Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

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Capitolo secondo - VII

VII. Sproporzione dell'uomo: miseria e grandezza

Nell'universo l'uomo si sente perduto: in se stesso non è che contraddizione.

Lo scopo che Pascal persegue, in questa descrizione, è di turbare il miscredente, di destare la sua attenzione sul suo dramma, di importunarlo fino a strappargli la confessione della sua incapacità.

« Se si vanta, l'abbasso; se s'abbassa, lo vanto; lo contraddico sempre fino a che comprenda che è un mostro incomprensibile » ( B420 C330 ).

L'uomo è una contraddizione vivente.

Si rivela un abisso di miseria.

Cerca la verità, la giustizia, la felicità, ma in realtà non conosce che l'incertezza o l'errore, l'ingiustizia o la forza, la disillusione o quel miraggio di felicità che è il divertimento.

Il tutto concluso con la morte.

Vediamo le componenti di questa descrizione.41

1. L'uomo alla ricerca della verità

Pascal obbliga il suo interlocutore a riconoscere che vive in apparenza, in balìa alle potenze ingannatrici dell'immaginazione, dell'abitudine e dell'amor proprio.

Insieme esse sostituiscono alla prima natura ( quella vera, gratificata da Dio ) un'altra natura, rivolta verso l'errore.

L'uomo non ha più natura; è in condizione, e questa condizione è quella dell'erranza.

Non raggiunge la verità.

La prima di queste potenze ingannatrici è l'immaginazione.

L'universo delle nostre raffigurazioni, il mondo che ammiriamo, le persone che frequentiamo, tutto è visto attraverso il prisma deformante dell'immaginazione.

Vale a dire che noi esistiamo attraverso l'immaginazione poiché essa regola i nostri rapporti con le cose, con gli uomini, con noi stessi.

Ha lo scopo di perderci, « tanto più ingannevole che non lo è sempre » ( B82 C104 ).

Siamo condannati a seguirla, senza poterci fidare di lei.

L'immaginazione nel senso pascaliano ha quindi un senso esteso quanto quello che diamo a immaginario per opposizione a reale o vero.

Perché manca di essere o di verità l'uomo cerca di sembrare.

Infatti, importa per noi innanzitutto farci illusioni su noi stessi, perché ancora più preziosa della nostra vita reale, è la vita immaginaria che vogliamo vivere nella mente degli altri.

Più importante, che la virtù reale, è una virtù in immaginazione.

L'uomo è condannato a vivere diviso tra l'essere e il sembrare.

L'essere assoluto appartiene solo a Dio: lui solo non ha bisogno di splendore per manifestarsi.

Cristo è venuto nello splendore reale del suo essere e della sua santità; invece l'uomo perche manca di essere, deve « apparire »

Porta una maschera.

L'immaginazione è così il testimone della condizione umana: della sua instabilità, della sua incostanza e soprattutto della nostalgia che l'uomo porta in sé.

L'immaginazione rappresenta il vuoto che produce l'assenza di Dio.

Incapace di afferrare l'essere, l'uomo coltiva il miraggio.

D'altra parte, cosciente della sua miseria, non rinuncia al volto che è sotto la maschera.

Senza fine apparenza e realtà si rispondono e si illudono reciprocamente.

Un'altra fonte di errore, è l'abitudine.

Questa parola si trova quaranta volte in Pascal.42

Al posto della natura vera ( creata da Dio ) l'uomo si è formato una natura sostitutiva che si chiama l'abitudine.

« L'abitudine è la nostra natura » ( B89 C449 )

« Perché non dobbiamo dimenticare la nostra condizione: noi siamo automa e intelletto, e da questo dipende che lo strumento per ottenere la convinzione non è la sola dimostrazione! …

Le prove non convincono che l'intelletto.

L'abitudine rende le nostre prove più forti e più credute; essa piega l'automa e questo trascina l'intelletto senza che se ne accorga.

ìChi mai ha dimostrato che domani vivremo, oppure moriremo?

E che cosa c'é di più creduto?

Dunque è l'abitudine che ce ne convince, essa che fa tanti cristiani, come fa i turchi, i pagani, gli artigiani, i soldati ecc.

Infine, bisogna ricorrere all'abitudine appena l'intelletto ha scorto dove è la verità se vogliamo abbeverarci e impregnarci di questa credenza che ci sfugge ogni momento, perché averne le prove sempre presenti è troppo arduo.

