Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

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Capitolo sesto - II

II. La solitudine e le sue forme

Appena si parla di solitudine, si incontrano subito delle difficoltà di linguaggio, perché il termine è ambiguo e ha molte applicazioni.

Per esempio uomini esausti, stanchi del lavoro di amministrazione, diranno: « Oh, se potessi trovare un momento di solitudine! ».

Altri, in apparenza circondati e sostenuti dal loro ambiente, diranno in tono di lamento: « Oh, come mi sento solo! Non c'è nessuno con cui possa veramente parlare! ».

Si dirà anche che le persone della terza età sono terribilmente sole.

Vi sono infatti molti tipi di solitudine: la solitudine sofferta e subita, imposta dagli avvenimenti; la solitudine aggressiva e cattiva, cioè l'isolamento; e infine la solitudine feconda, accettata, aperta e accogliente: per esempio quella dei santi e di Cristo.

La solitudine generata dall'indifferenza, dalla mancanza di soccorso, dall'abbandono, può diventare buona o cattiva, secondo l'atteggiamento di chi la subisce: cattiva se porta all'amarezza, all'esasperazione, all'isolamento aggressivo, alla rottura; feconda al contrario se è assunta come luogo privilegiato di attività orante o come prova di purificazione, sublimata dalla comunione a Cristo abbandonato, ma unito al Padre.

A dir vero, la sola distinzione valida passa tra la solitudine cattiva o isolamento e la solitudine feconda, sola autentica.1

Il problema è di passare dall'isolamento alla solitudine.

Esiste oggi una prima forma di solitudine, largamente diffusa, che dipende dallo stile di vita imposto dal mondo moderno.

Tale stile crea tra gli uomini un atteggiamento d'indifferenza e, di conseguenza, uno stato di abbandono.

In apparenza, l'uomo della città, del telefono, della metropolitana, vive più « prossimo » che mai al vicino.

Ha tutto ciò che occorre e più di quanto occorre.

Vive in un reticolato di forze rassicuranti.

Basta infatti esserne privati per qualche ora per rendersene conto.

Pensiamo ai guasti elettrici o telefonici di Roma, Parigi, New York, Montreal.

La grande città, che riunisce tante persone, che avvicina fino alla promiscuità dovrebbe sviluppare il senso della comunità.

In realtà essa significa il regno della « cella » e della « carcerazione ».

Gli stabili ad appartamenti multipli sono caserme, gabbie di cemento e di acciaio, dove coesistono ammassi di molecole.

Si vive parallelamente e nell'anonimato.

Si costeggiano gli altri, come lungo un muro.

Non vi è calore umano, ma indifferenza glaciale da icebergs.

Si può incrociare il vicino per anni senza identificarlo, senza identificarsi.

Può morire senza che si sappia, senza nemmeno preoccuparsene.

Gli uomini passano, sfilano, se ne vanno.

Il vicino è raramente il prossimo.

Le città suonano il rintocco funebre della vera solitudine.

L'uomo indifferente non incontra intorno a sé che l'indifferenza.

È privato di quell'humus di umanità che potrebbe suscitare e nutrire i contatti, favorire gli scambi, svilupparsi in unione e comunione.

La vita delle grandi imprese, con la loro foresta di uffici e di macchine, non migliora la situazione.

L'uomo e la macchina funzionano con lo stesso ritmo.

A forza di vivere con le macchine si corre il rischio di occuparsi macchinalmente di tutto e di tutti.

L'attitudine all'incontro umano si atrofizza.

L'indifferenza finisce per generare l'abbandono e a volte, l'isolamento aggressivo.

Una seconda forma di solitudine subita è quella che nasce dalla mancanza di comprensione da parte di coloro che ci sono vicini: parenti, amici, compagni di lavoro.

Solitudine tanto più dolorosa in quanto proviene da coloro sui quali dovremmo, normalmente, poter contare di più.

Questo tipo di solitudine si incontra nelle famiglie, dove gli sposi vivono gomito a gomito, chiusi l'uno per l'altro, prima di « sganciarsi » ( fenomeno particolarmente frequente quando la vita professionale - del medico, dell'amministratore, del ricercatore - viene a complicare la vita coniugale ); a volte anche nelle comunità religiose, dove i membri si incontrano senza parlarsi, o parlano senza incontrarsi veramente, perché, da ambo le parti ci si sa incompresi o perché si ha paura di non essere capiti.

Questa solitudine, che nasce dall'incomprensione, può a volte andare molto lontano, fino al martirio interiore, senza che si possa per questo parlare di cattiva fede in coloro che ne sono la causa.

Penso qui ai tipi di incomprensione di cui sono stati vittime uomini di Chiesa, ricercatori meritevoli e fedeli, come Teilhard de Chardin.

Questi uomini sono stati sospettati, messi da parte e anche esiliati, corrosi per sempre nella loro salute.

Eppure, i responsabili di questi drammi, hanno agito, sembra, non per malizia, ma per fedeltà alla loro coscienza.

Ma quante sofferenze!

