Gli stati di vita del cristiano

Indice

L'opera della separazione

Seconda parte: Gli stati di vita del cristiano

A. La prima separazione degli stati di vita

L'unità dello stato originario, che era destinata a sfociare nello stato finale celeste, è infranta.

La solidarietà tra tutti coloro che partecipano della natura umana è infatti così grande che nessuna decisione di un singolo può rimanere senza conseguenze per l'intero genere umano.

E nessuno che partecipi della natura decaduta comune a tutti può innalzarsi al di sopra del genere umano per salvarlo tutto quanto.

Dovrebbe venire uno non soltanto dall'interno, ma contemporaneamente dall'alto, per ricostituire il piano originario di Dio.

La realtà del peccato non può venir mutata in irrealtà da un decreto esterno di Dio.

Il Figlio di Dio doveva prenderla su di sé, per espiarla nell'abbandono della croce.

Ma anche questo non poteva accadere semplicemente dall'esterno.

Non avrebbe corrisposto alla dignità della natura umana, se questa fosse stata trasferita in un altro stato come un oggetto senza vita; molto più si addiceva invece che nell'opera della massimamente libera grazia di Dio non mancasse il sì della cooperazione umana.

Per questo dallo stato della colpa in cui finora essa si trovava, l'umanità viene portata dal Redentore in un nuovo stato riconciliato con Dio: lo stato della croce, nel quale essa, grazie alla libera grazia della croce stessa, viene posta nella condizione ( in-Stand-gesetzt ) di cooperare alla completa redenzione e di percorrere la strada verso lo stato finale celeste insieme col Redentore.

Questo venir posti nella condizione di cooperare era necessario, poiché lo stato decaduto della colpa tolse all'uomo ogni possibilità di ricollocarsi con una prestazione propria nello stato della riconciliazione con Dio.

Quello che l'uomo come peccatore può fare è duplice: o rendersi conto della sua separazione da Dio a causa del peccato e lasciarsi andare disperato nella finitezza e nella caducità - « mangiamo e beviamo, perché domani moriremo! » ( 1 Cor 15,32 ) - oppure ( fondamentalmente non meno disperato ) tirarsi fuori con la violenza da questa finitezza e caducità attraverso progetti e tecniche religiose che si presume debbano liberare dai limiti salendo dall'uomo al superuomo, dal legame col corpo al puro spirito, dallo spirito finito a quello assoluto.

La prima via è testarda rassegnazione, la seconda altrettanto testardo titanismo.

Su ambedue queste strade l'uomo distrugge se stesso, poiché il suo destino sta al di là della sua natura e delle sue capacità, e solo nella riconciliazione con Dio egli può percepire questo destino e con la grazia di Dio perseguirlo.

Ciò che Gesù chiamerà « il mondo », nel senso negativo dell'ambito della lontananza da Dio, che ritiene di non abbisognare della grazia di Dio, oscilla tra questi due estremi della ricerca di sé e della fuga da sé, e in questo movimento rimane caotico e tenebroso.

Il peccato infatti è essenzialmente caos, non volendo riconoscere l'originaria analogia della creatura nei confronti di Dio e oscillando perciò disperato tra identità e dialettica ( della negazione di Dio ), per giungere infine a considerare caoticamente l'uno e l'altro uguali.

Analogia significa l'ordine di distanza e vicinanza, in cui attraverso una chiara distinzione viene costituita una chiara relazione.

Il caos rimane tenebra, poiché senza Dio l'uomo - che egli neghi Dio o che si eguagli a Lui - non può rischiarare se stesso.

« Allora Dio disse: sia la luce! e la luce fu. E Dio vide che la luce era cosa buona. Così Dio separò la luce dalle tenebre » ( Gen 1,3-4 ).

Questa volta appare non la luce creata, ma la luce increata.

Dio stesso, « che è luce, e in lui non ci sono tenebre » ( 1 Gv 1,5 ), mandato dal « Padre della luce » ( Gc 1,17 ), colui che viene come luce per brillare nelle tenebre ( Gv 1,5 ) del mondo: « Io sono la luce del mondo; chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma ha la luce della vita » ( Gv 8,12 ).

« Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » ( Gv 12,46 ).