Bisogna acquistare una credenza più facile, che è quella dell'abitudine, la quale, senza violenza, senza artificio, senza argomentazione, ci fa credere le cose e inclina tutte le nostre facoltà a questa credenza in modo che la nostra anima vi cada naturalmente …

Bisogna far credere tutte e due le nostre parti: l'intelletto mediante le ragioni che è sufficiente aver viste una volta nella vita; e l'automa coll'abitudine » ( B252 C470 ).

Così Pascal distingue nell'uomo l'intelligenza, cioè la facoltà di discernere la verità, di fondare delle convinzioni appoggiate su motivi validi e percepiti come tali.

Ma c'è anche la macchina, l'automa, cioè l'uomo con tutti i suoi determinismi, acquisiti o ricevuti, che gli permettono di arrivare allo stesso risultato tramite la sola forza o effetto dell'abitudine.

Che cosa crea in noi questo automatismo, del resto molto utile, poiché ci dispensa dello sforzo?

Che cosa traduce i nostri giudizi coscienti, le nostre decisioni ponderate in rinessi inconsci?

Insomma che cosa « biologizza » e « socializza » l'intelligenza?

È l'abitudine acquisita o ereditaria.

L'uomo è capace di riflessione, di deliberazione, ma in pratica affida buona parte delle sue conoscenze, dei suoi giudizi sul valore, dei suoi comportamenti, agli automatismi individuali o collettivi.

Noi pensiamo, giudichiamo, facciamo ciò che si dice, si pensa, si fa intorno a noi: l'usanza inclina l'intelligenza in una data direzione senza farla pensare.

Tutto quest'insieme di abitudini, di « routines », di stati di fatto, di usi stabiliti, che noi chiamiamo il costume, e che regge la nostra vita, finisce per creare nell'uomo una « seconda natura », che non è la prima, creata da Dio, ma una natura artificiale che l'uomo si è fabbricata.

Il solo suo valore viene dal fatto che esiste e che infierisce.

Che si chiami costume, moda, istituzione, essa regge sia la nostra vita individuale che quella sociale ( per esempio essa determina le classi e le professioni ).

In ogni cosa essa determina i nostri atteggiamenti, le nostre scelte, i nostri desideri, i nostri bisogni, i nostri giudizi.

Ripetiamo, Pascal non nega i buoni servizi del costume, come non nega quelli dell'immaginazione, ma constata con un realismo prossimo al cinismo, che ogni nostra attività procede in realtà dal costume, tanto imperioso quanto abusivo.43

« Il costume sembra il principio generatore della stessa natura ».44

Essa manifesta una dimissione della natura.

Realismo amaro, ma anche intuizione di uno stato di cose che Pascal riconosce come ineluttabile.

Questa sostituzione dell'abitudine alla natura, manifesta ancora una volta la debolezza dell'uomo: avendo perso la prima natura, si e rivestito di una seconda natura che si e creata.

L'abitudine è forte soltanto della debolezza della natura che vorrebbe coprire.

L'uomo si copre dell'abitudine, dei vestiti, della maschera per non vedere, la sua miseria.

Queste riflessioni di Pascal mostrano che è difficile discernere la verità, di afferrarla e di possederla con certezza; esse non pretendono tuttavia che noi siamo incapaci di raggiungere la verità.

Se Pascal insiste sulle difficoltà che l'uomo incontra nel conoscere la verità, è perché sono umilianti per l'uomo.

Esse manifestano ancora una volta quella sproporzione che lo « contrassegna ».

Pascal vuol far sentire all'uomo la distanza che esiste tra ciò che vorrebbe essere e ciò che è realmente, tra il suo essere e il suo sembrare.

C'è contraddizione tra le sue aspirazioni profonde alla verità e la sua condizione presente.

Aggiungiamo che se Pascal trova tanto miserabile la condizione dell'uomo, è perché esiste in lui un bisogno personale di assoluto che non gli permette di soddisfarsi di una verità limitata, precaria, deludente.

2. L'uomo alla ricerca della giustizia

L'uomo cerca la giustizia, ma non la trova affatto.

A lungo Pascal ha creduto che ci fosse una giustizia ( B375 C252).

Ma, dopo aver osservato le oscillazioni degli uomini e delle nazioni in materia di morale, ha modificato il suo giudizio.

La vera giustizia, dice, se esistesse, si ritroverebbe in ogni tempo e luogo.

Ora, non esiste, tra le leggi umane, alcuna legge universale.

Se è vero che Dio vuole la giustizia, il peccato ne ha stranamente stravolto l'esercizio.

