Gli stati di vita del cristiano |
Dio non congeda l'uomo dall'Eden gettandolo nella disperazione.
Egli pone all'uscita del paradiso terrestre la spada fiammante non senza però l'immagine della madre col bambino.
Verrà una che muterà in benedizione la maledizione di Eva.
Nella perfetta obbedienza del suo sì ella spegnerà ciò che la bramosa disobbedienza di Eva ha acceso.
Nella perfetta purezza della sua eterna verginità ella realizzerà in sovrabbondanza la fecondità dell'Eden: partorirà Dio stesso, che redime il mondo dalla sua colpa.
É nella completa povertà che pone tutto il suo essere, corpo e anima, a disposizione dei piani di Dio, ella volgerà di nuovo la forzata povertà e miseria dell'umanità decaduta verso l'originaria ricchezza dell'offerta di sé.
Tutto ciò ella non lo compirà per forza e virtù propria, ma come colei che è stata prescelta, portata dalla grazia di Dio, avvolta in questa grazia ancor più di Adamo ed Eva, più immune di essi prima della caduta, più protetta nei confronti di ogni tentazione.
Senza questa promessa la caduta dal paradiso terrestre sarebbe stata un precipitare in un sicuro tramonto senza speranza di ritorno.
Così invece si apre sin dall'inizio la prospettiva di una ancora inimmaginabile possibilità di adempiere malgrado tutto la destinazione originaria.
L'uomo ottenne questa destinazione quand'era ancora all'inizio del suo cammino, con la possibilità di decidersi a favore di essa e così anche di decadere.
Noi interpretiamo qui il Protoevangelo secondo la tradizione antica, la quale - qualunque obiezione possano fare gli esegeti - guardando l'intera economia della salvezza ha sicuramente ragione.
Egli fu posto nel mondo terreno per mantenersi nello stato originario e così andare incontro al suo stato finale presso Dio: il cielo.
A suo tempo Dio avrebbe porto a lui i frutti dell'albero della vita ( Ap 2,7 ) e gli avrebbe fornito l'altra immortalità, quella celeste, dalla quale non si può decadere.
Poiché egli soggiacque alla tentazione, deve ritrovare per strade più lunghe l'accesso allo stato finale, che partendo dallo stato originario sarebbe stato più vicino e privo di fatica.
Sarebbe stato un cammino di pienezza, di ampliamento, di eternizzazione di ciò che è fondato e cominciato nel bei mezzo del mondo terreno.
Anche il cielo non lo si può descrivere altrimenti che come la perfetta unità di ciò che adesso, nel mondo decaduto, si intravvede in ambedue gli stati.
Il cielo è il compimento dell'amore, la definitiva iniziazione negli abissi e nelle infinitamente aperte dimensioni della dedizione trinitaria.
Così esso è in primo luogo la completa unità di obbedienza e libertà.
Sarà un'obbedienza che è parte integrante dell'amore stesso: la prontezza contemporaneamente totale e tuttavia sempre superata ad esser una sola cosa con la volontà di Dio, a riconoscere questa volontà come la regola e l'adempimento del proprio essere, anzi come la massima beatitudine, così come la gioia eterna dell'eterno Figlio è quella di fare la volontà del Padre.
Ogni volta che l'Apocalisse, in mezzo alle visioni dell'epoca attuale del mondo, ci permette di gettare uno sguardo nella vita celeste, si apre la veduta di un'enorme scena di adorazione, in cui angeli ed eletti davanti al trono del Padre e dell'Agnello si prostrano, gettano le loro corone ai loro piedi e nell'incenso che sale ogni pensabile rendimento di lode viene tributato dalle preghiere di tutti i santi.
« Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen! » ( Ap 7,12 ).
È la schiera completa degli appartenenti all'amore: « Il trono di Dio e dell'Agnello sta in mezzo ad essa », la sposa celeste, « e i suoi servi lo adorano.
Essi vedono la sua faccia e portano il suo nome sulla fronte » ( Ap 22,3 ).
