesimo non è forse necessaria come una luce per ritrovare la via smarrita?

Nella coscienza più ingenua la presenza del male, spesso nata da una curiosità orgogliosa o sensuale, produce a sua volta un bisogno di discussione e di scienza.

Bisogna dunque cercare al livello delle idee, per quanto possibile scientifiche, questo complemento ovvero questo supplemento della spontaneità morale.

Ma si badi bene; niente è più pericoloso e meno scientifico che orientarsi nella prassi sulla base di idee incomplete.

L'azione non potrebbe essere parziale o provvisoria come può esserlo la conoscenza.

Quindi quando si è iniziata la discussione dei principi della condotta umana, non si deve tener conto della disamina finché non è completata, perché ci vuole qualcosa di capitale, di centrale, di totale per illuminare e regolare gli atti.

Ora, se è vero che nessuno è obbligato a speculare sulla prassi, tuttavia non c'è nessuno che non abbia le sue idee sulla vita, e non si ritenga autorizzato ad applicarle.

Pertanto è essenziale svolgere questo esame fino alla fine perché solo alla fine diventerà legittima l'autorità che spesso la speculazione usurpa nei confronti dell'azione.

Bisogna dunque sostituire una scienza dell'azione; una scienza che non sarà tale sé non in quanto è totale, perché qualsiasi maniera di pensare e di vivere deliberatamente implica una soluzione completa del problema dell'esistenza; una scienza che non sarà tale se non in quanto determina per tutti una soluzione unica che escluda ogni altra soluzione.

Perché non può darsi che le mie ragioni, se sono scientifiche, abbiano più valore per me che per gli altri, né che esse diano luogo ad altre conclusioni diverse dalle mie.

Anche su questo punto il metodo diretto di verifica della prassi ha bisogno di essere completato; è quanto ci resta da dimostrare.

In effetti, essendo personali e incomunicabili, gli insegnamenti emersi dalla sperimentazione morale hanno valore solo per colui che li suscita in sé.

Senza dubbio egli è riuscito ad apprendere dove ( si acquisisce la vera lucidità dello spirito e a fondare in se stesso una certezza intima che trascende, nella sua prospettiva, qualsiasi altra sicurezza.

Ma colui che sa perché lo fa non può rivelarlo agli altri che non lo fanno: agli occhi degli altri la sua non è che opinione, credenza, ovvero fede; per lui stesso la sua scienza non ha affatto il carattere universale, impersonale, perentorio che ha la scienza.

Ora è bene che ciascuno per proprio conto possa giustificare pienamente, per quanto possibile, contro i sofismi della passione, le ragioni della propria condotta; è bene che ciascuno possa trasmettere e dimostrare a tutti la soluzione, che lui sa certa, del problema che si impone a tutti; è bene che, se la nostra vita ci deve giudicare con un rigore sovrano, noi possiamo giudicarla, se lo vogliamo, con una lucidità sufficiente.

Risulta dunque evidente perché è legittimo, e diviene addirittura necessario, porre il problema speculativo della prassi.

Si tratta adesso di esaminare come si pone.

IV.

Nello studio della realtà in che modo procedono i metodi veramente scientifici?

Essi escludono qualsiasi falsa spiegazione di un fatto, qualsiasi coincidenza fortuita, qualsiasi circostanza accidentale, mettendo lo spirito di fronte alle condizioni necessarie e sufficienti, e lo costringono a enunciare la legge.

Si tratta di questa via indiretta che è l'unica praticata dalla scienza, perché essa, partendo dal dubbio ed eliminando sistematicamente qualsiasi possibilità di errore e qualsiasi causa di illusione, chiude tutte le uscite tranne una: allora la verità si impone, è dimostrata.

Ora a rigore non vi sarà una scienza dell'azione finché non si riuscirà a trasferire nella critica della vita l'essenziale di questo metodo indiretto.

Perché non bisogna immaginare gli uomini diversi da quello che sono per lo più, soprattutto gli uomini di pensiero: essi fanno solo di testa loro, cioè vogliono scegliere e vogliono sapere dove vanno; e per saperlo con sicurezza praticano persino strade sbagliate.

Senza indagine completa non c'è dimostrazione risolutiva e stringente.

Se nelle scienze della natura lo spirito si arrende solo davanti a un'impossibilità di dubitare, a fortiori nel mondo delle sue passioni, delle sue sofferenze e delle sue lotte interiori l'uomo tiene duro, e rimane dove sta, finché non è sfrattato dalla postazione, qualunque essa sia, in cui lo trattiene l'amor proprio in mancanza di altro interesse: a nessuno si chieda di fare il primo passo.