« Il latrocinio, l'incesto, l'uccisione dei figli e dei padri, hanno avuto tutti il loro posto tra le azioni virtuose » ( B294 C230 ).

« Tre gradi di latitudine capovolgono tutta la giurisprudenza: un meridiano decide della verità » ( B294 C230 ).

La ragione corrotta ha corrotto tutto.

« Da questa confusione proviene che l'uno afferma che l'essenza della giustizia è l'autorità, l'altro l'utilità del sovrano, il terzo il costume vigente; e quest'ultima affermazione è più sicura; nulla, stando unicamente alla ragione, è giusto per se stesso; tutto rovina col tempo » ( B294 C230 ).

Incapace di conoscere la giustizia, l'uomo è ugualmente incapace di realizzarla.

Il motivo dei suoi atti è tutt'altro che la preoccupazione della giustizia: la vera regola del suo agire è l'amore di sé e la forza.

L'amore di sé ispira tutte le azioni dell'uomo.

Per essere ammirato inganna gli altri e si riveste di qualità immaginarie.

Impastato di vanità e di orgoglio, si fa il centro di tutto, e cerca di asservire gli altri.

Se si mette al loro servizio, è per trame qualche vantaggio.

In breve, le sue azioni in apparenza più generose s'ispirano a motivi spesso fetidi.

« Così la vita umana non è che illusione continua: non facciamo che ingannarci a vicenda e adularci a vicenda …

L'uomo dunque è simulazione, menzogna e ipocrisia » ( B100 C130 ).

« Sono certo che se tutti gli uomini sapessero quel che dicono gli uni degli altri non esisterebbero quattro amici nel mondo » ( B101 C131 ).

Quest'uomo egoista è tuttavia riuscito a fondare l'ordine sociale.

Mase si guarda da vicino, questa pace non è fondata sulla giustizia, ma sulla forza, perché solo la forza può stabilire un ordine tra gli interessi che si oppongono.

« Tutti gli uomini vorrebbero dominare, e non tutti lo possono, ma soltanto alcuni … si combatteranno tra loro finché la parte più forte opprima la più debole e si costituisca infine una classe dominante » ( B304 C289 ).

Una volta stabilito con la forza, l'ordine diventerà legge.

Così all'idea morale di una vera giustizia, si è sostituito il concetto giuridico della legalità

Ma in definitiva la giustizia umana riposa sulla forza.

« Non si è potuto dare la forza alla giustizia perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha affermato che solo lei era giusta.

E così, non potendo ottenere che ciò che è giusto sia forte, si è fatto sì che ciò che è forte sia giusto » ( B289 C285 ).

La forza sarà giusta quando sarà al servizio della pace.

Incapace di conoscere la reale giustizia, incapace di agire secondo la vera giustizia, l'uomo ha realizzato un ordine sociale precario, dove la forza è necessaria al mantenimento di una giustizia umana, e tutta relativa.

Ordine sconcertante che Pascal riconosce come il frutto del peccato.

« Tutti gli uomini si odiano naturalmente tra loro.

Ci si è serviti della concupiscenza, come si è potuto, per farla servire al bene comune; ma questa è finzione e falsa apparenza di carità, perché in fondo c'è soltanto odio » ( B451 C134 ).

Questo realismo sociale può facilmente diventare machiavellismo, se la forza abusa della debolezza del popolo: « La potenza dei re è fondata sulla ragione e sulla follia del popolo, anzi più sulla follia.

La cosa più grande e importante sulla terra ha come fondamento la debolezza, e questo fondamento è mirabilmente sicuro; perché non c'è niente di più sicuro di questo, che il popolo sarà debole » ( B330 C297 ).

« Platone e Aristotele, osserva Pascal, erano brave persone, che sapevano ridere coi loro amici ».

« E, quando si sono divertiti a scrivere le Leggi e la Politica l'hanno fatto per gioco; questa era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, mentre la più filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente.

Se hanno scritto di politica, l'han fatto come per dar norme per un manicomio; e se hanno finto di parlarne come di cosa seria, l'hanno fatto perché i pazzi a cui si rivolgevano credevano di essere re e imperatori, ed essi si immedesimavano dei principi di costoro per rendere la loro follia meno dannosa possibile » ( B331 C294 ).

Come si vede, Pascal ironizza su uno stato di cose che sa ineluttabile, ma con un'ironia mista al cinismo.

L'uomo, che sia individuo o Società, è una grandezza falsificata, l'ordine sociale, apparentemente stabile e forte, si basa su potenze torbide, apparentemente dominate, ma sempre pronte a destarsi e a scatenarsi.