Questo fenomeno d'incomprensione e di conseguente solitudine, si ritrova, non soltanto tra i membri di uno stesso gruppo, ma anche, non meno virulento, tra le diverse classi della società ( operai e padroni, sindacati e governanti ) e tra le diverse generazioni: è il dramma attuale dell'incomprensione tra figli e genitori: genitori impotenti e sprovveduti, nonostante la loro immensa buona volontà; figli che disertano la casa, sbattendo le porte, per unirsi a gruppi clandestini: disoccupati, disadattati, drogati.

Una terza forma di solitudine involontaria, ma dolorosa, lacerante, ha il nome di abbandono, di derelizione, di rigetto.

Di tutte le forme di solitudine subite è certamente quella che gli uomini temono di più: la più vaga, la più viscerale, la più profonda anche.

Chiunque l'ha conosciuta, non vuole più ricordarsene, perché è l'esperienza di una totale svalutazione e disintegrazione dell'essere.

L'ho incontrata in giovani sacerdoti, in Europa e in America: esperienza deprimente, dissolvente di giovani uomini, ardenti e pieni di zelo, ma abbandonati a se stessi, in ambienti scristianizzati e indifferenti, induriti, ghiacciati e agghiaccianti, senza vera possibilità di « rifare il pieno » spiritualmente e intellettualmente.

Oh, l'orrore di questi abbandoni, affrontati da soli, con tutti i rischi della solitudine « cattiva »!

Lo stato di abbandono, l'ho incontrato anche tra i profughi e i rifugiati.

All'inizio si fa loro buona accoglienza; ma la luna di miele nel paese di adozione, è di corta durata.

Sulla metropolitana, sui treni, il loro accento o il loro colore rivelano presto « lo straniero ».

Rari sono i gruppi familiari, più rari ancora i cuori che li accolgono con il calore di un'amicizia fedele.

Come è difficile per lo straniero, sentirsi « del paese », della « famiglia »!

Questa forma di solitudine, l'ho incontrata ugualmente in persone della terza e della quarta età: tanto più frequente in quanto la pensione anticipata e la longevità accresciuta, nei nostri paesi d'Occidente, hanno fatto della vecchiaia un vero « stato di vita ».

Rapidamente, i legami con l'ambiente professionale si rompono; la cerchia degli amici si restringe.

L'anziano si sente come uomo la cui morte è differita, biologicamente finito e socialmente inutile.

Passa la maggior parte del suo tempo a letto, di fronte alla TV, o seduto alla finestra, contemplando un mondo che non lo riguarda più.

È di troppo, perché non guadagna più.

Ci si ricorda di lui appena in periodo elettorale!

L'entrata all'ospizio istituzionalizza il restringimento della sua esistenza e discolpa la famiglia.

Questa situazione drammatica è ancora aggravata, in alcuni paesi, dalle condizioni di soggiorno dell'ospizio: separazione delle coppie, incomprensione del personale poco rimunerato, carenza di cure mediche, assenza di cure estetiche per mantenere la persona nella sua dignità.

L'ospizio diventa allora uno « scaricatoio », dove si getta l'irricuperabile, l'anticamera della morte, il luogo privilegiato per trasformare la morte sociale in morte biologica.2

Ci si deve stupire se un tale abbandono genera l'amarezza, l'isolamento aggressivo?

Ma l'essere colpito più spesso dalla solitudine-abbandono, è il malato incurabile, il malato cronico.

Rapidamente si sente fisicamente, spazialmente e socialmente messo da parte.

Il suo corpo lo ha già abbandonato: si sente deteriorato, diminuito, alienato.

Non è più lui.

A ciò si aggiunge l'inquietudine per l'avvenire ( a-venire ).

Coloro che ancora lo avvicinano non contano più su di lui.

Si sente rigettato dalla vita e dalla cerchia dei viventi.

Può uscire da questa crisi purificato, cresciuto; ma può anche affondare nella « cattiva » solitudine che lo taglia fuori da se stesso e dagli altri.

Vi è infine, l'abbandono-derelizione-rigetto, questo tragico destino, di tutti gli impotenti, di tutti i senza risorse, davanti alla potenza brutale dei regimi d'oppressione: politici, militari, economici.

Ogni ingiustizia nel mondo lascia la vittima sola, di fronte alla tentazione del suicidio.

Questa condizione è quella dei popoli che, da secoli, vivono in una « solitudine collettiva »; dominati, oppressi, asserviti, senza neppure la speranza di uscirne, come il naufrago che, dopo ogni tentativo per emergere, si sentisse afferrato alla nuca e irrimediabilmente « affogato ».

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1 D. VASSE, « De l'isolement a la solidude », in M. DE CERTEAU e F. ROUSTANG, (a cura), La Solitude, Paris, 1967, p. 174.
Sul tema della solitudine, vedere anche il numero completo di Chrisfus 49 (gennaio 1966).
2 L.-V. THOMAS, Anthropologie de la mori, Paris, 1976, pp. 50-52 (trad. it. Antropologia della morte. Garzanti, Milano, 1976).