La scienza non ha alcuna concessione da fare.

Accettare, sia pure a titolo di prova o di semplice postulato, l'obbligo morale o anche la necessità naturale di agire sarebbe fare il primo passo, e il passo decisivo.

È questa costrizione, sono queste esigenze pratiche a essere in questione, a dover essere giustificate agli occhi meno indulgenti e con lo sforzo anche di coloro che vi si sottraggono con tutto il loro potere.

Dal momento in cui pongo il problema teorico dell'azione e ho la pretesa di scoprirne la soluzione scientifica, non ammetto più il valore di alcuna soluzione pratica, almeno in via provvisoria e da questa visuale differente.

A partire da questo istante i termini correnti di bene, male, dovere, colpevolezza che avevo usato sono svuotati di senso, fintanto che possa restituire loro, se è il caso, la loro pienezza.

Di fronte alla stessa necessità che, per dirla nel linguaggio delle apparenze, mi costringe a essere e ad agire, mi rifiuto di ratificare, nell'ordine del pensiero, quello che nell'ordine dell'azione sono deciso a praticare.

E siccome occorre anzitutto eliminare tutte le false maniere di essere e di agire, invece di appuntare lo sguardo esclusivamente sulla dritta via, esplorerò tutte quelle che più si allontanano da essa.

La mia situazione è dunque ben precisa.

Da una parte una sottomissione totale e assoluta ai dettami della coscienza, una docilità immediata, sul piano dell'azione; la mia morale provvisoria è tutta la mia morale, senza che nessuna obiezione di ordine intellettuale o sensibile mi autorizzi a rompere questo patto col dovere.

Dall'altra, indipendenza completa e assoluta sul piano della sfera scientifica; non, come si intende di solito, un'emancipazione immediata dell'intera vita nei confronti di qualsiasi verità regolatrice, di qualsiasi giogo morale, di qualsiasi fede positiva: ciò significherebbe tirare la conclusione prima di aver giustificato le premesse, e consentire al pensiero di usurpare un'autorità prematura nel momento stesso in cui se ne riconosce l'incompetenza.

Qualunque sia il risultato scientifico dell'indagine iniziata, è necessario che soltanto al termine essa raggiunga e illumini la disciplina pratica della vita.

Ecco quindi come va intesa l'indipendenza necessaria alla scienza dell'azione: questa stessa ricerca manifesterà meglio l'importanza fondamentale e l'originalità unica del problema.

In effetti di che si tratta? si tratta di sapere se nonostante le evidenti costrizioni che ci opprimono, se attraverso le oscurità in cui dobbiamo procedere, se fino alle profondità della vita inconscia da cui emerge il mistero dell'azione come un enigma la cui soluzione sarà forse terribile, se in tutti i traviamenti della mente e del, cuore sussiste, malgrado tutto, il germe di una scienza e il principio di una rivelazione intima, tale che niente apparirà arbitrario o inspiegato nel destino di ciascuno, tale che vi sarà un assenso definitivo da parte dell'uomo alla sua sorte, qualunque essa sia, tale infine che questa chiarezza rivelatrice delle coscienze non cambierà nel profondo quegli stessi che schiaccerà come sotto il peso di una sorpresa.

Bisogna dunque indagare se alla radice delle più insolenti negazioni o delle più folli stravaganze della volontà non vi sia un movimento iniziale che persiste sempre, che noi amiamo e cogliamo anche quando lo rinneghiamo o ne abusiamo.

É necessario trovare in ciascuno il principio del giudizio da pronunciare su ciascuno.

E in questa indagine diventa indispensabile l'indipendenza dello spirito, non soltanto perché è importante che si ammetta anzitutto, senza alcun partito preso, tutta l'infinita diversità delle coscienze umane, ma soprattutto perché bisogna ritrovare in ciascuna di esse, sotto i sofismi ignorati e le mancanze inconfessate, l'aspirazione primigenia, al fine di condurle tutte, con totale sincerità, fino all'apice del loro slancio volontario.

Così invece di partire da un punto unico da cui si irraggerebbe la dottrina peculiare di un solo individuo, è necessario collocarsi agli estremi dei raggi più divergenti, al fine di recuperare al centro la verità essenziale a ogni coscienza e il movimento comune a ogni volontà.

Affrontando la scienza dell'azione non c'è dunque nulla che possa ritenere concesso, né a livello dei fatti, né a livello dei principi, né a livello dei doveri; mi accingo a lavorare rifiutando qualsiasi appoggio precario.

