Gesù Cristo rivelazione dell'uomo |
Sarebbe assurdo negare i prodigiosi vantaggi che l'umanità ha tratto da questo progresso accelerato.
In sé la tecnica non è da biasimare: essa è neutra.
Non si guariscono i mali della tecnica chiudendo le officine e i laboratori; non si ritorna alla carriola quando si dispone della metropolitana, del treno, degli autocarri o del « Concorde ».
Ciò che si critica, sono gli abusi che il mondo contemporaneo ha fatto della tecnica.
Questi abusi, del resto, erano previsti, data la dimensione astronomica dei cambiamenti avvenuti nelle forme e nell'organizzazione del lavoro.
Una cosa è certa, di questo progresso è l'uomo la prima vittima.
Nella società tecnologica attuale, diventa sempre più raro esercitare un mestiere, nel senso tradizionale del termine.
L'uomo non è creatore ( o lo è raramente ) di un'opera che lo esprime.
È anche dispensato dal fare scelte, di porsi domande, di cercare di capire.
Non ha che responsabilità limitate, cioè nessuna responsabilità.
Cellula in un ammasso di molecole, garantisce un gesto, un movimento.
Senza reale iniziativa, senza possibilità di creatività, senza responsabilità nella gestione dell'impresa, garantita da altri o da un sistema impersonale, il lavoratore si sente preso in un reticolato che gli sfugge e sul quale non ha alcun potere.
Il sentimento di frustrazione, di vuoto, di nullità che ne risulta, colpisce immediatamente la sua vita familiare e sociale.
Così concepito, il lavoro disfa l'uomo che cerca subito un alibi per sottrarsi ai suoi doveri d'uomo.
La sera, di ritorno a casa, dopo un viaggio estenuante ( in metropolitana o in autobus ), dove è stato sballottato, stiracchiato, soffocato dalla mancanza di spazio e di ossigeno, si sprofonda in una poltrona, assorto nella lettura del suo giornale.
Non parla con nessuno, non si occupa di nessuno, neppure di sua moglie e dei suoi figli.
Facilmente diventa irritabile e collerico.
Si scusa dicendo: « Non è colpa mia, non posso fare altrimenti!
Che sporco lavoro! E poi, chi porta a casa i soldi? ».
A questo proposito, l'avvilimento dell'officina, dell'ufficio, del laboratorio si assomigliano stranamente.
Ci si estenua, all'occorrenza, per essere ammirati, ma questa ammirazione costretta non è evidentemente un vero riconoscimento del lavoro.
Questo affaticamento eccessivo è una forma di piacere nevrotico.
All'opposto, si trova l'atteggiamento che consiste nel considerare il lavoro come una dura realtà, e che deve essere dura, come una legge penale.
Nei due casi il lavoro cessa di essere una mediazione tra gli uomini: subito, portato come un pesante fardello, isola e indurisce i cuori.
Il lavoro diventa una legge in sé e non più un'attività feconda, ordinata alla realizzazione dell'uomo e della società.
Questa alienazione ha altre conseguenze non meno funeste.
In una civiltà dove regna la costrizione della tecnica, le vacanze annuali sono febbrilmente attese e considerate come un periodo di distensione, di sgombero generale.
Il lavoro, che ha distrutto, autorizza tutto, giustifica tutto.
Se, inoltre, per sfortuna, le vacanze falliscono ( temperatura sfavorevole, compagnia sgradevole ), la frustrazione diventa aggressiva e il cerchio del lavoro ne diventa ancora più infernale.
L'uomo non trovando più nel suo lavoro la gioia di compierlo, d'imprimere a un'opera la testimonianza della sua esistenza, della sua personalità creatrice, si getta nel consumismo.
A difetto di essere, cerca di possedere, di collezionare, di tesaurizzare: compra libri, che del resto non legge; compera dischi, cassette, senza ascoltarle nemmeno; colleziona francobolli, pipe, monete, o bastoncini da cocktail.
Così, quando il lavoro diventa fine a se stesso e perde la sua qualità di mediazione, si disumanizza, distrugge l'uomo.4
Il lavoro organizza la comunità degli uomini, ma a condizione di rispettare la loro libertà.