La loro beatitudine consiste nello stare eternamente nel più ampio spazio di Dio, nel riconoscere e adorare Dio come colui che è eternamente superiore.
Così si adempie la profezia a cui Cristo si richiama: « Tutti saranno istruiti da Dio » ( Gv 6,45 ).
È un'obbedienza al di là di ogni timore, « poiché l'amore perfetto scaccia il timore » ( 1 Gv 4,18 ), ma per questo tanto più ricolmo di timore reverenziale, che cresce all'infinito insieme con la conoscenza e l'amore di Dio ( Sal 19,10 ), ed esige la sottomissione di tutte le proprie forze, pensieri e decisioni.
Questa sarà la « libertà » della « Gerusalemme celeste » ( Gal 4,26 ).
E un uomo non entrerà nel regno dei cieli prima che non abbia imparato nell'anticamera del cielo a rinunciare ad ogni volontà propria, ad ogni ricerca di sé e autonomia personale che si contrapponga come istanza autosufficiente alla volontà di Dio.
Nel cielo la verginità dell'Eden troverà il suo compimento.
Certo, se noi non possiamo formarci alcuna immagine già della fecondità dell'uomo dell'Eden, che dev'essere stata una fecondità primariamente spirituale e solo secondariamente sessuale, ancor meno possiamo immaginare ciò che sarà l'adempimento celeste di questo miracolo paradisiaco.
Noi sappiamo solo che risorgeremo con corpi spiritualizzati, e che in questi corpi « saremo simili agli angeli e figli di Dio », poiché « siamo figli della Risurrezione » ( Lc 20,36 ).
Al matrimonio non si penserà più: « essi non prendono moglie né marito, poiché non possono più morire » ( Lc 20,34ss ).
Da questo « poiché » diventa ancora una volta chiaro che gli uomini, nello stato originario, in quella maniera in cui « i figli di questo mondo si sposano » ( Lc 20,34 ) non avrebbero certo potuto sposarsi, giacché nell'Eden essi non erano mortali.
Da quella misteriosamente feconda verginità, che non stava in indissolubile collegamento, come è per l'attuale matrimonio, con umiliazione, dolore e morte, sarebbe stato possibile un passaggio immediato alla verginità angelica tipica del mondo nuovo, dove non solo « non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno » ( Ap 21,4 ), ma anche nessun mare minaccioso ( Ap 21,1 ), da cui sale la bestia della sensualità ( Ap 13,1 ), ed anche « nessuna notte » ( Ap 21,25 ) in cui si è esposti alla tentazione.
Tutti « vivranno per Dio » ( Lc 20,38 ) col corpo e con l'anima, e poiché non c'è niente di più fecondo dell'amore, e nella dedizione a Dio l'amore sarà perfetto, questo amore celeste sarà una fecondità senza confini e inafferrabile.
L'amore sessuale sulla terra è, a causa del suo legame con la materia, qualcosa di scarso e limitato a confronto con quella fecondità che i frutti dell'albero della vita ( Ap 22,2 ) e l'acqua della fonte della vita ci possono comunicare.
Questi frutti diverranno in noi, come tutte le grazie di Dio, frutti nostri, così come l'acqua che il Signore concede diverrà in noi sorgente di acqua viva che sgorga nella vita eterna ( Gv 4,14; Gv 7,38 ).
E tutto ciò che è torbido e opaco, che grava sugli istinti quando essi non sono, come nell'uomo paradisiaco, puri strumenti dello spirito, si muterà nel mondo celeste nella trasparenza del vetro e del cristallo.
Le acque, sulle quali il Signore nella sua verginità poteva camminare sicuro e su cui Pietro nella fede tentò di camminare, ma per debolezza cominciò ad affondare, saranno lassù trasformate in un « mare cristallino », « sul quale coloro che hanno vinto la bestia stanno ritti in piedi e cantano il canto dell'agnello » ( Ap 15,2s ).
Sprofondare può lo spirito solo ormai in ciò che è al di sopra di lui: nell'incomprensibilità di Dio; ma in ogni caso egli sta saldo su ciò che è sotto di lui: sul mondo sensibile.