Né posso pretendere come Cartesio, con un artificio che sa di scolastica per quanto serio possa essere, di estrarre dal dubbio e dall'illusione la stessa realtà dell'essere; siccome non percepisco alcuna consistenza in questa realtà del sogno, essa è vuota e rimane fuori di me.

Neppure mi si può proporre, con Pascal, di giocare a testa o croce sul nulla e sull'eternità; perché fare la scommessa significherebbe già ratificare l'alternativa.

Non si può, seguendo Kant, far sorgere da non so quale oscurità un non so quale imperativo categorico; lo considererei un intruso sospetto.

Al contrario bisogna accogliere tutte le negazioni che si annullano a vicenda, come se fosse possibile ammetterle insieme; bisogna entrare in tutti i pregiudizi, come se fossero legittimi, in tutti gli errori, come se fossero verità, in tutte le passioni, come se avessero la generosità di cui menano vanto, in tutti i sistemi filosofici, come se ciascuno tenesse in pugno l'infinita verità che ritiene di possedere.

Prendendo in sé tutte le coscienze, bisogna rendersi complice segreto di tutti, per vedere se portano in sé la loro giustificazione o la loro condanna: lasciamo che siano arbitri di se stessi, che vedano dove li condurrebbe la loro volontà più libera e più recondita, che vengano a conoscere quello che fanno senza saperlo e quello che sanno già senza volerlo e senza farlo.

Quindi, perché il problema dell'azione sia posto in termini scientifici, occorre che non si debbano accettare né un postulato morale né un dato intellettuale.

Dunque ci si prospetta non una questione particolare, una questione come un'altra.

È la questione, quella senza la quale non vi sono altre questioni.

Essa è talmente originaria che ogni concessione previa costituirebbe una petizione di principio.

Come qualsiasi fatto contiene l'intera sua legge, allo stesso modo ogni coscienza cela il segreto e la legge della vita; non c'è da fare ipotesi; non si può supporre né che il problema venga risolto, né persino che sia imposto o semplicemente posto.

Deve essere sufficiente lasciare che la volontà e l'azione si sviluppino in ciascuno, perché si riveli l'orientamento più intimo dei cuori, fino all'accordo o alla contraddizione finale del movimento primitivo con il termine in cui sfocia.

La difficoltà consiste nel non introdurre nulla di esteriore e di artificiale in questo dramma profondo della vita, di raddrizzare, se è il caso, la ragione e la volontà mediante la ragione e la volontà medesime, di far produrre, con un progresso metodico, agli errori, alle negazioni, alle deficienze di qualunque natura la verità latente di cui vivono gli spiriti, e di cui forse possono morire per l'eternità.

V.

Così tutto è messo in questione, anche il sapere se c'è una questione.

Dunque la molla di tutta l'indagine deve essere fornita dall'indagine stessa; e il movimento del pensiero si deve sostenere da sé, senza alcun artificio esteriore.

Qual è questo meccanismo interno? Eccolo.

Perché è bene, non per il valore ma per la chiarezza dell'esposizione, indicare in anticipo il pensiero motore e, chiamando in causa, col prezzo della vita, la stessa realtà dell'essere, mettere a fuoco il nodo comune tra la scienza, la morale e la metafisica.

Tra esse non c'è contraddizione, perché là dove si sono viste delle realtà incompatibili non vi sono altro che fenomeni eterogenei e solidali.

E se si è invischiati in inestricabili difficoltà laddove non ce ne sono, è per non aver saputo riconoscere dove sta l'unica questione.

Si tratta di tutto l'uomo; quindi non lo si deve cercare solo nel pensiero.

Bisogna trasferire nell'azione il centro della filosofia, perché, là si trova anche il centro della vita.

Se non sono quello che voglio essere, quello che voglio con tutto il mio cuore, con tutte le mie forze, con tutti i miei atti, non a parole, non col desiderio o con l'intenzione, non sono affatto.

In fondo al mio essere o c'è un volere e un amore dell'essere, o non c'è nulla.

In questa necessità che mi era apparsa come una costrizione tirannica, in questa obbligazione che dapprima mi sembrava dispotica occorre vedere istanze che manifestano e mettono in funzione l'azione profonda della mia volontà; altrimenti esse mi distruggerebbero.

Tutta la natura delle cose e la catena delle necessità che pesano sulla mia vita costituisce unicamente la serie dei mezzi che devo volere, che di fatto voglio, per realizzare il mio destino.

L'essere involontario e coartato non sarebbe più l'essere: come è vero che l'ultima parola di tutto è la bontà, e che essere significa volere e amare.

