Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

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Capitolo secondo - VI

VI. Sproporzione dell'uomo: prospettiva fisica

Nella storia del pensiero, Pascal occupa un posto singolare: si colloca tra le scienze moderne della natura, che si sviluppano a un ritmo prodigioso, e una forma di pensiero animata puramente dalla fede, che è quella dei fideisti: giansenisti ( calvinismo appena larvato: fede e Sacra Scrittura ) e protestanti.

Tra questi due poli è praticamente scomparso l'intermediario costituito dalla filosofia.

Pascal, nemico della scolastica, cade in questo dualismo a picco, che caratterizzerà l'epoca seguente, tra le scienze esatte ( sperimentali e matematiche ) e la religiosità soprannaturale.

Tutte e due ( scienze e religione ) per fedeltà al loro metodo, sembrano esigere che si rinunci alla filosofia.

Una cosa è certa: Pascal rinuncia, nella costruzione dei Pensieri, alle prove metafisiche dell'esistenza di Dio.

Esse esistono senza dubbio, ma mancano di quella forza di « persuasione » che ha tanta importanza agli occhi di Pascal.

Gli argomenti, dice, sono accessibili a poche persone; e anche in loro non generano convinzioni durevoli: « Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal ragionamento degli uomini e così complicate che colpiscono poco; e quand'anche ciò servisse a qualcuno, servirebbe solo nel momento in cui vede questa dimostrazione, ma un'ora dopo, teme di essersi sbagliato » ( B543 C5 ).

Pascal quindi non ci conduce dalla contingenza astratta dell'uomo all'Assoluto divino, ma dalla situazione e dalla condizione esistenziale dell'uomo, esattamente comprese, al Dio vivente.

È quindi l'antropologia, e non la teodicea che è l'ancella della teologia.

È quest'analisi dell'uomo che permette a Pascal, dotato tuttavia di forza metafisica, di collegare l'uomo a Dio.

La sua originalità è di descrivere l'uomo come figura centrale della sua dimostrazione religiosa: l'uomo, gettato in un universo che gli sfugge quanto egli a se stesso; l'uomo che, per capirsi, deve fuggire a questo sguardo verso il basso ( il mondo e lui stesso ) e rivolgersi verso l'alto, mediante la fede, verso la figura di Cristo, che solo lo rende intelligibile nel suo ambiente insostenibile e gli dà senso e luce.

Questa descrizione dell'uomo e della sua condizione è il cuore e il nerbo della dimostrazione di Pascal.

Per comporla, Pascal si ispira a volte a immagini prese dalla fisica matematica ( situazione dell'uomo in un universo infinito, abbandono, deriva, assenza di punto di riferimento ), a volte a immagini ispirate dalla medicina ( descrizioni in termini di malattia e ricerca di una terapia appropriata ).

In termini di fisica, si dovrà trovare « un punto alto »; in termini di medicina, una grazia medicinale, un « rimedio ».

In un frammento diventato classico ( B72 C84 ), Pascal dimostra che l'uomo vive in seno a una sproporzione spaziale e temporale, segno visibile, percettibile, di una sproporzione più profonda ancora che è quella del suo essere stesso.

Nell'universo l'uomo non ha il suo luogo; neppure in sé trova il suo equilibrio, « ugualmente incapace di afferrare il nulla da cui è tratto e l'infinito da cui è inghiottito ».

La sproporzione che lo circonda si manifesta in seno a ogni ordine ( fisico e umano ) e tra gli ordini stessi ( i tre ordini ).

Nell'ordine spaziale l'uomo è un punto situato tra due infiniti: l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo.

L'universo è « una sfera infinita il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte ».

In questo abisso spaziale, dovunque lo si collochi, l'uomo resta sperduto nell'infinito, perché niente potrebbe fissare il finito nell'infinito.

È il primo senso del frammento sulla spropozione dell'uomo.

Tra una figura geometrica finita ( un punto ) e lo spazio infinito in cui è posta, esiste la stessa « sproporzione » di quella che regna tra la figura finita dell'uomo e gli infiniti che la circondano.