La luce che questo inviato porta è egli stesso, cioè l'amore, e venire in luce significa entrare nel suo amore, significa « essere chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce » ( 1 Pt 2,9 ), significa essere in grado di « partecipare alla sorte dei suoi santi nella luce » ( Col 1,12 ).

Essere nella luce significa però amare, così come egli ama, in maniera perfetta ( 1 Gv 2,5 ); ed essere nelle tenebre significa rifiutare l'amore, significa odiare.

« Le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende.

Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre.

Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo.

Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va » ( 1 Gv 2,8-11 ).

Luce e tenebre vengono separate da Dio prima di ogni altra cosa, prima ancora che si possa pensare ad una mediazione tra le due.

Solo allorché esse stanno polarmente l'una di fronte all'altra come chiare realtà, senza più mischiarsi in maniera sfumata, diviene possibile una creazione ordinata.

Questo vale più che mai quando stanno l'una di fronte all'altra la luce dell'amore e la tenebra dell'odio.

Per questo appare il Figlio di Dio, che deve alla fine riconciliare tutto e abbattere ogni muro di separazione innalzato dal peccato ( Ef 2,14 ), la Chiesa del Quale sarà universale e in segno di unità nello spazio e nel tempo, nella struttura interna e nel modo di pensare, si distinguerà da tutte le sètte.

I suoi appartenenti « devono studiarsi di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace; poiché voi siete un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione » ( Ef 4,3-4 ).

Per questo il Figlio di Dio appare, dicevo, nel segno della radicale separazione.

Separazione, diamerismòs, è il suo messaggio: « Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma divisione.

D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre » ( Lc 12,51-53 ).

« Io non sono venuto per portare la pace sulla terra, ma la spada » ( Mt 10,34-36 ).

Questa spada diventa suo attributo permanente: « nella bocca teneva una spada affilata a doppio taglio » ( Ap 1,16 ), giacché la sua parola - ed egli è questa parola - essenzialmente taglia e divide, « poiché la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore » ( Eb 4,12 ).

Con questa spada della sua bocca egli minaccia di combattere contro i peccatori ( Ap 2,16 ) e di sconfiggere i popoli ( Ap 19,15 ), con essa vengono uccisi tutti coloro che gli hanno combattuto contro ( Ap 19,21 ).

Così egli fa partire anche, con l'apertura del secondo sigillo apocalittico, quel cavaliere al quale « è stato conferito il potere di togliere la pace dalla terra, cosicché gli uomini si sgozzassero a vicenda. Per questo gli fu consegnata una grande spada » ( Ap 6,4 ); egli è il principio della divisione.

Gesù non ha timore di porre gli uomini di fronte alla decisione ultima.

Egli la provoca addirittura, e si crea così una schiacciante schiera di nemici.

Egli non lascia valere zona alcuna di verità neutrali, teoretiche, poiché « Io sono la verità » ( Gv 14,6 ).

Verità e menzogna dell'uomo, luce e tenebra, salvezza e perdizione si decidono dalla decisione prò o contro lui ( Mc 8,38 ).

Una volta posta l'affermazione generale: « Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro » ( Mt 6,24 ), verranno da essa tratte due conseguenze: « Chi non è con me è contro di me » ( Mt 12,30 ), e: « Non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi » ( Mc 9,39-40 ).

Insopportabile è ora la tiepidezza: « Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè ne freddo ne caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca » ( Ap 3,15-16 ).

Il suo effetto è dunque primariamente un effetto divisore, e in tal modo un effetto che è in grado di porre ordine.

Solo sulla base di un chiaro « sì, sì, no, no » ( Mt 5,37 ) egli può e vuole operare in quanto amore.

Egli sa che cosa con un simile programma aspetta i suoi e non si stanca di annunciare questa sorte ai suoi discepoli, né tantomeno di lasciarli nell'ignoranza di che cosa attende anch'essi se vogliono essere suoi discepoli e seguaci: « Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebùi il padrone di casa, quanto più i suoi familiari! » ( Mt 10,22-25 ).

Come egli sarà odiato, perseguitato e ucciso dall'odio delle tenebre, così i suoi discepoli saranno da tutti odiati, arrestati e perseguitati; chi si lasciasse da questo destino distogliere dalla sua sequela, anche solo si stupisse di ciò e per questo diventasse incerto, non sarebbe degno di Lui ( Mt 10,17-22; Lc 21,8-19 ).