L'uomo individuale o sociale, porta una maschera.

Sta in piedi, nonostante il disgusto che lo assale in fondo a se stesso.

3. L'uomo alla ricerca della felicità

Il desiderio e la ricerca della felicità sono la molla del dinamismo umano, lo slancio fondamentale dell'uomo, anteriore a ogni esperienza.

Pascal avrebbe senza dubbio dimostrato a lungo che l'uomo senza la fede non può raggiungere veramente la felicità.

Ma, al di fuori dei frammenti dedicati al divertimento, non ci ha lasciato su questo tema che delle brevi indicazioni.

« Tutti gli uomini cercano d'essere felici, senza eccezione, e tutti tendono a questo fine, sebbene diversi siano i mezzi che usano …

E intanto da un numero infinito di anni, nessuno mai senza la fede è arrivato a questa meta a cui tutti mirano, continuamente …

Un'esperienza così lunga, così continua e così uniforme avrebbe dovuto convincerci della nostra impotenza a raggiungere il bene con le nostre forze; ma gli esempi ci insegnano poco » ( B425 C370 ).

Questa felicità « gli uni la cercano nell'autorità, altri nelle curiosità e nelle scienze, altri nei piaceri » ( B425 C370 ).

Nessuno di questi beni riesce a colmare l'uomo.

Il mondo in cui viviamo, è un mondo fragile, perituro.

Tutto è sabbia, fluidità dell'acqua fuggitiva.

La nostra felicità è precaria, e l'uomo è sempre deluso.

Si immagina sempre altri piaceri, che lo deluderanno ancora.

Ne segue l'incostanza che è, agli occhi di Pascal, uno dei tratti fondamentali dell'uomo.

« Il sentimento della falsità dei piaceri attuali e l'ignoranza della vanità dei piaceri assenti sono causa d'incostanza » ( B110 C170 ).

Deluso dal presente come dall'avvenire, l'uomo in definitiva non vive mai.

Si dispone sempre a essere felice, senza poter mai esserlo.

« L'esperienza ci inganna e di infelicità in infelicità ci conduce alla morte che ne è una conclusione eterna » ( B425 C370 ).

La morte, ecco infatti l'argomento finale che Pascal adduce davanti al miscredente per turbarlo, ma invano: « L'ultimo atto è sanguinoso, per quanto bello possa essere tutto il resto della commedia; alla fine si getta un po' di terra sulla testa, ed è finito per sempre » ( B210 C227 ).

Questa sete di felicità e questa impotenza ad afferrarla attestano tuttavia « che un tempo c'è stata nell'uomo una vera felicità di cui adesso non gli restano che il segno e la traccia che egli cerca inutilmente di colmare con tutto quello che lo circonda » ( B425 C370 ).

Invano « perché l'abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso » ( B425 C370 ).

Nonostante le sue miserie « l'uomo vuole essere felice, e non vuole essere altro che felice, e non può non volerlo essere » ( B169 C214 ).

Questo ci introduce nel tema del divertimento.

Il divertimento a volte non è che l'azione innocente e inoffensiva di ricrearsi, di giocare ( dallo sport fisico, al divertimento sociale, allo studio scientifico ), ma spesso il divertimento è una fuga e un rifiuto: di « rientrare in se stessi » e di « rivolgersi verso Dio ».

Divertirsi, infatti ( dal latino avertere ) è distogliere l'attenzione da sé, dalla sua condizione miserabile, per non pensarci.

« Se la nostra condizione fosse veramente felice, non occorrerebbe distrarne il pensiero per renderci felici » ( B165 C212 ).

Ciò che interessa l'uomo nel divertimento, è meno l'oggetto che la sua rincorsa, il movimento, la trepidazione, che lo distrae dal pensare a sé.

« Si gusta più la caccia che la preda » ( B139 C205 ).

E anche quando l'uomo dà molto valore a un oggetto o a un posto desiderato, il suo possesso non lo soddisfa.

L'uomo si agita, « si diverte » per non pensare al senso della vita, alla sua condizione, alla morte che viene.

« Nulla è tanto insopportabile all'uomo che lo stare in riposo completo senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione.

Allora sente il suo nulla, il suo abbandono la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto.

Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione » ( B131 C201 ).

L'uomo si diverte per fuggire se stesso; ma questa fuga la sua più grande infelicità.

« Il divertimento ci divaga e ci fa arrivare insensibilmente alla morte » ( B171 C217 )

4. Grandezza dell'uomo

L'uomo non è che un abisso di miseria.