Le strade della città celeste « saranno di oro puro, come cristallo trasparente » ( Ap 21,21 ).
Così il cielo sarà da ultimo anche la perfetta povertà.
« Quella fredda parola di mio e tuo » ( Crisostomo ) là non ci sarà più, poiché tutto sarà comune a tutti.
Non sarà però una comunanza del furto e dell'espropriazione, ma bensì dell'offerta e della volontaria donazione, e per questo, giacché tutti riceveranno doni da ogni parte, la pienezza della ricchezza.
Ognuno possiederà tutto tranne ciò che è proprio, e infine anche ciò che è proprio, in quanto esso gli viene attribuito da Dio e dal prossimo nell'amore.
Ma non più ci sarà lo scambio dei beni che sta lì a soppesare, col pensiero segreto da ambo le parti di arricchirsi attraverso lo scambio.
Tutto ciò che fa pensare al commercio sarà completamente sparito.
Nella Scrittura i commercianti vengono menzionati l'ultima volta quando si parla della caduta della grande prostituta Babilonia: insieme ai re della terra essi si lamentano perché dopo il suo annientamento nessuno compra più le loro merci ( Ap 18,11 ).
Tutti loro si sono arricchiti grazie alla grande Prostituta, direttamente o indirettamente, come i « naviganti e marinai », che pure piangono la sua caduta, perché adesso non ha più importanza la produzione e il trasporto delle merci ( Ap 18,17-19 ).
Tutto ciò che è collegato alla compravendita deve venir deposto, azioni e intenzioni, nell'anticamera del cielo.
Nel cielo si dona e si riceve tutto « gratis » ( Ap 21,6; Ap 22,17 ), come già nell'Antico Testamento la sapienza era gratuita ( Is 55,1 ), e come il Signore si offre senza prezzo a tutti ( Gv 7,37 ) e istruisce i suoi discepoli a dare gratuitamente ciò che essi gratuitamente hanno ricevuto ( Mt 10,8 ).
È povertà non a favore di se stessi, ma a servizio dell'amore e come espressione di esso, che si manifesta in un eterno scambio circolare di tutti i beni.
Esso non elimina il carattere speciale delle nature e delle grazie pensate da Dio per i singoli uomini, e tanto meno elimina i compiti; ma ciò che ognuno ha, lo possiede solamente per tenerlo a disposizione degli altri, in modo che non solo è pronto a prestare beni esteriori a Dio e alla comunità, ma trasforma in dono tutto dò che egli ha ed è.
In questo, altrettanto che nella compiuta obbedienza e nella purezza, consisterà una parte della beatitudine, giacché « vi è più gioia nel dare che nel ricevere » ( At 20,35 ), a meno che il ricevere stesso non divenga una forma del dare, così come Paolo sa ricevere per donare ai Filippesi la gioia e il merito del dare ( Fil 4,10.17 ), e così come Maria si rallegra di essere colmata da Dio di simili doni, poiché così ella sarà occasione di beatificazione per tutti i popoli ( Lc 1,48 ).
Nell'anticamera del cielo ognuno verrà purificato fintantoché non ha acquisito l'atteggiamento interiore della povertà perfetta: ogni disputa per il mio e il tuo, per ciò che mi viene per vie legali addebitato e ciò che per vie legali tocca a te in sanzioni, diffide, ispezioni, istruttorie, ogni distinzione tra ciò che è mio diritto e ciò che è tuo diritto, ogni pretesa accampata nei confronti di Dio o del prossimo a qualsiasi titolo, in nome proprio o in nome del prossimo o in quello di una qualche giustizia universale in generale, tutti questi concetti e rappresentazioni, che complessivamente sono cresciuti sul terreno di una sfera privata ( quantunque anche così spirituale ed etica ), devono venir deposti, al più tardi nel fuoco purificante.