E a chi lo avrà rinnegato davanti agli uomini egli promette che lo rinnegherà davanti agli angeli di Dio ( Lc 12,9 ).

Egli stesso è il fuoco che consuma ( Eb 12,29 ), che egli è venuto a gettare sulla terra e il cui effetto divorante egli attende ansiosamente su se stesso ( Lc 12,49 ).

Chi si avvicina a lui, si avvicina al fuoco ( àgrafon ).

Così egli non vuole neppure movimenti di massa in cui il singolo venga in certo qual modo trascinato anonimamente; vuole invece la decisione personale, in cui si è sempre unici e soli: « Larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano! » ( Mt 7,13s ).

Con inflessibilità simile alla durezza dell'acciaio il Figlio ripete il comandamento dell'amore come suo comandamento.

È egli che riassume tutta la Legge e i Profeti in queste parole che esigono tutto ( Mc 12,29-31 ) e che nei suoi discorsi d'addio fa sfociare tutto in questo comandamento.

Ed anche se egli dapprima lo ripete nella forma dell'Antico Testamento, vale a dire che si deve amare il prossimo come se stessi, e cioè « tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro » ( Mt 7,12; Lc 6,31 ), tuttavia egli supera questa misura dell'amore al prossimo che resta collegata all'amore di sé con il suo proprio comportamento, lasciando che lo si trattasse così come non si augurerebbe a nessun uomo, rinunciando a misurare l'amore agli altri secondo l'amore a sé e consegnandosi così completamente da salvare tutti proprio attraverso il suo esser abbandonato.

Nudo egli si espone al peccato, per non lasciare nessuna distanza fra le tenebre e la luce, per far brillare la sua luce fin negli ultimi ripostigli della potenza antidivina passando attraverso morte, abbandono ed esperienza degli inferi.

Questa mancanza di risparmio dell'amore ( Rm 8,32 ) che offre volontariamente la sua vita per i nemici supera il comandamento dell'amore dell'Antico Testamento, e giustifica la sua denominazione di « comandamento nuovo » ( Gv 13,34 ).

Ciò che è nuovo è dunque il fatto che come misura dell'amore al prossimo non venga più posto il proprio io con i suoi desideri, ma l'amore del Signore.

E questo comandamento nuovo diventa il criterio dell'appartenenza a Lui.

« Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.

Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » ( Gv 13,34-35 ).

« Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.

Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.

Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando » ( Gv 15,12-14 ).

Il comandamento di amare così come Gesù lo ha fatto non viene però presentato come un grado raggiungibile solo con estrema fatica, un affare altamente delicato, ma come una cosa ovvia, semplice, naturale e valida per tutti, che risulta come di per sé dal fatto della redenzione: « A questo infatti siete stati chiamati. Anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme » ( 1 Pt 2,21 ).

Niente suona così semplice e così convincente come la conseguenza che il discepolo dell'amore tira dal fatto della dedizione di Cristo: « Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato » ( 1 Gv 2,6 ).

« Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ).

« Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri » ( 1 Gv 4,11 ).

« Sì, questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, deve anche amare il suo fratello » ( 1 Gv 4,21 ).

Non si dice affatto che il « deve » che si esprime in questo comandamento sia da interpretare come un semplice consiglio.

Nell'opera della separazione di luce e tenebre non si tratta di passaggi a tastoni e di penombre, di umani tentativi e fallimenti, ma solamente di bianco e nero.

Il comandamento è come all'inizio l'amore perfetto: « Chi dice: lo conosco, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto » ( 1 Gv 2,4-5 ).

« Io vi dico: amate i vostri nemici ( … ) Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » ( Mt 5,44.48 ).

Si tratta di un inaudito, apparentemente del tutto irreale, utopico aut-aut tra Dio e il diavolo, amore perfetto e perfetto odio.

« In Lui ( Cristo ) non v'è peccato. Chi rimane in lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto ne l'ha conosciuto.

Figlioli, nessuno vi inganni. Chi pratica la giustizia è giusto com'egli è giusto.

Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché il diavolo è peccatore fin dal principio ( … )

Chi è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio.

Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama il suo fratello » ( 1 Gv 3,5-10 ).

In nessun posto nel Vangelo la perfezione dell'amore viene presentata come un semplice consiglio e non invece come un autentico comandamento.

Una cosa così ovvia come la luce, che semplicemente c'è, brilla e si profonde.

Il comandamento viene infatti impartito dall'amore stesso, e l'amore non conosce alcun altro riguardo che il riguardo per l'amore stesso.

Tutto quello che appartiene ad esso è necessariamente buono, tutto quello che lo offusca o lo ostacola è altrettanto necessariamente cattivo; non ha alcuno spazio nell'amore: l'amore non lo conosce e non può nemmeno entrare con esso in relazione.

L'amore non può trattare e mercanteggiare su se stesso.

Esso è indivisibile, lo si può solo prendere o lasciare, amare od odiare.

L'opera della separazione porta alla formazione della Chiesa nella sua contrapposizione al « mondo ».

La Chiesa è lo spazio della luce, che si staglia al di sopra dello spazio delle tenebre e al di fuori di esse.

Questa separazione si compie attraverso un duplice e tuttavia unitario atto di Dio: la scelta e la chiamata.

Attraverso la scelta Dio si prende cura di un uomo o di un popolo e lo tira fuori in tal modo dagli altri che restano non eletti.

Attraverso la chiamata Dio notifica questa scelta agli eletti, che divengono così dei chiamati.

Non è possibile che Dio si scelga un uomo o un popolo senza notificare questa scelta nella chiamata.

Così i cristiani, in quanto formano la Chiesa, sono « la stirpe eletta, ( … ) il popolo - che Dio si è conquistato ( … ) chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce » ( 1 Pt 2,9 ).

Questi due concetti di chiamata ed elezione ( klésis kai /ekloghé, 2 Pt 1,10 ) stanno assieme e si completano l'un l'altro a formare ciò che fonda lo stato del cristiano nella Chiesa.

Questo stato ha la sua origine addirittura nell'atto di Dio, che nella chiamata che sceglie separa il cristiano dal mondo e lo colloca là dove egli in forza dell'elezione e della chiamata può stare e deve stare: « Io vi ho scelti dal mondo » ( Gv 15,19 ).

Così i cristiani si chiamano semplicemente gli eletti, electi ( Col 3,12; 2 Tm 2,10; Tt 1,1; 1 Pt 2,9; Rm 8,33 ), ma anche i chiamati, vocati ( Rm 1,6; 1 Cor 1,24; Gd 1 ecc. ).

E l'insieme di coloro che sono stati così eletti e chiamati è la « convocazione », la Ek-klesìa, la Chiesa.

Nella sua sostanza la Chiesa non è nient'altro che l'elezione oggettivata e la chiamata di Dio formalizzata, che nel mondo si presenta come lo spazio in cui ci si trova quando la scelta e la chiamata di Dio hanno colpito un singolo o una comunità.

La chiamata e l'elezione di Dio sono a tal punto ciò che è primario e che è portante, e la reazione dell'eletto e chiamato è a tal punto ciò che è portato, secondario, che la Chiesa è, secondo la sua oggettività, anteriore agli uomini che la compongono: questi vivono da essa e per essa, così come è in forza dell'elezione e della chiamata di Dio che essi sono quello che sono, cioè cristiani.

Innegabilmente l'elezione di Dio è così fatta che esige dall'eletto una cooperazione e sequela; la Sua chiamata deve venir in qualche modo udita ed esaudita dall'uomo.

Questo viene dagli evangelisti e dagli apostoli sempre nuovamente raccomandato alla cristianità, con ogni chiarezza desiderabile.

E tuttavia ciò non impedisce che il cristiano stia primariamente all'interno di un'iniziativa di Dio che si compie nei suoi confronti e che in forza dell'elezione e chiamata lo trasferisce nel suo nuovo stato fuori del « mondo », per fargli solo allora afferrare veramente quanto questa grazia della vocazione includa in sé l'esigenza di una risposta, di una vita conforme allo stato.