Cerca la verità, ma non raggiunge che l'incertezza e l'errore.

Persegue la felicità, ma non trova che miseria e morte.

L'uomo è miserabile, eppure è grande perché è intelletto e pensiero.

Su questo tema i frammenti dei Pensieri sono pochi.

Il fatto tuttavia non significa in Pascal una convinzione minore, ma una mancanza di tempo per elaborare questo tema.

« Il pensiero costituisce la grandezza dell'uomo » ( B346 C257 ).

« Mediante lo spazio l'universo mi circonda e mi inghiottisce come un punto: mediante il pensiero, io lo comprendo » ( B348 C265 ).

Mente, essere che pensa, l'uomo conosce la sua miseria.

« L'uomo conosce di essere miserabile; dunque è miserabile, perché lo è; ma è abbastanza grande perché lo sa » ( B416 C314 ).

« L'uomo è una canna … Ma è una canna pensante » ( B347 C264 ).

Questo intelletto è fatto per l'infinito.

Perciò niente di ciò che è finito lo può soddisfare.

Questo « abisso infinito non può essere colmato che da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso » ( B425 C370 ).

La nostra miseria è il risultato di un baratro aperto sull'infinito, ma mai soddisfatto, di uno slancio che non raggiunge mai il suo scopo.

Solo l'infinito può colmare questo abisso che Dio ha messo in noi.

« L'uomo supera infinitamente l'uomo » ( B434 C438 ), perché c'è nell'uomo più che l'uomo.

« Grandezza dell'anima umana », notava il Memoriale.

La coscienza della sua grandezza non attenua tuttavia la miseria dell'uomo.

« Ma per quanto infelici, e più che se non ci fosse grandezza nella nostra condizione, non abbiamo un'idea della felicità e non possiamo giungervi; mutiamo un'immagine della verità e non possediamo che menzogna » ( B434 C438 ).

Vi è dunque un legame tra la grandezza e la miseria dell'uomo.

È perché l'uomo conosce la sua grandezza che si sente tanto miserabile e, d'altra parte, il fatto di conoscere la sua miseria, è il segno della sua grandezza.

La grandezza si deduce dalla miseria e la miseria si deduce dalla grandezza.

Le miserie dell'uomo « sono miserie di un gran signore, miserie di un rè spodestato » ( B398 C269 ).

Pascal non assolutizza quindi la miseria dell'uomo: non vi è miseria nell'uomo che senza Dio.

Chiunque riconosce la sua miseria, il suo peccato e si volge verso Dio, trova Dio e si eleva verso di lui.

Ogni vero male viene solo dall'uomo che pretende di bastare a se stesso.

Per essere liberato dalla sua miseria e ritrovarsi nella sua vera grandezza, deve rinunciare a se stesso.

5. L'uomo, paradosso da decifrare

Ma allora che cosa è l'uomo?

« Che novità, che mostro, che caos, che soggetto di contraddizioni, che prodigio!

Giudice di tutte le cose e miserabile verme di terra; depositario della verità e cloaca di incertezza e d'errore; gloria e rifiuto dell'universo.

Chi riuscirà a sbrogliare questa matassa? …

Riconoscete dunque, superbi, che siete un paradosso per voi stessi » ( B434 C438 ).

Fin qui, Pascal ha osservato l'uomo, guardandolo vivere e pensare con lo sguardo di un biologo o di un ragioniere davanti a un bilancio.

Si può protestare, se si vuole, contro i colori troppo scuri di questa descrizione.

Ma le analisi di Nietzsche, Proust, Dostoievski, Kafka, Mauriac, Saxtte, non hanno che. potuto magnificare le intuizioni di Pascal e dargli ragione.

L'uomo, senza il Vangelo, è orribile.

Al di fuori della fede cristiana, l'uomo non scorge nel mondo che un destino assurdo che sfocia nel nulla.

Che farà di fronte al proprio mistero?

Vivrà sempre nell'indifferenza, incosciente del suo passato, noncurante del suo avvenire?

Pascal fa dire all'indifferente: « Non so chi mi ha messo al mondo, ne che cosa è il mondo, ne chi sono io; mi trovo in una terribile ignoranza di tutte le cose; ignoro che cosa sia il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa parte del mio io che pensa quel che dico …

Vedo degli spaventevoli spazi dell'universo che mi tengono prigioniero, senza sapere perché sono collocato in questo luogo piuttosto che in un altro …

Non vedo che infinità da tutte le parti, le quali mi rinserrano come un atomo e come un'ombra che dura un istante e che non ritorna.