Se la società imprigiona il lavoratore nelle sue esigenze, o se il lavoratore, da parte sua, non fa che rivendicare diritti, senza i doveri correlativi, nei due casi l'eccesso della società o dell'individuo conduce all'anarchia, al caos.
Il lavoro è destinato a essere il cemento di una comunità che si modella modellando il mondo.
Ma non basta costituire una comunità di lavoro per fare una comunità di persone.
Il partito, la società possono garantire agli uomini la loro sicurezza, ma espropriandoli di se stessi.
I membri del partito ricevono tutto, ma a condizione di non porre più domande, di consegnarsi anima e corpo al partito.
Lo Stato o il partito dominano tutto e si sostituiscono alla persona.
L'alienazione che abbiamo notato sul piano professionale, si fa qui più densa.
L'uguaglianza sociale è un ideale, ma la volontà di arrivarci in modo assoluto, conduce al totalitarismo che elude la libertà, che stabilisce l'uguaglianza, ma livellando le personalità.
Quando le strutture sociali diventano un assoluto, distruggono l'uomo in modo tanto radicale quanto il lavoro a catena.
Quando la tecnica è al servizio esclusivo dello Stato onnipotente, l'uomo interessa unicamente come riserva di energia che si tratta di captare e di dirigere in vista di un obiettivo prefissato.
Ciò che si cerca, ciò che si ammira è la bravura tecnica e non l'uomo e la sua opera.
La tecnica, nelle mani del partito o dello Stato, imperniato sul rendimento e ispirato da fini politici o militari, disumanizza e avvilisce.
Infine, l'uomo finisce per aver paura della tecnica che ha concepito: rimane senza fiato.
L'angoscia lo sommerge.
L'uomo si distrugge credendo di costruirsi.
Il vero lavoro è quello che regge il gruppo e la sua attività, ma non identifica l'uomo col lavoro, ne l'uomo col gruppo.
L'uomo umanizza le cose, ma non si identifica con esse.
Contribuisce all'edificazione della comunità, ma permette anche all'uomo di crescere, di valutarsi, di possedersi.
Il lavoro è come la parola dell'uomo che mette in gioco il suo corpo.
Non potrebbe quindi esaurire il suo valore nella sottomissione al partito o allo Stato.
Sotto apparenze meno totalitarie, con mezzi meno drastici, notiamo che la società tecnologica, così come esiste nelle grandi democrazie, non è meno dispotica delle dittature militari.
La democrazia, in un certo senso, consolida ancor più fermamente la sua dominazione che l'assolutismo più radicale.
La produttività pianificata e controllata dell'impresa internazionale, distrugge, ma su scala planetaria.
La produzione segue il ritmo di un consumismo orchestrato da una pubblicità gigantesca e tentacolare, tirannica per gli occhi, le orecchie, i nervi.
La dialettica produzione-consumo è accompagnata da una serie di conseguenze: aggressività nella strutturazione del tempo libero, clubs clandestini, commercio di droga, prostituzione, rapimenti di persone e rapine multiformi.
L'uomo della città tecnologica risponde alle provocazioni della pubblicità, come alle immagini della TV, come ai semafori: senza riflettere.
I suoi riflessi sono teleguidati.
Tutta l'apparecchiatura sociale è mobilitata per dominare o sovraeccitare i bisogni, alimentare i desideri artificiali, impedire la creati vità.
Gli scienziati, gli esperti, i tecnici, gli specialisti stessi sono asserviti a un sistema « che paga bene ».
Ma il prezzo del salario, è l'uomo ridotto a « robot ».
Più la società diventa razionale, tecnicizzata all'eccesso, più gli individui fanno fatica a trovare i mezzi che permetterebbero loro di ricuperare la loro libertà.
Un condizionamento ne condiziona un altro.
Infine, classe diretta e classe dirigente sono vittime del tipo di lavoro che hanno concepito.
Mezzi di trasporto, d'informazione, di comunicazione, di alimentazione, di abbigliamento, impongono reazioni comuni ai produttori come ai consumatori.
Si finisce per avere comportamenti generalizzati, tipi di pensiero uniformi.
L'uomo unidimensionale è creato.5
Indice |
4 | D. VASSE. Le temps du désir, Paris. 1969, pp. 97-110 |
5 | H. MARCUSE, L'homme unidimensionnel (trad. fr., Paris, 1968), p. 37. |