Elezione e chiamata hanno la loro origine nell'eternità di Dio, « che in lui ( in Cristo ) ci ha scelti già prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati davanti a lui che ci ha predestinati nell'amore ( … ) poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà » ( Ef 1,4-5-9 ), affinché noi possiamo perciò sfociare di nuovo nell'eternità, poiché ogni vocazione intende essere una vocazione all'eredità eterna ( Eb 9,15 ), all'eterna gloria ( 1 Ts 2,12; 2 Ts 1,10 ), alla vita eterna ( 1 Tm 6,12 ), anche se essa è in primo luogo vocazione alla Chiesa visibile come ad un « corpo » ( Col 3,15 ) con tutte le sue membra e vie della grazia ( 2 Pt 1,3 ), e con ciò alla comunione con il Figlio di Dio ( 1 Cor 1,9 ).

Essa è « elezione per la salvezza e vocazione attraverso il Vangelo ad aver parte alla gloria di Gesù Cristo » ( 2 Ts 2,14 ), ma « attraverso l'opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità » ( 2 Ts 2,14 ), cioè attraverso l'oggettiva santificazione sacramentale e la fede assunta oggettivamente, attraverso il fatto oggettivo del venir collocati entro la morte e la sepoltura di Cristo, col Battesimo, da cui sorge l'esigenza - certo pressante - di corrispondere a questo fatto, a questa elezione e a questa chiamata di Dio con una vita degna della vocazione ricevuta ( Rm 6,4ss ).

Secondo questa immagine, progettata nelle lettere degli apostoli a partire dall'esistenza ecclesiale che si basa su elezione e chiamata di Dio, potrebbe sembrare che con ciò l'opera di separazione attuata dalla Parola di Dio fosse compiuta.

Dal vasto ambito dei ( dapprima ) non chiamati, dal « mondo ».

Dio si è appropriato di un « popolo eletto », per portare a termine la decisiva unificazione di tutti percorrendo questa via della separazione che a noi appare incomprensibile.

Si tratta di coloro per i quali Dio si è deciso dall'eternità che « venissero chiamati alla comunione col Figlio suo » ( 1 Cor 1,9 ), per compiere insieme a lui l'opera della redenzione e combattere nella grande battaglia decisiva insieme con l'Agnello come « chiamati, eletti e fedeli » contro le potenze del male e i loro seguaci ( Ap 17,14 ).

In base a questa elezione e vocazione a stare nella Chiesa, che non è nient'altro che l'oggettività di elezione e chiamata, tutti i cristiani sembrano appartenere ad un unico stato comune.

Ma il Vangelo ci mostra un'altra immagine.

L'opera della divisione si compie non solo tra Chiesa e « mondo », ma continua anche all'interno della Chiesa, e precisamente in una duplice maniera, che corrisponde alla duplice divisione nel racconto della creazione tra acqua e terra ferma, tra cielo e terra, una divisione in verticale e orizzontale - conformemente alla forma della croce -: dapprima come divisione tra « stato dei consigli » e stato di vita nel mondo, poi come divisione tra stato sacerdotale e stato laicale.

Che si tratta di una doppia divisione inizialmente non viene nel Vangelo evidenziato, poiché la chiamata degli eletti di mezzo al popolo si compie in una elementare unitarietà, e perché per Gesù stesso, che a dire il vero « non è neppure sacerdote » ( Eb 8,4 ) nel senso derivato dall'Antico Testamento, non si tratta in primo luogo di fondare un nuovo sacerdozio, ma di guadagnare collaboratori per la sua opera nella vigna del Padre.

Questa vigna non è già la Chiesa ( post-pasquale ), ma il popolo di Dio; o meglio: le pecore perdute di questo popolo di Dio ( che rappresenta l'umanità ).

La prima articolazione divisoria nella vita di Gesù è la chiamata che separa alcuni e li fa partecipare alla missione divina del Figlio.

Solo allorché questa missione volge verso il completo sacrificio di sé di Gesù, allorché egli affida sacramentalmente questo sacrificio ai suoi e dispone del suo esito, la remissione dei peccati, solo allora spunta chiaramente dalla prima divisione la seconda.

E solo in uno stadio ulteriore della riflessione si chiarirà per la Chiesa la differenza fra le divisioni, in modo tale che verrà riconosciuta una distinzione tra diverse vocazioni e missioni.

Gesù incontra durante la sua vita pubblica due gruppi di uomini.