Tutto quello che so è che devo presto morire; ma quello che ignoro di più è questa morte stessa che non potrei evitare.

Come non so donde vengo, così non so neppure dove vado; e so soltanto che, uscendo da questo mondo, piombo per sempre o nel nulla o nelle mani di un Dio irritato, senza sapere quale di queste due condizioni mi toccherà in eterno.

Questo è il mio stato pieno di debolezza e di incertezza.

E da tutto questo concludo che devo dunque trascorrere tutti i giorni della mia vita senza preoccuparmi di cercare quello che mi deve accadere » ( B194 C335 ).

Così il miscredente può accettare di vivere nella più totale indifferenza pratica.

Può sentirsi a suo agio lasciando da parte i problemi che riguardano il senso profondo della sua esistenza.

Può sentire inguietudine e nessuna disperazione davanti all'inquietudine inappagata degli altri.

Pascal diventa allora più insistente: è mai possibile che sul piano della vita ( e non più sul piano della sola conoscenza speculativa ) si possa restare indifferenti a tal punto di fronte al problema che impegna il tutto della nostra esistenza?

Vi sono tuttavia uomini che vivono in questo stato: « Di tutte le loro deviazioni, questa è senza dubbio quella che li accusa maggiormente della loro follia e del loro accecamento …

Questo adagiarsi nell'ignoranza è una cosa mostruosa, di cui bisogna far sentire la stravaganza e la stupidità a coloro che trascorrono in essa la loro vita e bisogna metterla sotto i loro occhi per convincerli con lo spettacolo della loro follia » ( B195 C334 ).

Paradosso di miseria e di grandezza, l'uomo non sa chi è, da dove viene e dove va.

Può vivere così senza cercare il segreto della propria identità?

« Prima di trattare delle prove della religione cristiana, dice Pascal, credo necessario prospettare l'ingiustizia degli uomini che vivono nell'indifferenza per la ricerca di una verità che è per essi così importante e li riguarda tanto da vicino » ( B195 C334 ).

Poiché l'uomo è grande e miserabile insieme « giudichi quanto valga …

Si odi, si ami; ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice, ma non ha affatto verità che sia costante o soddisfacente.

Vorrei dunque portare l'uomo a desiderare di trovarla, a essere pronto e libero dalle passioni, per seguirla dove la troverà, sapendo quanto la sua conoscenza è annebbiata dalle passioni » ( B423 C331 )

Tale è il nodo del problema.

L'uomo è un paradosso per se stesso, un mistero così profondo che deve impegnarsi a penetrarlo, a meno che non sia interamente sprovvisto di ragione.

Ma la ricerca stessa è possibile solo a condizione di togliere gli ostacoli, vale a dire, le passioni, e di mettersi in atteggiamento di umiltà e di sincerità.

Pascal nota: « Ordine. - Dopo la lettera sul dovere di cercare Dio, scrivere la lettera sull'eliminazione degli ostacoli » ( B246 C441 ).

Si deve cercare la verità col desiderio di trovarla: « coloro che vi si dedicano con una sincerità perfetta e un vero desiderio di incontrare la verità, spero che troveranno soddisfazione e si convinceranno delle prove d'una religione tanto divina; prove che qui ho raccolto » ( B194 C335 ).

« Perché la passione non rechi danno, comportiamoci come se avessimo soltanto otto giorni di vita » ( B203 C343 ).

A dire il vero, « esistono tre categorie di individui: quelli che servono Dio, dopo averlo trovato; quelli che si sforzano di cercarlo senza ancora trovarlo; quelli che vivono senza cercarlo e senza averlo trovato.

I primi sono ragionevoli e felici, gli ultimi sono pazzi e infelici, quelli di mezzo sono infelici e ragionevoli » ( B257 C364 ).45

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41 R.-E. LACOMBE, L'apologétique de Pascal, Paria, 1958, pp. 112-175.
42 P. MAGNARD, Nature et Histoire dans l'apologétique de Pascal, p. 248.
43 Ibid., p. 249
44 Ibid., p. 246
45 Si trovano dunque in Pascal alcuni temi cari all'esistenzialismo moderno:
a) assurdità della condizione umana espressa in termini di sproporzione, di contraddizione e di incomprensibilità;
b) la nausea espressa mediante la noia e il diversivo;
c) la necessità di un impegno.
È riflettendo sulla sua esistenza che l'uomo scopre la necessità di Dio.