Là sarà da imparare anche la cosa più difficile, che solo a fatica entra in testa all'uomo di questo mondo, desideroso di giustizia e diritto: non distinguere più, nella stessa questione circa la colpa, tra mio e tuo, ma vedere nel peccato solamente ormai l'offesa inferta all'eterno amore di Dio, senza curarsi più di chi possa aver commesso il peccato, e perciò di conseguenza essere pronti ad espiare per ogni peccato, chiunque possa averlo commesso, così a lungo come piaccia a Dio.
Non è infatti possibile entrare nel cielo con un amore meno perfetto di quello che Paolo possedette sulla terra, lui che per amore ai suoi compagni di stirpe avrebbe portato volentieri su di sé la loro sorte, di essere anatema, separato da Cristo ( Rm 9,3 ), e che con questo non fece altro che assumere l'atteggiamento del Signore, il quale ha redento il mondo e ha fondato l'amore cristiano attraverso una sofferenza che non ricercava la giustizia della punizione, ma la grazia di poter soffrire.
Questa sarà dunque l'ultima e decisiva povertà del cielo: che ogni pensiero alla giustizia e alla ricompensa verrà definitivamente tolto da noi e realmente « diverrà manifesta la giustificazione da Dio senza la legge » ( Rm 3,21 ), unicamente in base alla legge della gratuita misericordia di Dio, in cui ogni giustizia è allo stesso tempo adempiuta e sovradempiuta.
Poiché nella stessa misura in cui noi richiediamo la giustizia essa ci verrà anche elargita ( Rm 4,4 ), ma questa giustizia allora può essere soltanto una giustizia giuridica: « poiché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati ».
Dunque « non giudicate, per non esser giudicati » ( Mt 7,1-2 ).
Come poi anche il re « consegna ai torturatori finché non abbia pagato l'intero debito » il servo non misericordioso, così il Signore si ricollega a ciò ammonendo: « così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello » ( Mt 18,35 ).
Ma « se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi » ( Mt 6,14 ).
« Perdonate, e vi sarà perdonato » ( Lc 6,37 ).
Questa è però l'estrema povertà: la rinuncia al proprio diritto, a tutta la rappresentazione in noi radicata di una inattaccabile sfera privata di diritti, pretese, esigenze motivate.
Una volta lasciata perdere questa, saremo « poveri nello spirito », che vengono per primi detti beati ( Mt 5,3 ).
Così lo stato finale nel cielo sarà il compimento dello stato originario nell'Eden.
Nel piano originario di Dio gli stati di vita che la Chiesa oggi conosce non avrebbero avuto bisogno di differenziarsi staccandosi dalla sua unità.
Povertà, verginità e obbedienza non sarebbero stati in opposizione alcuna rispetto a ricchezza, fecondità e libertà, ma sarebbero invece stati sin dall'inizio la loro più valida espressione e nel compimento del cielo la loro definitiva conferma.
Così l'uomo avrebbe potuto adempiere alla sua prima destinazione: la destinazione all'amore; povertà, verginità e obbedienza sarebbero state solamente le tre forme in cui si sarebbe manifestata la piena figura del suo amore.
In esse si sarebbe soltanto dispiegato il suo voto originario senza dolorose rinunce; esse avrebbero manifestato l'orientamento fondamentale della sua anima verso l'amore, equivalente all'orientamento verso la felicità.
Il desiderio di felicità avrebbe sempre avuto la forma del donarsi, dell'estasi dell'io al di fuori di sé, del completo servizio a Dio e al prossimo.
E così questa tensione avrebbe da sé collocato ogni singolo nel compito ideato da Dio per lui, poiché nulla nell'uomo, nessuno scrupolo egoistico, nessun oscuramento provocato da egoistici istinti contrari, si sarebbe contrapposto al chiaro riconoscimento e alla pronta accettazione della volontà di Dio.
L'uomo avrebbe così avuto il suo inconfondibile stato ( Stand ), nella distanza ( Ab-Stand ) da Dio tipica del servizio e nella vicinanza ( Nah-Stand ) a Lui tipica della missione, poiché colui che ama sa bene che egli non sarà mai identico all'amato, tuttavia per amore si immedesima nella volontà di lui.
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