L'uomo può trovarsi qui o altrove, perché non ha nessun punto fisso in un universo infinito: « Quando considero il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui, piuttosto che là, perché non c'è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora » ( B205 C88 ).

Di conseguenza, spazialmente parlando, tutti i finiti sono nella stessa situazione.

D'altra parte, l'uomo, il quale non che è un punto nell'infinito, è a sua volta un universo, infinitamente complesso, che si apre sugli abissi non meno profondi dell'infinitamente piccolo: « chi non sarà colto da meraviglia considerando che il nostro corpo, che poco fa non era percettibile nell'universo, impercettibile nel seno del tutto, sia ora un colosso, un mondo, o meglio, un tutto, rispetto al niente al quale non si può giungere? » ( B72 C84 ).

Quanto precede parte dall'idea che il finito è situato in mezzo all'infinito, a un posto tuttavia che non è mai necessario.

Ma, d'altra parte, come parlare d'infinitamente grande e d'infinitamente piccolo senza punto di riferimento?

Questo punto di riferimento che serve da misura e da mediazione tra due realtà infinite, senza tuttavia poterle equilibrate, è l'uomo situato tra i due abissi dell'infinito e del nulla.

Gli infiniti stessi sono relativi.

Infatti se tutto il mondo osservabile ( la nostra terra e la nostra galassia ) non rappresenta che « un tratto impercettibile dell'ampio seno della natura », e se l'uomo, il quale non è che un punto nell'universo, è lui stesso un universo infinito per il quale si tenta un'analisi, ciò conduce a dichiarare l'equivalenza dell'immenso e dell'infimo.

Non c'è grandezza che non possa essere considerata come nulla, ne piccolezza che non possa essere considerata come infinita.

Dall'infimo all'immenso non c'è scala ne progressione continua, perché l'immenso può diventare infimo o l'infimo immenso, a seconda del punto di paragone.

Ma allora: « Che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinità, un tutto rispetto al nulla? ».

Come concepire il cosmo, quando un'uguaglianza avvicina, senza proporzionarli, la stella e l'atomo?40

Così l'uomo non arriva ne a situarsi ne a paragonarsi nello spazio fisico.

Perciò in Pascal si trovano frequenti questi due temi: quello dell'estraneità dell'uomo nei riguardi del mondo che lo circonda: naufrago in un isola deserta, « sperduto in questo angolo remoto della natura », in questa « piccola cella dove si trova rinchiuso, voglio dire l'universo » ( B72 C84 ); e il tema della relatività di ogni posizione per un uomo abbandonato alla deriva, « vagante in un vasto mare » senza sapere, in assenza di qualsiasi punto fisso, se è lui che fugge o se lo scopo, che crede di afferrare, sfugge alla sua presa, « scivola e fugge, in una fuga eterna » ( B72 C84 ).

« L'uomo è visibilmente sviato ed è caduto dal suo vero posto, senza poterlo ritrovare » ( B427 C275 ).

Per Pascal l'infinito spaziale o temporale non è che l'indizio, afferrabile anche da una mente poco coltivata, di una situazione metafisica, cioè che l'essere e il sapere finiti dell'uomo si basano sull'abisso di ciò che l'uomo non è e che non può capire.

Se, nell'universo, l'uomo non trova in nessun luogo il suo equilibrio nei riguardi di ciò che lo circonda, tanto meno lo trova in se stesso.

« La nostra intelligenza nell'ordine delle cose intelligibili occupa lo stesso posto che ha il nostro corpo nell'estensione della natura » ( B72 C84 ).

Di conseguenza, ritroviamo, sul piano del pensiero, la stessa instabilità, la stessa incertezza: « noi siamo qualche cosa e non siamo tutto ».

Siamo « incapaci di sapere con certezza e d'ignorare totalmente ».

Siamo « limitati in ogni senso » ( B72 C84 ).

