Summa Teologica - I-II |
Pare che l'uso non manchi negli animali privi di ragione.
1. Fruire è più nobile che usare: poiché, come scrive S. Agostino [ De Trin. 10,10.13 ], « noi facciamo uso di ciò che riferiamo ad altre cose, di cui vogliamo fruire ».
Ora, abbiamo già dimostrato [ q. 11, a. 2 ] che negli animali bruti si trova la fruizione.
Quindi a più forte ragione non può mancare l'uso.
2. Applicare le membra ad agire è fare uso delle membra.
Ma gli animali applicano le membra a certe operazioni: come i piedi a camminare e le corna a colpire.
Quindi negli animali non manca l'uso.
S. Agostino [ Lib. LXXXIII quest. 30 ] insegna: « Può usare di una cosa solo l'animale dotato di ragione ».
Usare, come si è detto [ a. 1 ], significa applicare un principio operativo all'operazione: come acconsentire è applicare il moto appetitivo a desiderare qualcosa.
Ora, l'applicare una cosa a un'altra è solo di chi è arbitro di essa: cioè soltanto di colui che sa stabilire un rapporto tra una cosa e un'altra, compito questo della ragione.
Quindi soltanto l'animale razionale può acconsentire e usare.
1. La fruizione indica un moto diretto dell'appetito verso l'oggetto appetibile; invece l'uso indica un moto dell'appetito verso una cosa in ordine a un'altra.
Se dunque si confronta l'uso con la fruizione in rapporto all'oggetto, allora la fruizione è superiore all'uso: poiché l'oggetto appetibile direttamente è migliore di quello che è appetibile solo in ordine ad altro.
Se invece si fa il confronto in rapporto alla facoltà conoscitiva richiesta, allora si ha una superiorità da parte dell'uso: poiché spetta alla sola ragione stabilire dei rapporti tra una cosa e un'altra, mentre per l'apprensione diretta bastano i sensi.
2. Gli animali mediante le loro membra compiono delle operazioni per istinto di natura, non perché conoscono l'ordinamento delle membra a tali operazioni.
Quindi non si può dire propriamente che applichino le membra ad agire, né che usino le membra.
Ma bisogna considerare che il fine ultimo può essere inteso o in assoluto, o in relazione a un soggetto.
Infatti, come si è già spiegato [ q. 1, a. 8; q. 2, a. 7 ], talora si considera fine la cosa stessa da raggiungere, talora invece il conseguimento o il possesso della medesima.
Per l'avaro, p. es., il fine sarà o il danaro o il possesso del medesimo.
Ora, è evidente che in assoluto il fine ultimo è la cosa da raggiungere: infatti il possesso del danaro è un bene solo in forza della bontà del danaro.
Invece in relazione all'avaro il fine ultimo è l'acquisto del danaro: infatti l'avaro non cerca il danaro che per possederlo.
Parlando dunque oggettivamente e in senso proprio, si dice che un uomo che ha posto il suo fine nelle ricchezze ha la fruizione di esse; considerando invece queste in correlazione al loro possesso si dice che ne ha l'uso.
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