Il primo, numericamente molto superiore, è il popolo.

Di fronte ad esso stanno i discepoli, che il Signore in una scena quotidiana si sceglie secondo il suo libero giudizio e chiama fuori dal popolo.

« Egli salì su un monte, chiamò a sé quelli che volle, ed essi andarono da lui » ( Mc 3,13 ).

È questa una scelta più ristretta dopo una chiamata più estesa: « Egli chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli » ( Lc 6,13 ).

« Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante.

C'era una gran folla ( òklos ) di suoi discepoli e gran moltitudine di gente », che da ogni parte « erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; ( … ) tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usava una forza che sanava tutti » ( Lc 6,17-19 ).

La potenza di questa simbolica è evidentissima: il Signore sale da solo la montagna, lassù chiama i dodici a sé, « affinché essi fossero presso di lui » ( Mc 3,14 ), e discende insieme con loro verso la restante moltitudine dei discepoli e delle turbe che si accalcavano attorno a lui.

Proprio in questo accalcarsi delle turbe attorno a lui, che sta in contrasto così acuto col movimento degli apostoli, i quali si fanno avanti in quanto chiamati e si accompagnano al Signore, diventa chiara la distinzione dei due « stati ».

La folla corre dietro al Signore con un'imperturbabile invadenza, che non lo lascia ne dormire ne mangiare ( Mc 6,31 ), quasi lo schiaccia ( Mc 5,31 ), lo costringe a salire in una barca per non venire sospinto nel lago ( Mc 3,9 ).

La gente gli viaggia dietro, perfino sin dove egli si rifugia, lo ritrovano ovunque egli si nasconde, sono in tutto simili ad un gregge che è senza guida ( Mc 9,36 ) e che pieno di intuizione fiuta in lui una guida, un bene e una potenza.

Grandi schiere si accalcano, ma anche singoli, che quasi come portavoce di esse si offrono da sé alla sequela, senza esser stati chiamati dal Signore ( Lc 9,58 ).

Di quelli che il Signore sceglie perché facciano parte del suo seguito più ristretto non si sente dire che essi si siano accalcati in maniera invadente incontro al Signore da se stessi.

I primi due discepoli, a dire il vero, seguono Gesù, ma lo fanno dopo il cenno di indicazione del loro maestro, il Battista.

Gli altri se li prende Lui stesso, via dalle loro reti da pesca o dal banco della dogana, come Levi ( Mt 9,9 ).

Oppure vengono raccolti per strada, come Filippo ( Gv 1,43 ), o trascinati da amici o parenti, come Pietro ( Gv 1,41-42 ) o come il prudente Natanaele ( Gv 1,45-49 ).

Oppure essi, oppongono delle scuse davanti al "Seguimi!" ( Mt 8,21; Lc 9,59-62 ), o infine, dopo essersi offerti da loro stessi alla sequela e dopo che Gesù gli ha dischiuso la via della sequela, all'ultimo momento rifiutano ( Mt 19,16-22 ).

In nessun luogo la scelta e la chiamata del Signore nella comunità più ristretta appaiono una continuazione o una conseguenza di un anelito alla sequela che abbia la sua origine nell'uomo stesso.

Proprio quando si tratta di sequela in senso qualificato deve regnare a questo proposito una perfetta chiarezza: "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi" ( Gv 15,16 ).

Questo viene confermato dal movimento di alcuni singoli fuori dalla massa, i quali personalmente vengono a contatto col Signore: sono soprattutto quelli guariti con miracoli.

Tranne poche eccezioni - per esempio l'uomo alla piscina delle pecore ( Gv 5 ) - è la massa che porta gli ammalati al Signore o perlomeno lo chiama a venire dagli ammalati.

Il Signore non scansa questo movimento di avvicinamento, egli lascia che gli uomini si facciano incontro a lui, oppure va incontro al luogo dove essi giacciono ammalati o morti.

Egli donò loro la sua grazia salvifica per il corpo e per l'anima; la prima visibilmente, la seconda o formulata espressamente nella remissione dei peccati o inclusa nella guarigione dalla malattia.

Egli si rivela per essi un salvatore, un liberatore, un consolatore, uno che li incoraggia, si rivela come colui che è la vera luce del mondo.