Il pessimismo si è fermato troppo presto nella filosofia della volontà, perché malgrado il dolore e la disperazione noi avremo ancora ragione di riconoscere la verità e l'eccellenza dell'essere, se lo vogliamo da parte nostra con totale sincerità e spontaneità.

Per soffrire di essere, per odiare il mio essere, occorre che riconosca e che ami l'essere; il male e l'odio non esistono che divenendo un omaggio all'amore.

Pertanto, qualsiasi sproporzione apparente vi sia tra ciò che so, ciò che voglio e ciò che faccio; per quanto possano essere tremende le conseguenze dei miei atti; persino se, essendo capace di perdermi ma non di sfuggire a me stesso, esisto fino al punto che sarebbe meglio per me non esistere, comunque per essere occorre che io voglia essere, anche se devo portare in me la dolorosa contraddizione tra ciò che voglio e ciò che sono.

Nel mio destino non c'è niente di arbitrario o di tirannico, perché la minima pressione esteriore basterebbe a deprivare l'essere di ogni valore, di ogni bontà, di ogni consistenza.

Io non ho niente che non abbia ricevuto, e tuttavia occorre al tempo stesso che tutto nasca da me, anche l'essere che ho ricevuto e che mi sembra imposto; occorre che, qualunque cosa faccia o subisca, sanzioni questo essere e lo generi, per così dire, di nuovo con un'adesione personale, senza che giammai la mia libertà più autentica lo sconfessi.

La cosa importante è ritrovare in tutti i miei atti questa volontà, la più intima e la più libera, e portarla in ultima istanza fino al suo perfetto compimento: il problema è far combaciare il movimento riflesso col movimento spontaneo del mio volere.

Ora è nell'azione che si determina questo rapporto o di uguaglianza o di discordanza.

Quindi è estremamente importante studiare l'azione perché essa manifesta in uno la duplice volontà dell'uomo; essa costruisce in lui una sorta di mondo che è sua opera originale, e che deve contenere lo svolgimento completo della sua storia, il suo intero destino.

Lo sforzo supremo dell'arte è quello di far fare agli uomini quello che vogliono, e di far conoscere loro quello che sanno.

È questa l'ambizione del presente lavoro.

Non che si possano violare le ombre protettive che assicurano il disinteresse dell'amore e il merito del bene.

Ma se c'è una salvezza, non potrebbe essere legata alla dotta soluzione di un problema oscuro, né potrebbe essere rifiutata alla costanza di una ricerca rigorosa; essa non può che essere offerta chiaramente a tutti.

Occorre apportare questa chiarezza a coloro che le hanno voltato le spalle, forse senza saperlo, nella notte che proiettano su se stessi; una notte in cui la piena rivelazione della propria oscura condizione non li cambierà più, se prima non contribuiscono a cambiare se stessi volontariamente.

L'unica supposizione che non si avanzerà fin dall'inizio è di credere che essi si travino sapendolo e volendolo, che rifiutino la luce pur sapendo che li avvolge, e che maledicano l'essere pur professandone la bontà.

E tuttavia occorrerà forse mettere in conto questi stessi eccessi, perché non c'è nulla, nei possibili atteggiamenti della volontà come nelle illusioni della coscienza, che non debba rientrare nella scienza dell'azione; persino finzioni e assurdità, ma assurdità reali.

Nell'illusorio, nell'immaginario e nello stesso falso c'è una realtà, qualcosa di vivo e di consistente che prende corpo nelle azioni umane, una creazione di cui nessuna filosofia ha tenuto conto a sufficienza.

È molto importante raccogliere, unire e portare a compimento, quasi fossero membra che dividendosi sono destinate a perire, tante aspirazioni sparse, al fine di edificare, attraverso l'infinità degli errori e grazie a essi, la verità universale, quella che vive nel segreto di ogni coscienza e dalla quale nessun uomo si separa mai.

Ma adesso dimentichiamo questa visione anticipata della strada da seguire.

Abbandoniamoci alla ricerca senza riserve mentali e senza diffidenze, proprio perché non abbiamo preso alcun partito né richiesto alcun atto di fede.

Persino questo punto di partenza, « non c'è nulla », non potrebbe essere concesso, perché costituirebbe ancora un dato esteriore e una sorta di concessione arbitraria e vincolante.

Il terreno è completamente sgombro.

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1 È l'ipotesi pascaliana del pari, la scommessa fatta sull'Infinito, di cui più avanti Blondel per certi versi critica la stessa impostazione