L'origine e la fine di ogni cosa, anche delle cose finite, ci rimangono nascoste.

Il nostro sapere su Dio e sul mondo è sempre intaccato dall'ignoranza.

Tutto ciò che è comprensibile si rivela in un fondo di incomprensibilità.

« Il colmo della nostra impotenza nel conoscere le cose sta nel fatto che queste sono semplici in se stesse mentre noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso: l'anima e il corpo » ( B72 C84 ).

L'uomo non può afferrare ne la materia al di fuori dell'anima, ne l'anima al di fuori della materia, ma la materia e lo spirito in una lega ontologica che non restituisce nessuno dei due allo stato puro.

« Cerchiamo quindi di capire che questo composto di fango e di spirito ci fa essere sproporzionati » ( B72 C84 ).

L'uomo è un essere misto, costituito da due ordini ( materia e spirito ), e non può misurare la realtà che mediante questo strumento composito, « L'uomo è per se stesso il più prodigioso oggetto della natura; perché non può concepire che cosa sia corpo e meno ancora che cosa sia spirito.

Sta qui la sua maggiore difficoltà e intanto è proprio questo il suo essere » ( B72 C84 ).

Così l'uomo non sa ne come ne dove situarsi.

L'alto, il basso, il centro, la periferia, perdono il loro senso in un universo infinito.

Ogni posizione dell'uomo, per chi ne prende coscienza, è nello stesso tempo elevata e infinitamente bassa.

Se l'universo non può avere un centro ( ma un'infinità di centri ), come rappresentarsi l'uomo in questo universo?

Che cos'è questa sfera il cui centro è dovunque e la circonferenza da nessuna parte?

A seconda del punto di vista l'uomo è un semplice punto, ma gravido dell'infinito.

Nell'universo è il più debole degli esseri, un nulla può schiacciarlo ( B347 C264 ), ma ha il vantaggio sull'universo di sapere che è debole.

Composto di materia e di spirito, non afferma ne l'una ne l'altro.

I due infiniti spaziali che lo circondano, li ritrova in se stesso, incapace com'è di afferrare il tutto di nulla.

L'uomo nel suo essere è « un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto.

Infinitamente lontano dall'abbracciare gli estremi, la fine delle cose e il loro principio gli sono invincibilmente nascosti in un impenetrabile segreto, ed egli è ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l'infinito dal quale è inghiottito » ( B72 C84 ).

Alla visione di infiniti spaziali ( di grandezza e di piccolezza ) si sovrappone sempre la visione di un essere che conosce, ma assoggettato a due limiti: quello che conosce, non lo conosce ne con certezza ne totalmente ( principio e fine ), soprattutto quando si tratta di se stesso.

Di conseguenza, incapace di fissare il finito tra due infiniti che lo abbracciano e lo fuggono, incapace di penetrare il tutto di nulla, l'uomo deve cercare un punto di vista che gli permetta di comprendere gli estremi e di comprendere se stesso.

Questo punto di vista non potrebbe trovarlo senza passare a un ordine superiore, come fa il pensiero nei confronti dello spazio e della durata.

Per Pascal, questo punto alto, che è la chiave dell'interpretazione dell'universo e dell'uomo, è Dio creatore; e più precisamente è Dio in Gesù Cristo.

Così il punto di riferimento cercato non tanto accentra l'universo su se stesso, quanto lo interpreta dall'alto.

Appartiene meno a un dato empirico, che a una realtà spirituale.

Cristo è questo « punto alto che tutto riempie » e tutto ordina.

L'unificazione dell'universo non si realizza che attraverso il pensiero, ma questo a sua volta non si realizza che in Cristo.

Questo tema della sproporzione dell'uomo che Pascal tratta innanzitutto in termini di fisica ( paradosso dell'infinito e del finito ), rappresenta un'orchestrazione, ma non l'unica, perché lo stesso tema riappare nel paradosso miseria-grandezza, con parole ispirate questa volta alla vita psichica e psicologica dell'uomo stesso.

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40 Ibid., pp. 47-50.