Ma una volta impartita loro la grazia e una volta che essi stanno nella sua luce, egli li congeda e li fa tornare di nuovo in mezzo alla massa della gente.

Egli li ricolloca nei loro ambienti come uomini nuovi, cambiati.

Non c'è quasi nessuna guarigione del Signore che non trovi la sua conclusione nel sempre ritornante « vade », va'.

Così viene congedato il paralitico:

« Prendi il tuo letto e va' a casa » ( Mc 2,11 ),

così l'emorroissa: « Va' in pace e sii guarita dal tuo male » ( Mc 5,34 ),

così la Cananea: « Per questa tua parola va', il demonio è uscito da tua figlia » ( Mc 7,29 ),

la peccatrice: « Va' in pace, la tua fede ti ha salvata » ( Lc 7,50 ),

il cieco di Betsaida: « Egli lo mandò poi a casa » ( Mc 8,26 );

il cieco di Gerico: « Va', la tua fede ti ha salvato » ( Mc 10,52 ),

l'adultera: « Va' e non peccare più » ( Gv 8,11 ),

il centurione: « Va', e sia fatto secondo la tua fede » ( Mt 8,13 ),

il decimo lebbroso: « Alzati e va', la tua fede ti ha salvato » ( Lc 17,19 ),

il funzionario reale: « Va', tuo figlio vive ».

Spesso egli ripone un sanato o un risorto espressamente nel suo normale ambiente di vita: egli comanda di dar da mangiare alla figlia di Jairo ( Mc 5,43 ), e il giovinetto di Naim lo restituisce a sua madre ( Lc 7,15 ).

Persino il suo amico Lazzaro non lo abbraccia, dopo che lo ha risuscitato, ma ordina invece: « Scioglietelo dalle bende e lasciatelo andare » ( Gv 11,44 ).

Spesso egli non riesce apparentemente ad attuare con sufficiente rapidità il suo gesto di congedo: il lebbroso lo monda e « lo rimandò subito via » ( Mc 1,43 ).

E quando egli ha predicato o ha operato un miracolo di fronte a tutto il popolo come nel caso della moltiplicazione dei pani, conclude poi la sua opera giornaliera con un esplicito gesto di congedo delle folle ( Mc 8,9 ).

La più caratteristica di queste scene di congedo è quella dell'indemoniato di Gerasa, il quale dopo la sua guarigione prega il Signore « di permettergli di accompagnarlo. Ma egli non glielo permise, bensì gli disse: Va' a casa tua, dai tuoi, e annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato » ( Mc 5,19; Lc 8,38-39 ).

Il permesso di parlare del miracolo è come una consolazione per il permesso negato riguardo al poterlo seguire, giacché solitamente il Signore vieta rigidamente al guarito di diffondere la notizia del miracolo.

Certamente quell'uomo era stato una piaga per l'intero territorio, e i Geraseni erano già venuti dalla città e avevano visto tutto.

L'incarico apostolico che quell'uomo ottiene rimane del tutto limitato e riferito soltanto alla sua persona; non può affatto venir scambiato con gli incarichi di predicazione che ricevono i discepoli.

È come se Gesù non sopportasse di avere tra i suoi discepoli nessuno di coloro sui quali egli ha compiuto un miracolo.

E neppure nessuno che abbia una storia precedente troppo collegata alla sua persona.

Coloro che dovevano essere presso di lui li aveva invece già nella prima chiamata « forniti del potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità » ( Mt 10,1 ), e aveva poi impartito loro la missione: « Andate e predicate: il Regno dei cieli è vicino; guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni » ( Mt 10,7-8 ).

Così il movimento dei due gruppi di seguaci è esattamente opposto.

I discepoli pervengono a Gesù in base ad un invito, un quasi stereotipo « Vieni! » che li sollecita e che si contrappone al « Va'! » con il quale Gesù congeda i non chiamati.

In base a questo « Vieni », « Vieni e vedi », « Vieni e seguimi », i discepoli, che oramai sono presso Gesù, vengono inviati lontano da lui e poi « tornano da lui per riferirgli tutto quello che hanno fatto e insegnato » ( Mc 6,30 ), mentre invece la massa, allontanandosi dal mondo nel quale vive, si avvicina al Signore e dopo l'incontro con lui viene di nuovo rimandata al suo posto nel mondo.

Ambedue le forme di incontro, ambedue i movimenti circolari si completano l'un l'altro reciprocamente, ma ciò avviene in maniera tale che il percorso della massa incontro al Signore è un percorso contrassegnato dalla ricerca nello stato di bisogno e il suo congedo significa una guarigione e il conferimento di una grazia in ordine al suo futuro continuare a stare nel mondo, mentre l'invio dei discepoli nel mondo avviene unicamente dietro incarico del Signore e per suo interesse, e il loro ritorno a lui significa un ritorno al loro vero e proprio luogo di residenza.

La maniera brusca con cui vengono qui descritti i due contrapposti movimenti dell'unico e medesimo rapporto con Cristo non può far dimenticare che entrambi questi due movimenti saranno nella Chiesa di Cristo forme della sua personale sequela, sulla cui perfezione nell'amore, attraverso la forma in sé non è ancora stato detto niente.

I punti di vista che si completano a vicenda sono molti: essi diverranno riconoscibili in tutta la loro portata solo allorquando noi ( nel capitolo « Parabola e verità » e nelle riflessioni sullo « Stato di vita cristiano » ) saremo penetrati più a fondo nel rapporto tra « stato » e « vita » cristiana.

Solo a mo' di accenno si deve qui ora richiamare l'attenzione su tre punti.

a) Discepoli e popolo prefigurano durante la vita e l'opera terrena di Gesù non semplicemente due degli stati che esisteranno nella Chiesa post-pasquale; è piuttosto vero che nello stato dei discepoli e nella loro chiamata è prefigurato anche lo stato e la chiamata dei credenti, mentre il popolo, anche in quanto credente, rappresenta anche l'antico Israele, anzi addirittura l'umanità in generale, dalla quale viene chiamata fuori la Chiesa.

b) Nella chiamata dei Dodici viene poi non solamente fondato lo stato di coloro che stanno presso il Signore, ma viene anche prefigurato oltre a ciò l'apostolato presbiterale, il ministero in vista del quale i Dodici sin dall'inizio vengono dotati di « poteri » ( Mc 3,15 ).

Dietro di essi stanno altri discepoli - Luca li chiama i settantadue -, i quali potrebbero venir scelti e « designati » ( Lc 10,1 ) per missioni speciali, stanno però soprattutto le donne che seguono Gesù ( Lc 8,2s ), lo stato delle quali rimane dapprima difficilmente determinabile ( esse « lo servono con le loro capacità », ma non camminano insieme ai discepoli ) e si illuminerà solo quando avremo parlato dello stato di Maria.

Ciò che qui è leggibile prendendo in considerazione le persone viene formalmente chiarito nella maniera in cui la sequela che devono vivere i discepoli viene presentata come vincolante per tutti i credenti in Cristo ( Lc 9,23s; Lc 9,37; Lc 2,32s ).

Così si può per lo meno dire anticipatamente che lo spirito di radicalità che appare incarnato nel passo compiuto dai dodici chiamati deve forgiare l'intera comunità dei credenti.

c) Quanto questo abbia valore per Gesù lo si vede nelle predizioni a tutti i suoi seguaci, secondo cui essi si troveranno inevitabilmente collocati in posizione esposta e dovranno restare fedeli a lui a costo di rimetterci ogni rispetto da parte del mondo.

A questo proposito entra in gioco l'affermazione circa « l'odio del padre e della madre, della moglie e del figlio … » ( Lc 14,26 ) come presupposto per il discepolato in generale, cosa che a fortiori include una perdita di tutti i beni materiali, e alla fine anche della propria libertà ( « colui che non odia perfino se stesso … » ).

La serietà della situazione del confessare la propria fede non è inferiore a quella della situazione di morte, che trasferisce ugualmente il credente nello « stato » in cui i discepoli chiamati sono anticipatamente passati.

Ciò mostra ancora una volta quanto la forma di vita dello « stato dei consigli » proietta la sua luce o la sua ombra, al di là del modo attuale in cui questo stato viene vissuto, sull'insieme della Chiesa.

Vogliamo però tornare per un momento a considerare più da vicino questa forma di stato di vita.

Indice